GHIBERTI, Lorenzo
Sono contraddittorie le indicazioni documentarie relative alla nascita del G., che nelle portate al Catasto di Firenze dal 1427 al 1442 dichiarava di essere nato nel 1381 e di essere figlio dell'orafo Bartolo di Michele (Mather, 1948; Krautheimer, 1956). Fu lo stesso G. a smentire però le sue asserzioni quando, nel 1444, venne accusato di essere in realtà un figlio illegittimo, e di rivestire quindi in maniera indebita la carica di membro del Collegio dei dodici, a cui era salito l'anno precedente. Nel ricorso che presentò alla Signoria si difese sostenendo di essere nato nel 1378 dal regolare matrimonio tra Fiore e Cione Paltami Ghiberti, figlio di un notaio, che si celebrò a Pelago nel 1370. La donna avrebbe in un secondo tempo lasciato il marito per trasferirsi a Firenze col G. e la sorella maggiore di questo, dove avrebbe convissuto more uxorio con Bartolo, per sposarlo solo alla morte di Cione, nel 1406; l'orafo avrebbe quindi allevato ed educato il G. "tamquam filius a pueritia sua" (Gaye, 1839, p. 150) tanto da essere da molti ritenuto erroneamente il suo padre naturale. Questa seconda versione dei fatti è stata generalmente accolta dai biografi, ma non si può escludere che il G. abbia volutamente anticipato la propria data di nascita per avvalorare la sua rivendicazione di legittimità (Krautheimer, 1956).
L'apprendistato del G. si svolse dunque nella bottega fiorentina di Bartolo, dove si impadronì delle tecniche e del formulario stilistico dell'oreficeria tardogotica toscana, fortemente influenzata da modelli d'Oltralpe, a cui certo affiancò la visione diretta di oggetti di produzione nordica; quest'ultima, importante componente della sua formazione è adombrata nei Commentari, redatti dal maestro negli ultimi anni della sua vita, nel ricordo dell'orafo Gusmin di Colonia, personaggio altrimenti ignoto, di cui il G. sostiene di aver guardato in gioventù molte opere. La tendenza classicista promossa a Firenze nella scultura architettonica col cantiere della porta della Mandorla della cattedrale dovette invece sollecitare l'interesse del G. per la plastica antica.
Ancora nei Commentari il maestro ricorda di essersi dedicato in gioventù, e con particolare impegno, anche alla pittura, tanto da venire chiamato a Pesaro nel 1400 da Malatesta IV per decorare una stanza (oggi non più esistente) del suo palazzo; l'aveva accompagnato un "egregio pictore" di cui non fa il nome, ma che forse è da riconoscere nel fiorentino Mariotto di Nardo, probabilmente presente quell'anno nella città marchigiana (Salmi, 1955; Boskovits, 1968).
Essendo stato raggiunto dalla notizia del concorso indetto dall'arte di Calimala per la realizzazione della seconda porta del battistero di S. Giovanni, il G. lasciò il collega a ultimare l'impresa e fece ritorno a Firenze.
Sempre secondo i Commentari ghibertiani, che costituiscono la fonte più attendibile sul famoso concorso, il G. si trovò a competere con Filippo Brunelleschi, Simone da Colle, Niccolò di Luca Spinelli, Jacopo della Quercia, Francesco di Valdambrino e Niccolò di Pietro Lamberti, verosimilmente reduci da una precedente selezione (Krautheimer, 1956), nella realizzazione entro un anno di una formella bronzea raffigurante il Sacrificio di Isacco inserita in una cornice polilobata simile a quelle dei rilievi della prima porta del battistero di Andrea da Pontedera; le opere furono poi valutate da una giuria composta da 34 membri che avrebbe assegnato all'unanimità la commissione al G., sebbene nella Vita di Filippo Brunelleschi attribuita ad Antonio Manetti si affermi che il maestro condivise la vittoria con Brunelleschi, il quale preferì rinunciare all'incarico piuttosto che collaborare con il collega.
La formella del concorso, a cui va probabilmente riferito un pagamento di 30 fiorini versato al G. nel 1402 (Krautheimer, 1956), non venne però utilizzata per la decorazione della porta, in quanto tra il 1402 e il 1403 si sostituì il programma originario, che prevedeva la raffigurazione di episodi del Vecchio Testamento, con un ciclo di storie della Vita di Cristo. La formella fu comunque conservata con l'idea di utilizzarla "per metterla nell'altra porta, se Testamento Vecchio vi si facesse" (Frey, 1911, p. 357) e fu esposta nella sala delle Udienze dell'arte di Calimala; oggi si conserva, insieme con quella di Brunelleschi, al Museo nazionale del Bargello, mentre le prove presentate dagli altri concorrenti sono andate perdute.
In questa sua prima opera accertata il G. dimostra una precoce maturità artistica, ambientando armonicamente all'interno della cornice mistilinea una scena bilanciata su studiate rispondenze lineari, in cui si integrano senza dissonanze motivi ispirati all'antico. Con impeccabile padronanza del mezzo tecnico riuscì a fondere l'intera formella in un unico blocco.
Nel 1403 deve considerarsi già concepito e progettato l'assetto generale della porta come appare oggi: in conformità al prototipo di Andrea da Pontedera, fu ideata una decorazione composta da 28 pannelli quadrati incorniciati con un fregio continuo e contenenti altrettanti rilievi inseriti in compassi polilobati. Nell'ordine inferiore si affiancano le figure degli Evangelisti in trono sormontate da quattro Padri della Chiesa, mentre a partire dal terzo ordine ha inizio la sequenza di venti episodi della Vita di Cristo, in cui appare enfatizzato il ruolo salvifico del Figlio di Dio nella Redenzione (Paolucci, 1994; 1996); agli incroci dei pannelli emergono testine a tutto tondo di Profeti e Sibille inserite in piccole cornici polilobate, nella collocazione in cui Andrea aveva disposto, nella sua porta, una serie di teste leonine.
Il progresso dei lavori per quest'impresa può essere oggi seguito grazie agli estratti che Carlo Strozzi trasse nel XVII secolo dai documenti originali dell'arte di Calimala, documenti che andarono perduti nel Settecento. Il 3 sett. 1403 i consoli dell'arte deliberarono di collocare la porta sul lato orientale del battistero, di fronte alla facciata della cattedrale. Il contratto di allogazione fu firmato il 23 novembre; sebbene il documento fosse intestato al G. insieme con Bartolo di Michele, evidentemente perché l'artista, non ancora immatricolato ad alcuna corporazione, non poteva assumere da solo la responsabilità giuridica della commissione, vi si trova specificato che le formelle dovevano venire eseguite dal G., il quale aveva facoltà di avvalersi della collaborazione del padre o di altri aiutanti di sua scelta, e che garantiva la produzione di tre formelle ogni anno (Frey, 1911).
Il G. radunò per l'impresa, prima dell'agosto del 1405 (Krautheimer, 1956), una équipe composta da undici collaboratori, tra cui Bernardo Ciuffagni e il giovane Donatello. È probabile che a questi primi anni di attività della fonderia ghibertiana vadano riferite le formelle raffiguranti la Natività, l'Annunciazione e l'Adorazione dei magi, in quanto presentano composizioni spaziali affini a quella della formella del concorso (Krautheimer, 1937; 1956).
Poiché già in questi primi anni di lavoro del cantiere furono disattese le scadenze pattuite dal contratto, il 1° giugno 1407 l'arte procedette alla redazione di un secondo documento, più vincolante per il G., nel quale richiedeva al maestro la stesura di un resoconto quotidiano dei movimenti di bottega e l'impegno di non accettare altri incarichi senza il consenso dei consoli fino a tutto l'anno seguente la conclusione dei lavori, nel caso che l'arte decidesse di affidargli una seconda commissione. In ottemperanza a questo nuovo contratto i ritmi di produzione furono notevolmente incrementati e la bottega raggiunse da quella data il numero di venticinque lavoranti, tra cui Paolo Uccello, qualificato come garzone (Frey, 1911). L'anno successivo il G. risulta immatricolato all'arte della seta.
L'ammontare delle spese per i materiali registrate fino al 1415 lascia supporre che nel corso di questi otto anni venne compiuta gran parte del lavoro di fusione delle formelle; dopo di allora è probabile che l'impegno della bottega fosse costituito principalmente dalla fusione del telaio della porta e dal lungo lavoro di rinettatura e doratura delle scene (Krautheimer, 1956).
L'adesione ai modi del gotico-internazionale, nelle inflessioni decorative delle figure e dei panneggi e nel ritmo cadenzato delle composizioni caratterizza le scene riferibili a questo periodo, ovvero l'Agonia nell'orto, Gesù fra i dottori, le Tentazioni di Cristo, la Trasfigurazione, la Crocifissione, l'Ultima Cena e le figure degli Evangelisti e dei Padri della Chiesa. Una fase più matura, risalente probabilmente agli anni intorno al 1415 e al 1416, rivelano invece la Resurrezione di Lazzaro, la Cacciata dei mercanti dal tempio, l'Entrata a Gerusalemme, Cristo di fronte a Pilato, Cristo nella tempesta e la Resurrezione, per una maggiore indipendenza delle raffigurazioni dai vincoli della cornice e per la complessità delle scene, composte da numerosi personaggi calati in elaborate ambientazioni paesaggistiche e architettoniche. Per ultime furono probabilmente realizzate le formelle con l'Arresto di Cristo, l'Andata al Calvario, la Pentecoste e la Flagellazione, dove le intere composizioni appaiono strutturate intorno a un unico elemento figurativo centrale (Krautheimer, 1937; 1956).
I consoli dell'arte di Calimala autorizzarono la doratura delle formelle il 30 marzo del 1423. In quell'anno venne ultimata, su disegno del G., la cornice della porta, composta da un fregio vegetale continuo abitato da piccoli animali nel fronte esterno dell'architrave, e da una decorazione floreale, a rilievo più basso, in quello interno, e venne anche completato il rivestimento del fronte interno dei battenti, dove si apposero ventisette rilievi con teste leonine, anch'essi non autografi. Con questi interventi la porta era conclusa e fu issata sui cardini nella facciata orientale del battistero il 19 apr. 1424 (Frey, 1911).
Nel corso dei quasi venticinque anni impiegati a portare a termine quest'impresa, il G. non aveva tuttavia mai smesso di accettare altri incarichi, anche di notevole impegno, che svolse senza interrompere i lavori per la porta.
Già nel 1404 aveva infatti fornito il disegno per la vetrata del finestrone circolare centrale della facciata del duomo, raffigurante l'Assunzione, di cui fece menzione nei Commentari; si trattava verosimilmente di un disegno a scala ridotta, poi trasposto in dimensioni reali dal vetraio tedesco Nicola di Piero che realizzò l'opera, mentre la fase terminale di dipintura a grisaglia dell'immagine sembra doversi a Mariotto di Nardo (Boskovits, 1968).
Sempre nel 1404 il maestro fu convocato all'interno di una commissione di pittori, orafi, capomastri e scultori, tra cui Brunelleschi, per una consulenza sulla continuazione dei lavori nella tribuna del duomo, dopo che un errore del capomastro Giovanni d'Ambrogio nell'impostare l'altezza degli sproni aveva reso necessarie delle modifiche al progetto in corso d'opera; da un documento del 1407 risulta che il G. era stato incaricato di progettare le nuove finestre del cleristorio (Guasti, 1887), di cui consegnò i disegni il 27 nov. 1409 (Saalman, 1980).
Intanto, entro il 1407, era uscito dalla bottega del G. il reliquario di s. Jacopo oggi nel tesoro della cattedrale di Pistoia, dove forse il maestro realizzò personalmente i due angeli di fusione che si ergono dal basamento (Ragghianti, 1954; Krautheimer, 1956).
Tra l'aprile e l'agosto del 1410 il G. fornì i progetti dei portali della facciata occidentale di Orsanmichele dove ripeté lo schema tripartito dei portali trecenteschi dell'oratorio disegnati da Simone Talenti, ampliando però la sezione centrale, per inserirvi un'apertura arcuata conclusa da un timpano mistilineo gattonato (Finiello Zervas, 1991; 1996).
In quegli anni, sempre a Firenze, realizzò i disegni per le due vetrate circolari laterali della facciata della cattedrale, raffiguranti S. Lorenzo e S. Stefano, messe in opera da Niccolò di Piero tra il 1412 e il 1415 (Poggi, 1909).
Mentre la porta si trovava, come si è visto, in una fase molto intensa della sua lavorazione, la stessa arte di Calimala incaricò il G., almeno dal 1413 (Frey, 1911), di realizzare una statua bronzea di S. Giovanni Battista, protettore dell'arte, da porsi su un lato del proprio pilastro a Orsanmichele, dando corpo a un progetto precedente al 1405 (Krautheimer, 1956).
Un diario dell'artista oggi perduto ma noto a Baldinucci (1768), riferiva che il G. diede inizio ai lavori di fusione della statua il 1° dic. 1414. Contemporaneamente si procedeva all'esecuzione del tabernacolo marmoreo che avrebbe ospitato la scultura, realizzato in forme gotiche dallo scalpellino Albizzo di Piero certamente su disegno del G.; la statua vi trovò posto nel 1416 e il maestro ricevette il saldo per la doratura del bronzo nel novembre dell'anno successivo.
Col S. Giovanni Battista (Museo di Orsanmichele), il G. compì un'impresa tecnica di notevole rilievo, fondendo in un unico pezzo la più grande statua in bronzo fino ad allora realizzata a Firenze; nonostante le sue dimensioni monumentali, rivela un'attenzione per il dettaglio minuto, cesellato con accurata finezza, che la avvicina agli oggetti di oreficeria del gotico internazionale.
Per l'altare di S. Anna di Orsanmichele il G. fornì, entro il 1418, il disegno di due candelabri - ora perduti - in argento decorati con smalti, della cui realizzazione fu incaricato l'orafo Guariente di Giovanni nell'estate di quell'anno (Milanesi, 1901).
Un altro incarico di grande impegno gli giunse entro il giugno del 1416, quando si recò a Siena insieme con i suoi collaboratori Giuliano di ser Andrea e Bartolomeo di Michele (Id., 1854); il maestro era stato richiesto dall'Opera del duomo della città come supervisore del progetto per il fonte battesimale, che si intendeva erigere nel S. Giovanni.
Al suo arrivo, il disegno generale del complesso, composto da un tabernacolo marmoreo immerso al centro di una vasca esagonale, era stato forse già concepito da artisti locali, ma fu probabilmente lui a suggerire la soluzione di decorare i sei lati esterni della vasca con altrettanti bassorilievi bronzei (Pope-Hennessy, 1955) e con figure a tutto tondo negli angoli. Nel gennaio del 1417 il G. era nuovamente a Siena, e gli fu richiesto di portare a visionare un bassorilievo in bronzo come esempio di quelli che aveva proposto di realizzare (Bacci, 1929); il 21 maggio del 1417 il progetto era approvato e il G., per la terza volta nella città, riceveva l'incarico di realizzare personalmente due dei sei rilievi, da completare ciascuno nell'arco di dieci mesi, e da presentare all'ispezione prima di procedere all'opera di doratura. Gli veniva inoltre garantita l'opzione per l'allogazione delle statuette bronzee fino all'esame della prima scena consegnata (Milanesi, 1854).
L'accumularsi degli impegni a Firenze impedirono tuttavia al G. di portare avanti i lavori nei tempi previsti dal contratto. Infatti quando papa Martino V soggiornò a Firenze, dal febbraio del 1419 al settembre dell'anno successivo, fu al G. che giunse la richiesta di realizzare una mitria d'oro e un bottone, decorato con la figura del Padre Eterno benedicente di cui resta memoria nei Commentari; da documenti del maggio del 1419 risulta anche attivo nell'opera di allestimento dell'appartamento papale nel convento di S. Maria Novella, per il quale fornì il progetto di una scala (Milanesi, 1878; Poggi, 1902).
È possibile che il G. sia inoltre direttamente intervenuto nella realizzazione del reliquiario del braccio di s. Andrea per la chiesa di S. Francesco a Città di Castello, oggi nella Pinacoteca comunale, che porta la data 1420, da riferire al suo completamento (Galli, 1998).
Al giugno del 1419 risale inoltre la delibera dei consoli dell'arte del cambio di installare sulla parete esterna del pilastro di nordovest di Orsanmichele una statua bronzea di S. Matteo, da allogare "al più valente maestro ci sia" (Doren, 1906, p. 21); un comitato composto da quattro operai dell'arte, tra cui Cosimo de' Medici, venne formato per soprintendere all'impresa. Il G. ricevette l'incarico a partire dal mese successivo e nell'agosto pattuì un limite di tre anni per la consegna della statua, le cui dimensioni, come si tenne a precisare, non sarebbero dovute risultare inferiori a quelle del S. Giovanni Battista dell'arte di Calimala.
Nel 1421 un errore nell'operazione di gettatura impose di ripetere la fusione, che risulta effettuata il 30 genn. 1422, quando iniziarono i lavori di nettatura e di cesello. Tra i collaboratori del G. nell'impresa, nel gennaio del 1422, compare Michelozzo, che nella portata al Catasto del 1427 dichiarò infatti di essere in credito di un pagamento dovutogli per il S. Matteo, quando era compagno del G. (Gaye, 1911, p. 117). Il 17 dicembre i consoli dell'arte stabilirono la spettanza del G. a 650 fiorini, e il conto finale per l'opera è datato 6 marzo 1423 (Doren, 1906).
Pur confermando la sensibilità del G. per le composizioni modulate dal ritmo della linea, il S. Matteo risente decisamente dell'influenza classicista delle sculture monumentali realizzate da Donatello e Nanni di Banco per Orsanmichele, presentando una salda impostazione spaziale e imitando, nella la positura del personaggio, dei modelli romani.
Anche nel tabernacolo marmoreo, eseguito dal maggio del 1422 dagli scalpellini Jacopo di Corso e Giovanni di Niccolò su disegno del maestro, venne adottato il motivo classico della nicchia conchigliata; ai lati del timpano due statuette raffiguranti Profetesse oggi al Bargello, vanno probabilmente attribuite a Michelozzo (Finiello Zervas, 1996).
Intanto il 19 ag. 1418 l'Opera del duomo aveva bandito un concorso per il progetto della cupola, al quale partecipò anche il G. presentandone l'anno successivo un modello "in mattoni picholini crudi" (Guasti, 1857, p. 21); a differenza del progetto ideato dal Brunelleschi, il modello del G. doveva comprendere una centina lignea, in quanto il maestro risulta coadiuvato nella sua costruzione da un legnaiolo, Bartolomeo dello Studio, e dai suoi garzoni (Sanpaolesi, 1941). Il concorso fu vinto pari merito dal G. e da Brunelleschi, e un collegio di quattro membri appositamente istituito dall'Opera stabilì che i due maestri lavorassero insieme a un unico modello definitivo.
Ancora con Brunelleschi il G. risulta soprintendere alla costruzione della cupola nell'aprile del 1420 insieme con il capomastro Battista d'Antonio, per un salario di 3 fiorini mensili, e con la collaborazione dei sostituti Giuliano d'Arrigo Pesello e Giovanni di Gherardo da Prato (Guasti, 1857). Il G. stese insieme con i suoi colleghi un rapporto sul programma di costruzione nel gennaio del 1426, ma da quell'anno vide ridotto il suo incarico, che pure rinnovò fino al giugno del 1436, a una sola ora di lavoro giornaliera, mentre Brunelleschi venne impiegato a tempo pieno con un alto salario.
Anche in vista di questo ridotto coinvolgimento all'interno del cantiere, è del tutto probabile che il ruolo del G. nell'ideazione e nella costruzione della cupola si sia concretato in un'opera di supervisione e controllo piuttosto che di effettivo intervento sul progetto, di cui solo Brunelleschi, in un documento del 1423, risulta "inventor et ghubernator maior" (ibid., p. 71).
Il 4 genn. 1420 il G., insieme con l'orafo Cola di Nicola Spinelli, era stato anche chiamato come supervisore ai lavori per gli stalli lignei di Arduino da Baese nella cappella Strozzi a S. Trinita (Milanesi, 1901; Poggi, 1902), la cui edificazione era stata intrapresa nel 1418 da Palla Strozzi con un lascito del padre Onofrio; i documentati rapporti del G. col committente, già tra i supervisori della porta del battistero, cui il maestro forniva disegni di ignota pertinenza ancora nel 1426 (Russell Sale, 1978), lasciano supporre un coinvolgimento più consistente del G. nell'impresa; gli vengono infatti attribuiti almeno i progetti delle due monofore sul fianco esterno della cappella e del portale di accesso dal transetto destro della chiesa, messo in opera tra l'ottobre e il novembre del 1423, che oggi appare mutilo ma che in origine era coronato da un timpano fiancheggiato da pinnacoli.
All'aprile del 1424 risale la fornitura da parte del G. di due cartoni raffiguranti la Cacciata di Gioacchino dal tempio e la Morte della Vergine, per le prime due vetrate circolari della navata maggiore del duomo, dove avrebbe dovuto trovare continuazione il ciclo mariano iniziato nella facciata con l'Assunta, secondo un progetto che fu presto abbandonato; la realizzazione delle due vetrate era stata affidata al vetraio fra Bernardino (Poggi, 1909).
A quest'epoca si deve anche la croce astile argentea di S. Maria all'Impruneta, dove è possibile che sia direttamente intervenuto il G. (Krautheimer 1937; Galli, 1998).
Intanto il G. riceveva pressanti sollecitazioni per la consegna delle due formelle bronzee per il fonte battesimale di Siena; nel novembre del 1420 ricevette un pagamento corrispondente a circa il prezzo di un rilievo, l'unico a cui evidentemente aveva lavorato. Ma nel 1425 il grave ritardo sui termini contrattuali spinse Bartolomeo di Giovanni, operaio del duomo, a chiedere la restituzione al G. e a Donatello, cui era stato affidato un rilievo del fonte intorno al 1423, degli anticipi versati (Bacci, 1929).
È possibile che il G. avesse interrotto tutti i suoi lavori durante l'inverno tra il 1424 e il 1425 per recarsi a Venezia e sfuggire all'epidemia di peste che aveva colpito Firenze, come lui stesso afferma in una lettera di giustificazione inviata all'operaio il 10 di marzo del 1425 (Milanesi, 1854).
In un'altra lettera scritta il 16 aprile e inviata a Giovanni di Turino il G. attribuiva però il grave ritardo a incomprensioni sorte con i suoi collaboratori, informando comunque che le storie, una delle quali si trovava al momento in possesso di Giuliano di ser Andrea, erano pressoché completate. Il 26 giugno 1425 un primo rilievo fu inviato a Siena per l'approvazione prima della doratura (ibid.) e nel marzo del 1427 venne presentato anche il secondo (Bacci, 1929). Il 12 maggio del 1427 fu iniziata la doratura di una formella, raffigurante il Battesimo di Cristo; la seconda storia, col Battista di fronte a Erode risulta invece dorata nei primi di ottobre (Milanesi, 1854). Ulteriori problemi relativi all'entità delle spettanze portarono il maestro a trattenere i rilievi fino alla riscossione del pagamento finale, inoltratogli il 30 ott. 1427; le storie giunsero presso l'Opera del duomo di Siena il 15 novembre (Bacci, 1929; Krautheimer, 1956).
Queste due composizioni costituiscono i primi esempi di rilievo pittorico prodotti dal G., genere scultoreo, perfezionato successivamente nella porta del Paradiso, in cui riesce a rendere l'effetto della profondità dello spazio prospettico attenuando gradualmente, a partire dal primo piano, le sporgenze del rilievo, delimitando sempre ogni singola figura con un nitido contorno lineare.
Tra il 1424 e il 1425 dovettero iniziare i lavori per l'urna bronzea dei Ss. Proto, Giacinto e Nemesio, ridotta in frammenti alla fine del XVIII secolo e oggi ricomposta nel Museo nazionale del Bargello; l'impresa era stata patrocinata, su richiesta di Ambrogio Traversari, da Cosimo e Lorenzo de' Medici per trovare degna collocazione alle reliquie dei tre martiri nella chiesa di S. Maria degli Angeli a Firenze, dove erano state traslate nel 1422, con bolla papale di Martino V, dalla fatiscente chiesa di S. Salvatore a Selvamonda.
L'opera era già stata condotta a buon punto dal G. nel luglio del 1427, in quanto dal Catasto di quell'anno risulta pagata per due terzi (Mather, 1948), e trovò collocazione nel 1428, come indicava la data letta da Vasari su una delle due iscrizioni oggi perdute poste alla base della cassa.
L'urna, di cui oggi manca il lato tergale, ha forma quadrangolare ed è chiusa da un coperchio decorato con un motivo a girali d'acanto; su entrambi i lati minori è raffigurato lo scudo mediceo circondato da una corona di palme, e sul fronte da due angeli in volo che sostengono una ghirlanda che racchiude un'iscrizione, secondo uno schema compositivo direttamente tratto dai sarcofagi romani.
Nel marzo del 1425, subito dopo la morte di Leonardo Dati, generale dell'Ordine dei domenicani, il G. ne ritrasse l'effigie dal vero, come tenne a precisare nei Commentari, nella lastra tombale bronzea, di cui attendeva nel luglio del 1427 il pagamento finale (Gaye, 1839; Mather, 1948); collocata in origine al centro del vecchio coro dei monaci in S. Maria Novella, si trova oggi, assai consunta, nella cappella Rucellai. Ancor meno leggibili appaiono le lastre tombali marmoree di Ludovico degli Olbizi (già eseguita e non ancora interamente pagata al G. nel 1427; Brockhaus, 1905-06), e di Bartolomeo Valori, morto nel 1427, esecutore testamentario del primo personaggio e probabile committente di entrambe le sepolture, collocate nel pavimento di S. Croce. Fu forse per accogliere questi incarichi che il G. si immatricolò all'arte dei maestri di pietra e legname nel 1426, pur delegando allo scultore Filippo di Cristofano, la trasposizione su marmo dei suoi disegni (Id., 1902; 1905-06), in cui raffigurò frontalmente il giacente all'interno di una nicchia architettonica gotica, attenendosi allo schema tradizionale trecentesco. Nei Commentari il G. si dichiara anche autore del sarcofago di Maso degli Albizzi, morto nel 1417, già nella chiesa di S. Pier Maggiore e oggi in S. Paolino a Firenze (Middeldorf, 1971).
Una terza statua bronzea per Orsanmichele fu assegnata al G. nell'estate del 1425, dopo che l'arte della lana ritenne necessario rinnovare la decorazione del proprio pilastro, il secondo della facciata occidentale dell'edificio, per eguagliarla a quelle ritenute più notevoli dei pilastri delle altre arti, in particolare di Calimala e del cambio (Passerini, 1866).
Un disegno attribuito a un collaboratore del G. e conservato al Cabinet des dessins del Museo del Louvre documenta il progetto originario del maestro, che intendeva posizionare la sua statua bronzea raffigurante S. Stefano, protettore dell'arte, all'interno di un tabernacolo di foggia classica (Kauffmann, 1929). Probabilmente per motivi economici, la statua trovò invece posto nella preesistente nicchia trecentesca, da cui fu rimossa una statua marmorea, oggi attribuita ad Andrea da Pontedera, che venne trasferita nel duomo. Il G. eseguì il modello della sua scultura entro il 5 ag. 1427, quando fu acquistato il bronzo per la fusione; agli inizi del 1429 anche quest'operazione era stata effettuata e la statua era pronta (Passerini, 1866).
Rispetto al S. Matteo per l'arte del cambio, precedente prova del G. nel campo della scultura monumentale, il S. Stefano rivela un deciso recupero di schemi gotici, che forse è da spiegare con un voluto richiamo alle forme trecentesche della sostituita scultura di Andrea da Pontedera (Krautheimer, 1956). Alle limitazioni economiche con cui fu sostenuta l'impresa vanno invece ricondotte le dimensioni ridotte della statua rispetto alle altre figure ghibertiane di Orsanmichele, e le rilevabili imperfezioni della fusione.
Al 1428 doveva probabilmente risalire la montatura aurea, già perduta all'epoca di Lorenzo il Magnifico, realizzata dal G. per una corniola romana raffigurante Apollo, Marsia e Olimpo, oggi al Museo archeologico nazionale di Napoli e replicata in numerose placchette (Caglioti - Gasparotto, 1997).
Intanto, come si è accennato, il G. non aveva mai lasciato, per mantenerlo fino al 1436, l'incarico di supervisore della costruzione della cupola del duomo, che gli comportò, il 22 sett. 1429, anche l'impegno di fornire insieme con il Brunelleschi un modello per l'intera cattedrale, compresa l'abside e la facciata (Guasti, 1857).
È probabile che tra il 1429 e il 1430, periodo di cui mancano attestazioni documentarie del G. a Firenze, egli abbia intrapreso un viaggio a Roma, che viene ricordato nei Commentari.
In questi stessi anni la Confraternita di Orsanmichele, di cui il G. era probabilmente membro, tanto da esserne eletto, il 9 nov. 1431, operaio a vita, gli affidò anche un ruolo di consigliere artistico nella progettazione di una serie di vetrate istoriate per l'oratorio.
Alla sua mano si devono infatti probabilmente i cartoni della vetrata con la Presentazione della Vergine al tempio nell'arco occidentale della facciata nord, eseguita nel 1429, di due lunette con Angeli musicanti sui portali occidentali, realizzati nel 1430 e nel 1432, e delle lunette con l'Assunzione e la Presentazione di Cristo al tempio per gli archi occidentale e centrale della facciata sud, databili rispettivamente al 1431 e al 1432 (Finiello Zervas, 1991; 1996).
Dimensioni molto maggiori rispetto alla tipologia corrente presenta il marmoreo tabernacolo dei linaioli già nella sede dell'arte della lana e oggi al Museo di S. Marco, di cui il G. aveva già fornito il disegno d'insieme il 29 ott. del 1432, e che appare decorato con fregi di foglie d'acanto dorate e dipinte e con un Padre Eterno benedicente nel timpano; gli elementi lignei furono eseguiti da Jacopo, detto Papero, di Pietro e la lavorazione del marmo fu iniziata l'11 ag. 1433 dagli aiuti Jacopo di Bartolo da Settignano e Simone di Nanni da Fiesole. Nel tabernacolo fu collocata una tavola con la Madonna col Bambino chiusa da due sportelli dipinti e una predella, eseguite dall'Angelico a partire dal luglio del 1433 (Gualandi, 1843).
Il 3 marzo 1432 il G. vinse il concorso per l'assegnazione della cassa bronzea per le reliquie di s. Zenobi, primo vescovo e fondatore della Chiesa fiorentina, che si intendeva collocare nella cappella della testata della tribuna orientale del duomo, in un altare affidato già l'anno prima alla progettazione del Brunelleschi (Poggi, 1909).
Un primo progetto per l'urna risaliva al 1428, quando, a seguito di un'ordinanza comunale del 1409 che sollecitava a provvedere a una degna sepoltura per le spoglie del santo, allora deposte in una cripta nella navata della chiesa, un comitato di giuristi, teologi e artisti, tra cui G. e Brunelleschi, aveva concordato sulla realizzazione di una cassa in bronzo o marmo sormontata dalla figura giacente del santo, da porsi in una cappella del duomo al di sotto di un altare circondato da una grata. Il programma risulta però modificato all'epoca del bando di concorso, perché nel contratto di allogazione firmato dal G. l'8 marzo 1432, viene specificato che la cassa bronzea sarebbe stata decorata su tre lati con storie della vita del santo. Il documento precisa esattamente il peso e le dimensioni richieste per il manufatto, che si voleva ultimato entro tre anni e mezzo, e per il quale l'Opera acquistava alcuni giorni dopo dall'arte della lana il bronzo avanzato al G. per la statua di S. Stefano. Il maestro ricevette pagamenti nei due anni successivi e nell'ottobre del 1432 fu acquistata un'ulteriore quantità di bronzo per i rilievi dei lati brevi dell'urna, che furono quindi i primi a essere modellati.
In questo periodo però il G. cominciò a dedicarsi in maniera preminente ai lavori per la porta del Paradiso e la produzione dell'arca rallentò notevolmente, tanto che alla data pattuita per la consegna era stata appena modellata la scena del fronte principale. Il G. vide annullato per inadempienza il proprio contratto il 9 apr. 1437, ma due anni dopo l'incarico gli fu di nuovo affidato, con l'obbligo di portarlo a conclusione entro dieci mesi. Nel frattempo la cassa era stata destinata alla custodia del solo reliquiario della testa di s. Zenobi, realizzato intorno al 1331 da Andrea Arditi, e non più per il corpo, che avrebbe trovato sistemazione in una nuova cripta aperta nella chiesa. Nel gennaio del 1442 si decise di rivestirla di uno strato di vernice, al posto, forse per motivi economici, della consueta doratura, e risulta finita il 30 agosto di quell'anno, data dell'ultimo pagamento al G. (ibid.).
La grande cassa bronzea è decorata con tre rilievi raffiguranti resurrezioni attribuite a s. Zenobi, il Miracolo del servo e il Miracolo del carro sui lati brevi, e sul fronte principale la Resurrezione di un fanciullo della famiglia Strozzi; nel versante opposto sono raffigurati sei angeli in volo sostenenti una corona entro cui è l'epitaffio di Leonardo Bruni, probabilmente realizzati per ultimi, tra il 1439 e il 1440.
Intanto, nel 1432, l'Opera del duomo aveva intrapreso le commissioni delle vetrate istoriate per gli otto grandi occhi del tamburo della cupola; per l'apertura disposta frontalmente all'entrata della chiesa, il G. eseguì un disegno raffigurante l'Incoronazione della Vergine, che gli fu pagato nel 1435 ma a cui fu poi preferito un cartone presentato da Donatello, messo in opera due anni più tardi. Fino al 1443 il G. risulta fornire disegni per le vetrate delle cappelle della tribuna absidale, che sembrano tuttavia per lo più eseguiti da collaboratori (Poggi, 1909; Acidini Luchinat, 1995).
Nel novembre del 1435 il G. vide scartato un suo progetto per il coro ligneo del duomo, che aveva immaginato disposto a pianta ottagona intorno all'altare centrale, e che venne invece commissionato al Brunelleschi; contemporaneamente i due maestri collaboravano ai progetti per gli altari provvisori lignei da allestire nelle quattordici cappelle della crociera (Poggi, 1909). Anche al disegno del G. per la lanterna della cupola, che presentò nell'agosto del 1436, venne preferito un progetto del Brunelleschi (Guasti, 1857).
Durante il soggiorno fiorentino di papa Eugenio IV, protrattosi dall'estate del 1434 fino all'inverno successivo, il G. dovette eseguire una tiara che descrisse dettagliatamente nei Commentari come opera preziosissima, su cui aveva raffigurato un Padre Eterno e una Vergine in trono fra angeli, gli Evangelisti e un fregio decorato da angeli; un acquisto di perle attestato nel 1441 va riferito a un intervento di manutenzione del manufatto (Müntz, 1878; Caglioti - Gasparotto, 1997).
Appena otto mesi dopo l'installazione della seconda porta del battistero, il 2 genn. 1425, l'arte di Calimala aveva assegnato ufficialmente al G. l'incarico di realizzare una terza porta per l'edificio, da collocarsi nel portale della facciata settentrionale, impegnando il G. a non accettare ulteriori commissioni nel corso dei lavori e garantendogli un compenso di 200 fiorini l'anno, il doppio del salario di Michelozzo, che pure veniva chiamato a collaborare all'impresa (Frey, 1911, p. 357). Per l'elaborazione del programma iconografico furono probabilmente interpellati diversi intellettuali, ma l'approvazione di Calimala andò al progetto ideato da Leonardo Bruni, che prevedeva la partizione della porta in ventotto formelle quadrilobate, dieci delle quali illustranti, su richiesta dell'arte, Storie dell'Antico Testamento, e le restanti figure di Profeti (Frey, 1911), nel rispetto del modello compositivo delle porte precedenti.
I già ricordati impegni della bottega ghibertiana impedirono tuttavia di dare subito inizio all'impresa, e infatti nella portata al Catasto del gennaio del 1431 il G. si dichiarava saldato da Calimala per una cifra corrispondente ad appena un anno e mezzo di lavoro (Mather, 1948); nel frattempo si era comunque proceduto a modificare parzialmente il programma iconografico, in quanto il telaio interno della porta, che risulta gittato nel 1429, venne scompartito in soli ventiquattro riquadri. Solo a partire dal 1431 si dette sistematicamente inizio ai lavori, che dovettero procedere con notevole solerzia, perché otto anni dopo, nell'aprile del 1437, tutte le storie, ormai definitivamente distribuite su dieci pannelli, e ventiquattro pezzi del fregio della cornice, risultano modellati e gittati; nel gennaio successivo il G., suo figlio Vittorio, che fu assunto ufficialmente in quell'anno nella bottega paterna, e Michelozzo, si apprestavano all'opera di nettatura, che risulta in stato già avanzato nel luglio del 1439. Sei rilievi erano ultimati nel luglio del 1443, quando il G. ottenne diciotto mesi di tempo per compiere i rimanenti quattro, che però consegnò solo nell'agosto del 1447. Oltre a Michelozzo, fino al 1442, e ai figli del G. Vittorio e Tommaso, alla porta risultano lavorare Matteo di Francesco da Settignano, Benozzo Gozzoli, che fu ingaggiato nel 1444 per tre anni con un alto salario (Milanesi, 1901), e, per un periodo imprecisato, Donatello e Luca Della Robbia (Mancini, 1909; Guidotti, 1990).
Nel 1444 le denunce di nascita illegittima presentate alla Signoria (Gaye, 1839) costarono al G. l'espulsione, protrattasi per due anni, dall'arte della seta (Krautheimer, 1956), poiché dovette confessare di non essere in realtà figlio di un orafo, ma non compromisero minimamente il ritmo produttivo della sua bottega.
L'anno successivo si gettava infatti probabilmente il telaio bronzeo della porta, a opera di Francesco di Papi, a cui lavoravano anche Tinaccio di Piero e Piero di Francesco e che fu ultimato nel 1448. Alcuni pagamenti al G. e a suoi collaboratori, tra cui Simone di Nanni da Fiesole e Matteo di Francesco da Settignano, versati tra il 1448 e il 1449, vanno riferiti alla nettatura dei fregi della porta e dell'architrave; un rinnovo degli accordi contrattuali del gennaio del 1451 prorogò di venti mesi la data di scadenza dell'impresa. L'opera di doratura ebbe inizio nel febbraio del 1452 e risulta compiuta alla metà di luglio. Al posto del pagamento della rata finale il G. acquisì la proprietà della casa e della bottega che aveva occupato durante i lavori, site nei pressi di S. Maria Nuova.
Alla nuova porta, "stante la sua bellezza", fu riservata l'entrata orientale del battistero, prospiciente la cattedrale, già occupata dalla precedente porta ghibertiana, che venne spostata nella facciata nord (Frey, 1911, p. 363).
La porta del Paradiso, così chiamata, a detta del Vasari, in ricordo di un encomio rivoltole da Michelangelo, presenta uno schema compositivo ormai interamente emancipato da modelli trecenteschi, ideato, come si accenna nei Commentari, dallo stesso Ghiberti. Su ciascun battente sono disposte cinque grandi formelle di forma quadrata in bronzo dorato che illustrano le Storie dell'Antico Testamento, incorniciate da un fregio composto da figure entro nicchie alternate a teste emergenti da clipei, raffiguranti profeti e profetesse, raccordati da rilievi a motivi vegetali; le due teste al centro delle cornici esterne sono i ritratti del G. e del figlio Vittorio. Alla sommità della porta la cornice si conclude con le figure sdraiate di Adamo ed Eva, e nei lati inferiori con Noè e sua moglie Puarphera. L'architrave è rivestito all'esterno da un fregio ininterrotto di motivi vegetali abitato da piccoli animali, mentre all'interno scorre un motivo stilizzato a racemi.
I dieci rilievi veterotestamentari, in ciascuno dei quali il G. concentrò diversi episodi di uno stesso ciclo narrativo adottando, per lo più liberamente, le regole della prospettiva bruneschelliana, presentano una sostanziale unità stilistica che rende difficile ricostruire la successione cronologica con cui furono realizzati. È probabile tuttavia che i lavori abbiano avuto inizio con la formella raffigurante le Storie della Genesi che apre il ciclo, dove risultano più strette le analogie con i rilievi del fonte battesimale di Siena, pur nella più elaborata modulazione dei piani di profondità, e che vicino a essa vadano poste le tre storie di Abramo, Noè e Caino e Abele. Più tarda è forse la formella con le Storie di Isacco che segna l'introduzione nel ciclo del motivo dello sfondo architettonico, qui risolto applicando correttamente la prospettiva lineare, e che riappare nelle Storie di Giuseppe ebreo. La tendenza a una maggiore fusione dei singoli episodi a vantaggio dell'unità visiva dell'intera scena e il ricorso a un maggiore affollamento di personaggi si presentano nelle tre Storie di Mosè, Giosuè, David e nell'Incontro di Salomone con la regina di Saba che dovettero concludere la serie (Krautheimer, 1956).
La porta è stata rimossa nel 1990 dal battistero per esigenze di conservazione e si trova ora al Museo dell'Opera del duomo.
La grande impresa della porta del Paradiso fu l'ultimo impegno artistico personalmente assolto dal G.; infatti la porticina bronzea con la figura del Padre Eterno in trono del ciborio di Bernardo Rossellino già nello spedale di S. Maria Nuova e oggi in S. Egidio, per la quale Vittorio ricevette i pagamenti nel 1450, a nome del padre, fu affidata all'esecuzione della bottega (Fabriczy, 1900; Poggi, 1903).
A seguito dei lavori per la porta del Paradiso, che vi appare menzionata come conclusa, il G. si dedicò alla redazione dei Commentari, un trattato in tre libri sulla storia e la teoria dell'arte, lasciato incompiuto forse per il sopraggiungere della morte del maestro (cfr. l'edizione a cura di J. Schlosser, Berlin 1912).
Nel primo libro il G. trattò dell'arte greca e romana attenendosi alle informazioni desunte da Vitruvio e da Plinio, e interpretando l'antico in senso umanistico, quale modello insuperato di perfezione. Il secondo costituisce il primo esempio di sintesi storica dell'arte moderna, che si ritiene risorta con Giotto dopo la decadenza medievale, e che viene narrata adottando la scansione cronologica per Olimpiadi, come in Plinio, invece che il calendario cristiano. La vita di Giotto apre in questo libro una serie di biografie di artisti fiorentini e senesi concepite per la prima volta come analisi della produzione artistica dei maestri, di cui si citano e descrivono le opere piuttosto che riportare i dati biografici e aneddotici. Il G. vi applica un criterio di giudizio autonomo e personale, che lo porta a dichiarare la propria predilezione per l'arte senese, in particolare per Ambrogio Lorenzetti. Il terzo libro, incompiuto e a tratti frammentario, è un testo teorico dedicato alle arti ausiliarie ritenute necessarie per la corretta pratica della scultura, ovvero l'ottica, l'anatomia e la resa delle proporzioni; è in gran parte una sintesi di fonti antiche e medievali non privo tuttavia di considerazioni personali dell'autore.
Nel febbraio del 1453 il G. insieme con il figlio Vittorio, ormai contitolare della bottega, accettarono di eseguire la cornice bronzea per la porta di Andrea da Pontedera del battistero, ma il maestro non ebbe il tempo di partecipare ai lavori (Frey, 1911). Redasse il proprio testamento, oggi perduto, nel novembre del 1455 (Baldinucci, 1768) e morì a Firenze il 1° dicembre di quell'anno; fu sepolto in S. Croce (Milanesi, 1878).
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