liberismo
La dottrina della libertà di mercato
Il liberismo è un sistema economico imperniato sulla libertà di mercato, nel quale lo Stato si limita a garantire tale libertà con norme giuridiche. Secondo la dottrina economica elaborata a partire dal 18° secolo che sta a fondamento del liberismo, una mano invisibile (una sorta di Divina Provvidenza) guida, in una società libera, le azioni compiute dai singoli cittadini nel loro esclusivo interesse, volgendole a vantaggio di tutta la comunità. Un eventuale intervento dello Stato, mirato a dirigere e a condizionare il mercato, sarebbe dannoso, perché spezzerebbe questo equilibrio naturale e limiterebbe la libera iniziativa dei cittadini
Il pensiero liberista è un’emanazione in campo economico della dottrina politica liberale (liberalismo). Questa, maturata nel corso del Seicento in Inghilterra e in Olanda, si afferma in un periodo in cui la borghesia, svincolatasi dalle ingerenze di Stato, corporazioni e Chiesa, è libera e risoluta a perseguire i propri interessi.
La dottrina del liberismo deve molto all’elaborazione dell’economista scozzese Adam Smith e al suo libro, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776). Essa si oppone al mercantilismo del secolo passato, che ricorreva a misure protezionistiche (protezionismo): favorendo le esportazioni e diminuendo le importazioni, i mercantilisti puntavano a creare un saldo attivo nella bilancia commerciale e ad accumulare moneta, considerata la massima fonte di ricchezza. I liberisti sono fautori del libero scambio internazionale, perché sostengono che la libera concorrenza, all’interno e all’esterno di un paese, sia indispensabile per la prosperità di una nazione. Il liberismo parte dal presupposto che il mercato, retto dalle leggi della domanda e dell’offerta, viene alimentato dall’intraprendenza dei cittadini, mediante la concorrenza e il libero scambio delle merci. Agendo nel proprio interesse, il singolo sostiene tutta la comunità, perché contribuisce ad aumentare la ricchezza collettiva.
Sotto l’influsso dei fisiocratici francesi (seguaci di una dottrina economica sviluppatasi in Francia nella seconda metà del 18° secolo a difesa dell’agricoltura, considerata come unica fonte di ricchezza), il liberismo intende ridurre al minimo l’ingerenza statale nelle attività economiche. Compito dello Stato è assicurare a tutti i cittadini la possibilità di affermarsi, rimuovendo ogni ostacolo che impedisca il raggiungimento di questo obbiettivo (per esempio, evitando la formazione di oligopoli e monopoli, cioè la concentrazione, in un determinato settore, di tutti i poteri in poche mani). Quindi, lo Stato deve emanare leggi atte a incrementare gli scambi e inoltre creare infrastrutture (ponti, strade, ferrovie) per agevolare il flusso commerciale.
Diffusosi largamente in Europa e negli Stati Uniti nel corso dell’Ottocento, negli ultimi decenni di quel secolo il liberismo fu limitato da interventi protezionistici; in alcune nazioni per favorire una tardiva industrializzazione, in altre per l’avvento del colonialismo e quindi per l’instaurarsi di un rapporto preferenziale tra colonia e madrepatria.
Tornato in auge dopo la Prima guerra mondiale, il liberismo entrò nuovamente in crisi in seguito al crollo della borsa del 1929 e alla Grande depressione che ne seguì: ogni paese si chiuse a riccio per proteggere le proprie industrie e si avviò la spirale dei dazi e delle ritorsioni commerciali.
Dopo la Seconda guerra mondiale, il liberismo tornò a prevalere e lo straordinario sviluppo economico nella seconda metà del Novecento conferma che la libertà degli scambi è condizione di benessere. All’inizio del 21° secolo, tuttavia, il liberismo è tornato ‘sotto tiro’, dato che la nuova ondata di globalizzazione, connessa all’ingresso di miliardi di lavoratori (Cina, India, Russia) nell’economia di mercato, sta creando grosse difficoltà di aggiustamento nei paesi di antica industrializzazione.
Nella sua opera Principi dell’economia politica e delle imposte (1817), l’inglese David Ricardo riprende la teoria smithiana del valore-lavoro, in base alla quale il valore di una merce è proporzionale al tempo impiegato per fabbricarla. Ricardo estende questa teoria alla società capitalista, includendo nel calcolo del lavoro impiegato per la fabbricazione di una merce anche quello speso per costruire i macchinari e gli edifici utilizzati per la produzione di quella stessa merce.
Ricardo allarga le sue teorie al mercato internazionale e introduce il concetto del vantaggio comparato: anche se una nazione sa fare tutto meglio degli altri, deve specializzarsi nella fabbricazione dei prodotti dai quali può ricavare il maggior vantaggio economico, limitandosi a importare le altre merci.