Liberalismo
di Friedrich A. von Hayek
Liberalismo
sommario: 1. Introduzione. a) I diversi concetti di liberalismo. 2. Cenni storici. a) Le radici classiche e medievali. b) La tradizione whig inglese. c) Lo sviluppo del liberalismo continentale. d) II liberalismo inglese classico. e) Il declino del liberalismo. 3. La teoria. a) La concezione liberale della libertà. b) La concezione liberale del diritto. c) Il diritto e l'ordine spontaneo delle azioni. d) Diritti naturali, separazione dei poteri e sovranità. e) Liberalismo e giustizia. f) Liberalismo ed eguaglianza. g) Liberalismo e democrazia. h) Le funzioni del governo in rapporto ai servizi. i) Compiti positivi della legislazione liberale. l) Libertà intellettuale e materiale. □ Bibliografia.
1. Introduzione
a) I diversi concetti di liberalismo
Il termine liberalismo è usato oggi in una varietà di significati che ben poco hanno in comune oltre il fatto di designare un'apertura verso idee nuove, comprese alcune in diretta antitesi a quelle che, nell'Ottocento e agli inizi del nostro secolo, venivano indicate con questa parola. In questa sede si prenderà in esame solo quella vasta corrente di ideali politici che in quel periodo agì - sotto il nome di liberalismo - come una delle più autorevoli forze intellettuali che guidavano lo svolgersi degli avvenimenti nell'Europa occidentale e centrale. Questo movimento ha però due diverse origini, e le due tradizioni che da esse derivano, pur combinate insieme in varia misura, sono coesistite unicamente in rapporti di convivenza assai difficili, e debbono perciò essere tenute chiaramente distinte se si vuole intendere lo sviluppo del movimento liberale.
La prima tradizione, assai più antica del termine liberalismo, affonda le sue origini nell'antichità classica e assunse la sua forma moderna durante la seconda metà del Seicento e nel secolo successivo, come insieme dei principi politici dei whigs inglesi, fornendo il modello di istituzioni politiche cui, per lo più, si conformò il liberalismo europeo ottocentesco. Fu infatti quella libertà individuale, che un ‛governo soggetto alla legge' aveva assicurato ai cittadini della Gran Bretagna, a ispirare il movimento per la libertà nei paesi del continente, dove l'assolutismo aveva in massima parte distrutto le libertà medievali che, al contrario, si erano ampiamente conservate in Inghilterra. Sul continente tuttavia quelle istituzioni furono interpretate alla luce di una tradizione filosofica estremamente diversa dalle concezioni evoluzionistiche predominanti in Inghilterra, ossia alla luce di un orientamento razionalistico o costruttivistico che esigeva una intenzionale ricostruzione dell'intera società secondo i principi della ragione. Questo approccio aveva le sue origini nella filosofia razionalistica elaborata soprattutto da Descartes (ma anche da Hobbes in Inghilterra), e raggiunse il massimo della sua influenza nel Settecento, attraverso l'opera dei filosofi dell'illuminismo francese. Voltaire e Rousseau furono le due figure più autorevoli del movimento intellettuale che culminò nella Rivoluzione francese e da cui trasse origine il liberalismo continentale di tipo costruttivistico. Il nucleo di tale movimento non era costituito, come nella tradizione inglese, da una dottrina politica precisamente definita, bensì da un atteggiamento mentale generale, dalla rivendicazione dell'emancipazione da ogni pregiudizio e da ogni credenza che non potesse essere giustificata razionalmente, nonché dalla liberazione dall'autorità ‛dei preti e dei re'. La sua formulazione migliore rimane probabilmente quella di Spinoza, secondo cui ‟è un uomo libero colui che vive conformemente ai soli dettami della ragione".
Questi due filoni di pensiero (che costituirono gli elementi principali di quello che nell'Ottocento fu poi chiamato liberalismo) convergevano su alcuni postulati essenziali - quali la libertà di pensiero, di parola e di stampa - in misura sufficiente per dar vita a un'opposizione comune contro le concezioni conservatrici e autoritarie, e di conseguenza per apparire come parti di un unico movimento. La maggioranza dei suoi fautori professava inoltre una qualche credenza nella libertà di azione dell'individuo e in una qualche sorta di eguaglianza di tutti gli uomini. Un'analisi più attenta mostra tuttavia come l'accordo fosse in parte meramente verbale, giacché i termini chiave - ‛libertà' ed ‛eguaglianza' - venivano impiegati in accezioni alquanto differenti. Infatti per la più antica tradizione inglese il valore supremo era costituito dalla libertà individuale intesa come protezione mediante la legge contro ogni forma di coercizione arbitraria, mentre nella tradizione continentale veniva attribuito il massimo rilievo alla rivendicazione del diritto per ciascun gruppo di autodeterminare la propria forma di governo. Ciò condusse assai presto ad associare - e quasi identificare - il movimento liberale continentale con il movimento per la democrazia, che affrontava un problema diverso da quello che era stato centrale nella tradizione liberale di tipo inglese.
Questo intreccio di idee, che soltanto nel corso dell'Ottocento divennero note come liberalismo, durante il loro periodo di formazione non erano ancora designate in questo modo. L'aggettivo ‛liberale' assunse gradualmente la sua connotazione politica durante l'ultima parte del Settecento, quando fu occasionalmente adoperato, per esempio da Adam Smith, in espressioni come ‟progetto liberale di eguaglianza, di libertà e di giustizia". Come denominazione di un movimento politico il termine liberalismo fece la sua comparsa solo all'inizio del secolo successivo, quando venne impiegato nel 1812 dal partito spagnolo dei liberales e, poco dopo, quando fu adottato come denominazione di partito in Francia. In Inghilterra quest'uso del termine liberalismo comparve soltanto dopo l'unificazione di whigs e radicali in un unico partito, che dagli inizi degli anni quaranta divenne noto come Partito Liberale. E poiché i radicali si ispiravano in buona parte a quella che abbiamo designato come tradizione continentale, anche il Partito Liberale inglese all'epoca della sua massima influenza fece sue entrambe le tradizioni sopra menzionate.
Stanti questi fatti, sarebbe scorretto qualificare come ‛liberale' esclusivamente l'una o l'altra delle due distinte tradizioni. Esse sono state talvolta designate come tipo ‛inglese', ‛classico' o ‛evoluzionistico', oppure come tipo ‛continentale' o ‛costruttivistico'. Nella seguente rassegna storica esamineremo entrambi i tipi. Tuttavia, poiché soltanto dal primo si è sviluppata una dottrina politica definita, il capitolo successivo, dedicato a un'esposizione teorica sistematica, dovrà concentrarsi su di esso.
Occorre sottolineare che gli Stati Uniti non hanno mai conosciuto un movimento liberale paragonabile a quello diffusosi nel corso dell'Ottocento nella maggior parte dei paesi europei, dove dovette competere con i più giovani movimenti nazionalista e socialista. In Europa la sua influenza toccò il vertice nel decennio tra il 1870 e il 1880, e in seguito, pur declinando lentamente, rimase sino al 1914 l'elemento determinante del clima politico. La ragione dell'assenza di un analogo movimento liberale negli Stati Uniti va ricercata essenzialmente nel fatto che le principali aspirazioni del liberalismo europeo si trovavano realizzate nelle istituzioni di quel paese sin dalla sua fondazione e, in misura minore, nel fatto che negli Stati Uniti la scena politica era sfavorevole allo sviluppo di partiti a base ideologica. In effetti, ciò che in Europa si usa - o si usava - definire come ‛liberale' negli Stati Uniti odierni è etichettato piuttosto, e non senza fondamento, come ‛conservatore', mentre più recentemente il termine ‛liberale' vi è stato impiegato per designare ciò che in Europa si sarebbe, piuttosto, detto socialista.
2. Cenni storici
a) Le radici classiche e medievali
I principi fondamentali su cui gli old whigs modellarono il loro liberalismo evoluzionistico avevano una lunga storia.
I pensatori che nel Settecento li formularono si giovarono notevolmente di idee attinte dall'antichità classica e di alcune tradizioni medievali che in Inghilterra l'ascesa dell'assolutismo non aveva cancellato.
I primi che abbiano formulato chiaramente l'ideale della libertà individuale furono gli antichi Greci, e in particolare gli Ateniesi del periodo classico (V e IV secolo a.C.). L'affermazione di alcuni autori dell'Ottocento, secondo cui gli antichi non conoscevano la libertà individuale nel senso moderno, è chiaramente smentita da episodi quali quello del generale ateniese che, nel momento del pericolo supremo (durante una spedizione in Sicilia), ricorda ai suoi soldati che essi stanno combattendo per un paese che lascia loro ‟l'incondizionata facoltà di vivere così come piace" (Tucidide, Guerra del Peloponneso, VII, 69). La concezione greca della libertà era quella di una libertà nella legge, cioè quella di uno stato di cose in cui, come si esprime il detto popolare, la legge è sovrana. Tale concezione si espresse, nel primo periodo classico, nell'ideale dell'isonomia o eguaglianza dinanzi alla legge, che - senza questo nome - troviamo chiaramente formulata in Aristotele. Tale legge includeva una protezione della sfera privata del cittadino rispetto allo Stato spinta al punto che persino sotto i Trenta tiranni un ateniese era, nella propria casa, intoccabile. Ad Atene perfino la facoltà dell'assemblea dei cittadini di modificare la legge era sottoposta a rigorose limitazioni, anche se già si intravvedevano i primi rifiuti, da parte dell'assemblea, di riconoscere nella legge vigente un impedimento alla propria libertà di scelta. Questi ideali liberali furono ulteriormente elaborati, in particolare dai filosofi stoici, che li estesero al di là dei confini della città-stato con la loro concezione di una legge di natura, che limitava i poteri di ogni governo, e dell'eguaglianza di tutti gli uomini.
Questi ideali di libertà dei Greci furono trasmessi ai moderni essenzialmente attraverso le opere degli autori romani; tra essi il più importante fu Cicerone, il personaggio cioè che forse più di ogni altro ispirò la rinascita di quelle idee all'inizio dell'epoca moderna. Ma tra le fonti cui principalmente attinsero i pensatori del Cinquecento e del Seicento vanno almeno menzionati anche lo storico Tito Livio e l'imperatore Marco Aurelio. Roma inoltre tramandò, perlomeno all'Europa continentale, un diritto privato estremamente individualista, imperniato su una concezione estremamente rigida della proprietà privata; un diritto, per giunta, su cui, sino alla codificazione giustinianea, la legislazione aveva scarsamente influito, e che perciò era inteso più come una restrizione che come un esercizio dei poteri dell'autorità di governo.
I primi teorici dell'età moderna poterono anche attingere a una tradizione di libertà nella legge che s'era conservata attraverso il Medioevo, estinguendosi - sul continente - soltanto all'inizio dell'epoca moderna con l'ascesa della monarchia assoluta. Secondo le parole di uno storico contemporaneo, R.W. Southern, ‟la repugnanza per ciò ch'era governato non dalla norma, ma dall'arbitrio, aveva radici profondissime nel Medioevo, e mai questa repugnanza fu una forza possente e concreta come nella seconda parte di quest'epoca. [...] La legge non era il nemico della libertà: al contrario, la fisionomia della libertà era modellata dalla stupefacente multiformità del diritto sviluppatosi in quei secoli. [...] Umili e potenti perseguivano la libertà puntando sul moltiplicarsi delle norme che regolavano la loro vita". Tale concezione aveva un saldo fondamento nella credenza in una legge esistente al di fuori e al di sopra dei governi: idea che sul continente era concepita come legge di natura, e che in Inghilterra era presente come common law, ossia non come prodotto di un legislatore, bensì quale risultato della continua ricerca di una giustizia impersonale. Sul continente l'elaborazione formale di queste idee fu portata avanti soprattutto dalla Scolastica, la quale, muovendo da fondamenta aristoteliche, ricevette la sua prima grande sistematizzazione ad opera di Tommaso d'Aquino. Alla fine del Cinquecento, alcuni filosofi gesuiti spagnoli svilupparono un sistema politico sostanzialmente liberale, in particolare per quanto riguarda l'ambito economico, che anticipava molto di ciò che avrebbe preso forma concreta soltanto con i filosofi scozzesi del Settecento.
Occorrerebbe anche ricordare alcune delle elaborazioni che videro la luce nei comuni italiani durante il Rinascimento, in particolare a Firenze, e in Olanda: un patrimonio cui i pensatori inglesi del XVII e del XVIII secolo poterono attingere ampiamente.
b) La tradizione whig inglese
Fu nelle dispute svoltesi durante la guerra civile inglese e il periodo di Cromwell che queste idee sul predominio o supremazia della legge ricevettero un'elaborazione conclusiva; dopo la ‛gloriosa rivoluzione' del 1688 esse divennero i principi guida del partito whig, da quella rivoluzione portato, appunto, al potere. Le formulazioni classiche furono fornite da John Locke nel suo Second treatise on civil government (1690), che tuttavia dà un'interpretazione delle istituzioni sotto molti aspetti assai più razionalistica di quella che sarebbe divenuta tipica dei pensatori del secolo successivo (un'esposizione più esauriente dovrebbe prendere in esame anche gli scritti di A. Sidney e di G. Burnet, fra i primi espositori della dottrina whig). Questo periodo vide inoltre nascere quella stretta connessione tra movimento liberale inglese e classi commerciali e industriali (prevalentemente non conformiste e calviniste) ch'è rimasta caratteristica del liberalismo britannico sino ad epoca recente. Se ciò significhi semplicemente che le classi che svilupparono lo spirito imprenditoriale commerciale erano anche le più ricettive all'appello del protestantesimo calvinista, o se invece furono queste convinzioni religiose a condurle, più o meno direttamente, verso i principi politici liberali, è questione dibattutissima, che qui non possiamo approfondire. È assolutamente certo tuttavia che la lotta tra le sette religiose, dapprima rigidamente intolleranti, finì col produrre principî di tolleranza, e che il movimento liberale inglese rimase strettamente collegato con il protestantesimo calvinista.
Nel corso del Settecento la dottrina whig di un governo limitato da norme di legge con valore universale, nonché da severe restrizioni dei poteri dell'esecutivo, divenne la dottrina tipica del liberalismo inglese. Essa divenne nota a tutto il mondo soprattutto grazie all'Esprit des lois di Montesquieu (1748) e agli scritti di altri autori francesi, in particolare Voltaire. In Inghilterra i fondamenti teorici della dottrina vennero ulteriormente elaborati ad opera dei moralisti scozzesi, soprattutto David Hume e Adam Smith, nonché da alcuni autori inglesi contemporanei o di poco successivi. Hume non solo fondò la teoria liberale del diritto con la sua opera filosofica, ma con la sua History of England (1754-1762) fornì un'interpretazione della storia inglese come graduale affermazione dello stato di diritto (rule of law), diffondendo così la concezione liberale assai al di là delle isole britanniche. Il contributo decisivo di Smith fu l'idea di un ordine autogenerantesi che si costituisce spontaneamente se gli individui vengono assoggettati al freno di leggi appropriate. La sua Inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776) segnò, in misura forse maggiore di qualsiasi altra opera, l'inizio del pensiero liberale moderno. Essa fece comprendere che quelle stesse restrizioni ai poteri del governo, originate esclusivamente dalla diffidenza nei confronti di ogni autorità arbitraria, erano divenute la causa principale della prosperità economica britannica.
Ma lo sviluppo di un movimento liberale in Inghilterra fu interrotto assai presto dalla reazione contro la Rivoluzione francese e dalla diffidenza verso i suoi ammiratori inglesi che, per primi, avevano importato nelle isole britanniche le idee del liberalismo continentale o costruttivistico. La fine di questa prima fase del movimento liberale inglese è contrassegnata dall'opera di E. Burke, il quale, dopo aver brillantemente rielaborato, in appoggio ai coloni americani, la dottrina whig, si volse violentemente contro le idee della Rivoluzione francese.
Perciò fu solo dopo la conclusione delle guerre napoleoniche che il movimento che si fondava sulla dottrina degli old whigs e di Adam Smith poté riprendere il cammino. L'ulteriore elaborazione teorica fu soprattutto opera di un gruppo di discepoli dei moralisti scozzesi, riunito attorno alla ‟review" e formato prevalentemente da economisti seguaci di Smith. La pura dottrina whig fu ancora una volta riproposta, in una forma che influenzò largamente il pensiero continentale, dallo storico T.B. Macaulay, che fece per l'Ottocento ciò che l'opera storica di Hume aveva fatto per il secolo precedente.
Questa vicenda, tuttavia, andava già accompagnandosi con il rapido sviluppo di un movimento radicale, di cui i ‛filosofi radicali' benthamiani assunsero la direzione, e che si rifaceva più alla tradizione continentale che a quella britannica. Infine, dalla fusione di queste tradizioni nacque negli anni trenta il partito politico che, dal 1842, assunse il nome di Partito Liberale, e che sarebbe rimasto per il resto del secolo la forza politica più rappresentativa dell'intero movimento liberale europeo.
Già da tempo, tuttavia, un contributo decisivo era venuto dall'America. La formulazione esplicita da parte degli ex coloni inglesi di ciò che essi ritenevano il nucleo essenziale della tradizione britannica di libertà, in una costituzione scritta intesa a limitare i poteri del governo, e, in particolare, la delineazione delle libertà fondamentali in una Carta dei diritti fornirono un modello di istituzioni politiche che influenzò profondamente lo sviluppo del liberalismo europeo. Malgrado negli Stati Uniti non si sviluppasse mai un vero e proprio movimento liberale (in quanto tale nazione era consapevole di possedere già le necessarie salvaguardie della libertà nelle proprie istituzioni politiche), essi divennero per gli Europei la terra promessa della libertà e il modello per le loro aspirazioni politiche, così come lo erano state le istituzioni inglesi nel corso del Settecento.
c) Lo sviluppo del liberalismo continentale
Durante il periodo rivoluzionario e napoleonico, le idee radicali dei filosofi dell'illuminismo francese dominarono largamente l'opinione progressista della Francia e dei paesi confinanti del continente; soprattutto nella forma in cui erano state applicate ai problemi politici da Turgot, da Condorcet e dall'abate Sieyès.
Tuttavia di un vero e proprio movimento liberale si può parlare soltanto dopo la Restaurazione. In Francia esso raggiunse il suo apogeo sotto la monarchia di luglio (1830-1848), rimanendo in seguito confinato a una ristretta élite. Esso fu composto da molte e diverse correnti di pensiero. Un tentativo importante di sistematizzare ciò ch'egli riteneva fosse la tradizione britannica e di adattarla alle condizioni dell'Europa continentale fu compiuto da B. Constant, e fu ulteriormente sviluppato, nel corso del quarto e quinto decennio del secolo, dal gruppo detto dei ‛dottrinari', guidato da F.P.G. Guizot. Il loro programma, noto come ‛garantismo', era essenzialmente una dottrina delle limitazioni costituzionali dei poteri del governo. Per questa dottrina costituzionalistica, che rappresentò l'elemento più importante del movimento liberale continentale nella prima metà dell'Ottocento, svolse un importante ruolo di modello la costituzione del 1831 del nuovo Stato belga. Alla tradizione ‛inglese' appartenne anche A. de Tocqueville, il quale è stato probabilmente il più importante dei pensatori liberali francesi.
Tuttavia questo liberalismo continentale presentò sin dall'inizio una caratteristica che lo distingueva nettamente da quello britannico. Il modo più efficace per coglierla è di tener presente quellà componente di ‛libero pensiero' così tipica del liberalismo europeo-continentale e che si espresse in un vigoroso atteggiamento anticlericale, antireligioso e generalmente antitradizionalista. E, in effetti, il conflitto permanente con la Chiesa di Roma divenne - non solo in Francia, ma anche negli altri paesi europei di confessione cattolica romana - così caratteristico del liberalismo da apparire a molti come il suo connotato fondamentale, soprattutto da quando, nella seconda metà del secolo, la Chiesa scatenò la lotta contro ogni forma di ‛modernismo' e, quindi, anche contro la maggior parte delle rivendicazioni di riforme liberali.
Nel corso della prima metà del secolo, fino alle rivoluzioni del 1848, il movimento liberale, sia in Francia che nella maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale e centrale, si trovò collocato su posizioni di stretta alleanza col movimento democratico, più di quanto fosse avvenuto in Inghilterra: tanto che nella seconda metà dell'Ottocento, quest'ultimo e il nuovo movimento socialista lo avrebbero in larga misura soppiantato. Se si eccettua un breve periodo intorno alla metà del secolo, quando il movimento per il libero scambio riuscì a riunire insieme i gruppi liberali, il liberalismo non tornò mai più a svolgere un ruolo importante nella vita politica francese. E, dopo il 1848, i pensatori francesi non fornirono alla sua dottrina alcun contributo di rilievo.
Un ruolo alquanto più importante e una fisionomia più spiccata ebbe, durante i primi tre quarti dell'Ottocento, il movimento liberale in Germania. Benché fortemente influenzato dalle idee mutuate dall'Inghilterra e dalla Francia, esso si caratterizzò soprattutto per la rielaborazione che, di quelle idee, fecero i tre primi e maggiori tra i pensatori liberali tedeschi: il filosofo Immanuel Kant, il pensatore e statista Wilhelm von Humboldt e il poeta Friedrich Schiller. Kant elaborò una teoria, che si muoveva lungo direttrici simili a quelle della teoria humiana, imperniata sul concetto della legge come protettrice della libertà individuale e su quello del rule of law (ovvero del Rechtsstaat, secondo il termine diffusosi in Germania). Humboldt delineò in un lavoro giovanile - Über die Grenzen der Wirksamkeit des Staates (1792) - il quadro di uno Stato rigorosamente confinato al mantenimento della legge e dell'ordine (di quest'opera fu pubblicata nel 1792 soltanto una piccola parte; quando infine, nel 1854, fu pubblicata per intero e tradotta in inglese, esercitò una vasta influenza non solo in Germania, ma anche su pensatori assai diversi tra loro come J. St. Mill in Inghilterra e É. Laboulaye in Francia). Infine il poeta Schiller fece probabilmente più di chiunque altro per familiarizzare il grosso del pubblico colto tedesco con l'ideale della libertà personale.
Delle anticipazioni di politica liberale si ebbero in Prussia nel periodo delle riforme del barone von Stein, cui segui, dopo la fine delle guerre napoleoniche, un nuovo periodo di reazione. Soltanto negli anni trenta cominciò a svilupparsi un vasto movimento liberale, legato strettamente tuttavia, fin dai suoi inizi, al movimento nazionalista che mirava all'unificazione del paese (e lo stesso avvenne in Italia). In linea generale, il liberalismo tedesco fu soprattutto un movimento costituzionalista, che nella Germania settentrionale si ispirò essenzialmente all'esempio inglese, mentre nel sud del paese subì l'influsso francese. Questa differenza trovò espressione soprattutto in un diverso atteggiamento sul problema della limitazione dei poteri discrezionali del governo: mentre nel nord si affermò una concezione notevolmente rigorosa del rule of law (ovvero del Rechtsstaat), nel sud prevalse l'interpretazione francese del principio della separazione dei poteri, che esaltava l'indipendenza dell'esecutivo rispetto ai tribunali ordinari. Tuttavia nel sud - e specialmente nel Baden e nel Württemberg - si formò attorno allo Staatslexikon di K.W. von Rotteck e K.Th. Welcker un attivissimo gruppo di teorici liberali, che fu il centro principale del pensiero liberale nel periodo precedente la Rivoluzione del 1848. Al fallimento di quella rivoluzione seguì un altro periodo di reazione. Ma fu un periodo breve: negli anni sessanta e settanta anche la Germania sembrò finalmente avviarsi verso la rapida edificazione di un sistema liberale. Fu in quegli anni che vennero portate a compimento le riforme costituzionali e giuridiche specificamente intese a completare la costruzione del Rechtsstaat. E la metà del decennio 1870-1880 va probabilmente considerata come il momento in cui il movimento liberale raggiunse in Europa la sua massima autorità e la sua massima espansione verso est. Con il ritorno della Germania al protezionismo (1878) e con la nuova politica sociale avviata nello stesso periodo da Bismarck, cominciò la parabola discendente del movimento. Il Partito Liberale, che per poco più di dodici anni aveva conosciuto una grande fioritura, declinò rapidamente.
Sia in Germania che in Italia il declino del movimento liberale cominciò quando si spezzarono i rapporti che lo avevano legato al movimento per l'unificazione nazionale, quando l'ormai raggiunta unità dei due paesi pose al centro dell'attenzione il problema del rafforzamento della nuova organizzazione statale, e quando, infine, la nascità del movimento operaio privò il liberalismo del ruolo di partito ‛progressista', che in precedenza gli aveva procurato l'appoggio anche della parte politicamente attiva delle classi lavoratrici.
d) Il liberalismo inglese classico
Durante la maggior parte dell'Ottocento l'Inghilterra fu il paese europeo che più sembrò avvicinarsi alla realizzazione dei principi liberali, quello in cui la maggior parte di tali principî sembrò essere accettata non solo da un potente partito liberale, ma dalla maggioranza della popolazione, e dove persino i conservatori si fecero spesso strumento della realizzazione di riforme liberali. I grandi avvenimenti in conseguenza dei quali l'Inghilterra potè apparire, agli occhi del resto dell'Europa, quale incarnazione esemplare del regime liberale, furono l'emancipazione dei cattolici (1829), il Reform act (1832) e l'abrogazione delle corn laws (ad opera del conservatore R. Peel nel 1846). Poiché con ciò erano ormai soddisfatte le principali richieste del liberalismo in materia di politica interna, le controversie proseguirono sul tema del libero scambio. Il movimento avviato dalla Merchants petition del 1820, e portato avanti tra il 1836 e il 1846 dalla Anti-corn-law-league, si sviluppò in particolare per opera di un gruppo di radicali che, sotto la direzione di R. Cobden e J. Bright, sostennero una versione del laissez-faire molto più drastica di quanto avrebbero richiesto i principî liberali di Adam Smith e degli economisti classici suoi seguaci. La posizione liberoscambista si combinava in loro con un vigoroso atteggiamento antimperialistico, antinterventistico e antimilitaristico e con una netta avversione a ogni ampliamento dei poteri governativi e della spesa pubblica, che consideravano principalmente dovuto a scelte riprovevoli di politica coloniale.
L'ostilità era diretta essenzialmente contro l'espansione dei poteri del governo centrale, mentre ci si attendeva il massimo di miglioramento dagli sforzi autonomi delle autorità locali o delle organizzazioni volontarie. La parola d'ordine liberale di questo periodo fu ‛pace, risparmio e riforma'. E per ‛riforma' si intendeva soprattutto l'abolizione dei vecchi abusi e privilegi piuttosto che l'ampliamento della democrazia, verso cui, invece, il movimento si sarebbe più fortemente indirizzato nel 1867, all'epoca cioè del secondo Reform act. Il movimento raggiunse il suo apogeo nel 1860 con il trattato stipulato da Cobden con la Francia; trattato commerciale che sancì l'introduzione del libero scambio in Inghilterra e produsse la diffusa aspettativa di una sua prossima applicazione universale. In questo periodo si affermò in Inghilterra, come personalità guida del movimento liberale, W.E. Gladstone, il quale, prima come cancelliere dello scacchiere e poi come primo ministro, apparve a molti come l'incarnazione vivente dei principî liberali, soprattutto (dopo la morte di H.J.T. Palmerston nel 1865) nel campo della politica estera, in cui ebbe quale principale collaboratore J. Bright. Con Gladstone riprese vita anche l'antico legame del liberalismo britannico con la sfera morale e religiosa.
A livello intellettuale, durante la seconda metà dell'Ottocento, i principî basilari del liberalismo furono oggetto di intense discussioni. Il filosofo H. Spencer si fece portavoce di una versione radicalizzata dell'individualismo antistatale, analoga a quella ch'era stata la posizione di Humboldt. John Stuart Mill, invece, nel suo celebre libro On liberty (1859), indirizzò la sua critica principalmente contro l'intolleranza ideologica piuttosto che contro l'esercizio del potere statale. Inoltre, con la sua posizione a favore di una giustizia distributiva e con il suo atteggiamento nel complesso favorevole alle aspirazioni socialistiche, che manifestò in altre sue opere, preparò il passaggio graduale di una gran parte degli intellettuali liberali a posizioni di socialismo moderato. Questa tendenza fu considerevolmente rafforzata dall'influenza del filosofo T.H. Green, il quale sottolineò le funzioni positive dello Stato contro la concezione prevalentemente negativa della libertà, propria dei vecchi liberali.
Ma sebbene nell'ultimo quarto del secolo le dottrine liberali cominciassero ad essere largamente criticate all'interno stesso del campo liberale, e sebbene il partito liberale si avviasse a perdere una parte dei suoi sostenitori a favore del nuovo movimento operaio, in Inghilterra il predominio delle idee liberali durò ben oltre l'inizio del nuovo secolo, riuscendo a sconfiggere una nuova ondata di rivendicazioni protezionistiche, anche se non riuscì a evitare una progressiva infiltrazione al suo interno di elementi interventisti e imperialisti. Il governo di H. Campbell-Bannerman (1905-1908) va probabilmente considerato come l'ultimo governo liberale di vecchio stampo, mentre già sotto il suo successore H.H. Asquith furono avviati nuovi esperimenti di politica sociale la cui compatibilità con gli antichi principî liberali è piuttosto dubbia. Ma nel complesso è possibile affermare che l'epoca liberale della politica britannica durò sino allo scoppio della prima guerra mondiale e che il predominio degli ideali liberali ebbe termine in Inghilterra soltanto in seguito agli effetti di questa guerra.
e) Il declino del liberalismo
Benché anche dopo la prima guerra mondiale alcuni tra gli statisti della generazione più anziana (nonché altre eminenti personalità della vita sociale) fossero di orientamenti essenzialmente liberali, e benché in un primo tempo si facessero dei tentativi per restaurare le istituzioni politiche ed economiche del periodo prebellico, tuttavia l'influenza del liberalismo declinò costantemente sino alla seconda guerra mondiale a causa di numerosi fattori. Tra questi il più importante fu che, soprattutto agli occhi di larga parte del mondo intellettuale, il socialismo aveva sostituito il liberalismo nel ruolo di movimento progressista. Ormai il dibattito politico si svolgeva soprattutto tra socialisti e conservatori, sostenitori entrambi, sia pure per scopi differenti, di un allargamento dell'ambito d'intervento statale. Le difficoltà economiche, la disoccupazione e l'instabilità monetaria sembravano esigere controlli governativi in misura assai maggiore che nel passato e portarono a una rinascita del protezionismo e di altre forme di politica nazionalistica. La conseguenza fu una rapida crescita degli apparati burocratici amministrativi e l'acquisizione, da parte dell'autorità statale, di poteri discrezionali di vasta portata. Queste tendenze, già forti durante il primo decennio postbellico, divennero ancora più marcate nel corso della grande depressione seguita alla crisi americana del 1929. L'abbandono definitivo del gold standard e il ritorno dell'Inghilterra a una politica protezionistica (1931) sembrarono segnare il tramonto definitivo di una libera economia mondiale. L'ascesa di regimi dittatoriali o totalitari in buona parte dell'Europa non solo portò alla scomparsa degli sparuti gruppi liberali sopravvissuti nei paesi direttamente interessati al fenomeno, ma, facendo incombere la minaccia della guerra, accentuò nell'Europa occidentale la tendenza al rafforzamento dei poteri statali in materia economica e a una politica autarchica.
Dopo la seconda guerra mondiale si verificò ancora una volta una temporanea rinascita delle idee liberali, dovuta, in parte, a una nuova consapevolezza del carattere oppressivo di ogni regime totalitario e, in parte, al riconoscimento del fatto che la responsabilità della depressione economica era dovuta in larga misura agli ostacoli frapposti nel periodo tra le due guerre agli scambi internazionali. Il risultato più caratteristico di quegli anni fu il General Agreement on Tariffs and Trade (GATT) del 1948; ma anche i tentativi di creare unità economiche più ampie (come il Mercato Comune e l'EFTA) si muovevano chiaramente nella medesima direzione. Il più notevole tra gli avvenimenti che sembrarono promettere un ritorno ai principî economici liberali fu la straordinaria ripresa economica della Germania sconfitta, la quale, per iniziativa di L. Erhard, si era apertamente impegnata in quella che fu chiamata un'‛economia sociale di mercato': la prosperità raggiunta permise ben presto alla Germania di distanziare le nazioni vittoriose. Questi avvenimenti inaugurarono un periodo di prosperità senza precedenti, facendo per qualche tempo ritenere probabile che, nell'Europa occidentale e centrale, potesse nuovamente e durevolmente insediarsi un regime economico sostanzialmente liberale. Anche a livello intellettuale quegli anni videro rinnovati tentativi di riaffermare, articolandoli meglio, i principî della politica liberale. Ma gli sforzi per prolungare la prosperità e assicurare il pieno impiego mediante l'espansione della base monetaria e del credito finirono col creare una situazione inflazionistica su scala mondiale, così strettamente connessa con i livelli di occupazione che non era possibile arrestare l'inflazione senza produrre una disoccupazione diffusa. D'altro canto un'economia di mercato non può funzionare a lungo in condizioni di inflazione galoppante: se non altro perché i governi si vedranno ben presto costretti a combattere gli effetti dell'inflazione mediante il controllo dei prezzi e dei salari. L'inflazione ha condotto sempre e ovunque a un'economia programmata. Ed è sin troppo facile previsione che il perseguimento di una politica inflazionistica non può significare altro che il tramonto definitivo dell'economia di mercato e la transizione a un sistema economico e politico totalitario a direzione centralizzata.
Attualmente i difensori della posizione liberale classica sono di nuovo una schiera ridottissima composta principalmente da economisti. E si comincia anche in Europa ad applicare la qualifica di liberale. (come per qualche tempo è avvenuto negli Stati Uniti) ad aspirazioni di natura essenzialmente socialista, giacché, come dice J.A. Schumpeter, ‟con un supremo pur se involontario complimento, i nemici del sistema dell'impresa privata hanno giudicato saggio appropriarsene l'etichetta".
3. La teoria
a) La concezione liberale della libertà
Poiché soltanto il liberalismo di tipo ‛inglese' o evoluzionistico ha elaborato un programma politico precisamente definito, un tentativo di esposizione sistematica dei principî del liberalismo dovrà incentrarsi su di esso; menzioneremo perciò solo per contrasto le concezioni proprie della versione ‛continentale' o costruttivistica. Ciò comporta anche il rifiuto della distinzione - fatta spesso nell'Europa continentale, ma non applicabile al tipo inglese - tra liberalismo politico e liberalismo economico (elaborata in particolare da Croce come distinzione tra ‛liberalismo' e ‛liberismo'). Per la tradizione inglese i due liberalismi sono inseparabili. Infatti il principio fondamentale per cui l'intervento coercitivo dell'autorità statale deve limitarsi a imporre il rispetto delle norme generali di condotta lecita priva il governo stesso del potere di dirigere e controllare le attività economiche degli individui. Se cosi non fosse, il conferimento di tali facoltà darebbe al governo un potere sostanzialmente arbitrario e discrezionale che si risolverebbe in una limitazione di quelle libertà di scelta degli obiettivi individuali che tutti i liberali vogliono garantire. La libertà nella legge implica la libertà economica, mentre il controllo economico rende possibile - in quanto controllo dei mezzi necessari alla realizzazione di tutti i fini - la restrizione di tutte le libertà.
Da questo punto di vista, l'apparente accordo delle differenti correnti liberali sulla rivendicazione della libertà individuale - e sul rispetto della personalità individuale ch'essa implica - cela una divergenza importante. Nell'epoca d'oro del liberalismo questo concetto della libertà aveva un significato ben definito: esso voleva dire innanzi tutto che la persona libera non era soggetta ad alcuna coercizione arbitraria. Ma, per l'uomo che vive in società, la protezione contro tale coercizione esigeva l'imposizione di un vincolo a tutti gli individui, di una limitazione che li privasse, appunto, della facoltà di coartare gli altri. La libertà per tutti poteva essere realizzata soltanto se, come afferma la famosa formulazione di Kant, la libertà di ciascuno non andava oltre ciò che era compatibile con una eguale libertà per tutti gli altri. La concezione liberale della libertà era dunque necessariamente quella di una libertà nella legge, una legge che limitasse la libertà di ciascuno al fine di garantire la medesima libertà a tutti. Essa non coincideva con quella che è stata talvolta descritta come la ‛libertà naturale' di un individuo isolato, ma era piuttosto la libertà possibile in società, e pertanto limitata dalle norme indispensabili alla garanzia della libertà altrui. Sotto questo profilo il liberalismo si distingue nettamente dall'anarchismo e riconosce che, se tutti debbono essere quanto più possibile liberi, la coercizione non può essere interamente eliminata, ma soltanto ridotta al minimo indispensabile per impedire a chicchessia - individuo o gruppo - di esercitare una coercizione arbitraria a danno di altri. Era una libertà entro una sfera limitata da norme conosciute che permetteva all'individuo di non subire coercizioni: finché appunto si fosse mantenuto entro tali limiti.
Questa libertà poteva inoltre essere assicurata soltanto a chi fosse capace di osservare le norme intese a garantirla. Soltanto l'individuo adulto e sano di mente, presunto come pienamente responsabile delle sue azioni, era considerato titolare a pieno diritto di questa libertà. Per i minori e le persone non interamente in possesso delle loro facoltà mentali intervenivano invece forme, diversamente graduate, di tutela. E la violazione delle norme intese ad assicurare la medesima libertà per tutti poteva procurare la perdita di quelle garanzie godute da coloro che alle norme si uniformavano.
Questa libertà, riconosciuta a tutti coloro ch'erano giudicati responsabili delle proprie azioni, li rendeva al tempo stesso responsabili del loro destino. Mentre la protezione offerta dalla legge consisteva nel permettere a ciascuno di perseguire i propri scopi, ciò non implicava tuttavia che il governo dovesse garantire al privato individuo un particolare risultato dei suoi sforzi. Mettere l'individuo in grado di far uso delle sue cognizioni e delle sue capacità nel perseguire gli obiettivi autonomamente scelti era considerato, da un lato, come il massimo vantaggio che il governo potesse garantire a tutti e, dall'altro, come la via migliore per indurre questi individui a fornire il massimo contributo al benessere altrui. Sollecitare il massimo sforzo di cui un individuo fosse capace per la sua particolare situazione e per le sue particolari capacità (che nessuna autorità era in grado di determinare) era giudicato il vantaggio principale che la libertà di ciascuno apportava a tutti gli altri.
La concezione liberale della libertà è stata spesso, e con ragione, definita come una concezione puramente negativa. Come la pace e la giustizia, essa fa riferimento all'assenza di un male, cioè a una condizione che offre delle possibilità senza tuttavia fornire vantaggi precisi. Si riteneva però che, seguendo questa strada, maggiori sarebbero state le probabilità che divenissero disponibili i mezzi necessari al conseguimento dei diversi fini privati. La libertà rivendicata dal liberalismo esige dunque la rimozione di tutti gli ostacoli di natura sociale che intralcino gli sforzi individuali, ma non l'apporto di vantaggi concreti da parte dell'autorità statale. Pur non opponendosi a tale funzione collettiva quando ciò sembri necessario o appaia, comunque, come il modo più efficace per garantire certi servizi, ne fa tuttavia una mera questione di opportunità, i cui limiti, di conseguenza, sono segnati dal principio fondamentale dell'eguale libertà di tutti nella legge. Il declino della dottrina liberale, iniziato dopo il 1870, è strettamente connesso a una reinterpretazione della libertà come disponibilità (da ottenere attraverso l'azione dello Stato) dei mezzi necessari al raggiungimento di una vasta gamma di fini particolari.
b) La concezione liberale del diritto
Il significato della concezione liberale della libertà come libertà nella legge (o assenza di qualsiasi coercizione arbitraria) dipende dal valore che in questo contesto viene attribuito ai concetti di ‛diritto' e ‛arbitrio'. È in parte dovuta alle differenze nell'uso di questi termini l'esistenza, all'interno della tradizione liberale, di un conflitto tra coloro (per es. Locke) per i quali la libertà può esistere soltanto nella legge (‟giacché chi potrebbe essere libero se fosse alla mercé del capriccio di ogni altro uomo?") e i molti liberali continentali, ma con loro anche J. Bentham, per i quali, secondo le parole di quest'ultimo, ‟ogni legge è un male, perché ogni legge è una violazione della libertà". L'attività legislativa può, ovviamente, essere impiegata per distruggere la libertà, ma non tutti i prodotti di tale attività si configurano come legge nel senso in cui la intendevano Locke o Hume, Smith o Kant o, ancora, più tardi, i whigs inglesi che, nella legge, vedevano la salvaguardia della libertà. Ciò ch'essi avevano in mente, quando parlavano della legge come della salvaguardia indispensabile della libertà, era soltanto quell'insieme di norme di condotta lecita che costituiscono il diritto privato e il diritto penale, e non una qualsiasi prescrizione emanata dall'autorità legislativa. Per qualificarsi come legge, nel senso adoperato dalla tradizione liberale inglese per individuare le condizioni della libertà, le norme imposte dal governo devono possedere precisi attributi - intrinseci al diritto della common law inglese - non necessariamente presenti nei prodotti della legislazione positiva: devono cioè essere norme generali di condotta individuale, applicabili a tutti, allo stesso titolo, in un numero indefinito di circostanze future, ed essere atte a circoscrivere la sfera protetta dell'azione individuale, assumendo con ciò essenzialmente il carattere di divieti piuttosto che di prescrizioni specifiche. Esse sono infine inseparabili dall'istituto della proprietà individuale. Nei limiti definiti da queste norme di condotta lecita, si presumeva che l'individuo fosse libero di impiegare le sue conoscenze e le sue capacità nel perseguimento degli obiettivi suoi propri, seguendo la strada che gli sembrasse più adatta.
I poteri coercitivi del governo venivano dunque intesi come limitati all'imposizione di tali norme di condotta lecita. Tutto ciò non precludeva al governo (se si eccettua un'ala estrema della tradizione liberale) la possibilità di fornire ai cittadini anche altri servizi. Significava solamente che esso, qualunque servizio fosse chiamato a fornire, poteva utilizzare per tali fini unicamente le risorse a sua disposizione, senza costrizioni per il privato cittadino. In altri termini, il governo non poteva utilizzare la persona e la proprietà del cittadino per il raggiungimento dei propri scopi. In questo senso l'atto di un'assemblea legislativa pienamente legale può essere altrettanto arbitrario di quello di un autocrate; e anzi qualsiasi prescrizione - o divieto - diretta a particolari persone o gruppi, e non derivante da una norma di applicabilità universale, dovrebbe esser considerata arbitraria. Ciò che dunque rende arbitrario un atto coercitivo, nel senso in cui il termine è usato nella vecchia tradizione liberale, è che esso serva a un fine particolare del governo, che sia cioè determinato da un particolare atto di arbitrio e non da una norma universale necessaria a mantenere quell'ordine, globale e autogenerantesi, delle azioni al quale sono funzionalizzate tutte le altre norme di condotta lecita.
c) Il diritto e l'ordine spontaneo delle azioni
L'importanza che la teoria liberale annetteva alle norme di condotta lecita poggia sull'idea che esse siano una condizione essenziale per mantenere un ordine, autogenerantesi e spontaneo, nelle azioni dei diversi individui e gruppi, ciascuno dei quali persegue i propri fini in base alle proprie cognizioni. Va sottolineato che nel Settecento i grandi fondatori della teoria liberale - David Hume e Adam Smith - non postulavano un'armonia naturale degli interessi, ma sostenevano piuttosto che i divergenti interessi dei diversi individui potevano essere conciliati dall'osservanza di norme di condotta appropriate: ovvero, secondo le parole del loro contemporaneo J. Tucker, che ‟il motore universale della natura umana - l'amor di sé - può essere indirizzato in modo tale [...] da promuovere, mediante quegli stessi sforzi che compie nel proprio interesse, l'interesse pubblico". Questi filosofi settecenteschi erano in effetti allo stesso titolo filosofi del diritto e studiosi dell'ordine economico, e in loro la concezione del diritto e la teoria del meccanismo di mercato erano strettamente connesse. Essi comprendevano che soltanto il riconoscimento di certi principi giuridici - in primo luogo l'istituto della proprietà privata e l'obbligo di osservare gli impegni contrattuali - poteva garantire un adattamento reciproco delle azioni dei singoli individui, tale che ognuno potesse avere una buona probabilità di realizzare il particolare obiettivo che si era prefissato. Come la successiva teoria economica avrebbe meglio chiarito, era appunto questo adattamento reciproco dei piani individuali che metteva in grado gli uomini di rendersi reciprocamente utili pur impiegando ciascuno le proprie peculiari cognizioni e capacità al servizio dei propri fini personali.
La funzione delle norme di condotta era dunque non già di organizzare gli sforzi individuali per il conseguimento di obiettivi specifici e concordati, ma soltanto di assicurare un ordine globale delle azioni nel cui ambito ciascuno potesse trarre il massimo profitto, nel perseguimento dei propri fini personali, dagli sforzi degli altri. Le regole capaci di condurre a questo ordine spontaneo erano considerate il prodotto di una lunga esperienza passata. E malgrado le si giudicasse suscettibili di perfezionamento, si riteneva che tale progresso dovesse procedere lentamente, un passo dopo l'altro, secondo i suggerimenti offerti dalle nuove esperienze.
Il grande vantaggio di un simile ordine autogenerantesi era visto non soltanto nel fatto ch'esso lasciava gli individui liberi di perseguire i propri fini, egoistici o altruistici che fossero, ma anche nel fatto che esso rendeva possibile utilizzare esperienze nate da diverse e particolari circostanze, frammentate e disperse nello spazio e nel tempo, che potevano esistere unicamente come esperienze dei differenti individui e non avrebbero potuto in nessun modo essere unificate da una qualche singola autorità dirigente. Ed era questa utilizzazione di tante esperienze particolari, maggiore di quella che sarebbe stata possibile sotto qualsiasi forma di direzione centralizzata dell'attività economica, che avrebbe consentito una produzione sociale globale molto grande.
Abbandonare la formazione di un tale ordine alle forze spontanee del mercato - sia pure operanti nel quadro di appropriate norme giuridiche - se garantisce un ordine più comprensivo e un adattamento più completo alle varie circostanze concrete, implica anche che i contenuti particolari di questo ordine non siano soggetti a un controllo preordinato, bensì che vengano in larga misura affidati al caso. Il complesso delle norme giuridiche e delle diverse istituzioni particolari (quale, in primo luogo, il sistema monetario) funzionali alla formazione del mercato e del suo meccanismo può determinare solo la fisionomia generale o astratta di questo, ma non i suoi effetti specifici sui particolari individui o gruppi. Benché la sua giustificazione poggi sull'idea che esso accresce le possibilità di tutti sicché la posizione di ogni individuo dipende, in larga parte, dai suoi sforzi, esso permette tuttavia che per ciascun individuo e gruppo l'esito dipenda anche da circostanze impreviste, che né l'interessato né nessun altro è in grado di controllare. Perciò, da Adam Smith in poi, il processo mediante il quale in un economia di mercato vengono determinate le quote spettanti ai singoli individui è stato spesso paragonato a un gioco in cui i risultati di ciascuno dipendono in parte dalla sua abilità e dai suoi sforzi e in parte dal caso. Gli individui possono accettare di entrare nel gioco perché esso fa sì che la somma complessiva delle quote individuali sia maggiore di quanto non sarebbe possibile mediante ogni altro metodo. Ma, al tempo stesso, i guadagni di ciascun individuo vengono a dipendere da fatalità di ogni specie, e non vi è modo di garantire ch'essi corrispondano sempre ai meriti soggettivi degli sforzi individuali. Prima di esaminare ulteriormente i problemi sollevati da questo aspetto della visione liberale della giustizia, è però necessario soffermarsi su alcuni principi costituzionali in cui la concezione liberale del diritto si è via via incarnata.
d) Diritti naturali, separazione dei poteri e sovranità
Il fondamentale principio liberale che limita la coercizione all'imposizione di norme generali di condotta lecita, è stato solo di rado affermato in questa forma esplicita. In genere ha invece trovato espressione in due concezioni caratteristiche del costituzionalismo liberale: quella dei diritti inalienabili o naturali dell'individuo (definiti anche come diritti fondamentali o diritti dell'uomo o diritti di libertà), e quella della separazione dei poteri. Secondo la formula della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, che costituisce l'espressione più concisa e al tempo stesso più efficace dei principi liberali, ‟ogni società, nella quale non sia assicurata la garanzia dei diritti e determinata la separazione dei poteri, non ha costituzione".
L'idea di garantire in modo particolare certi diritti fondamentali - diritto alla ‟libertà, alla proprietà, alla sicurezza e alla resistenza contro l'oppressione" - e, più specificamente, la libertà di opinione, di parola, di riunione e di stampa (idea che fa la sua prima apparizione nella Rivoluzione americana) è comunque solo un'applicazione del principio liberale più generale a certi diritti ritenuti di particolare importanza: tale idea, abbracciando un numero definito di diritti, non possiede l'ampiezza di quel principio generale. Che si tratti di mere applicazioni particolari del principio generale appare chiaramente dal fatto che nessuno di questi diritti fondamentali costituisce un diritto assoluto, e la loro sfera di azione non oltrepassa i limiti posti dai principî giuridici generali. Tuttavia, poiché secondo il più generale principio liberale ogni azione coercitiva del governo è limitata all'imposizione di tali norme generali, tutti i diritti fondamentali affermati in qualsiasi lista o carta dei diritti espressamente garantiti (e molti altri mai compresi in tali documenti) sarebbero ugualmente garantiti da un'unica proposizione che affermasse appunto quel principio generale. Tutte le libertà - e non soltanto quella economica - sarebbero dunque garantite una volta che le attività degli individui non venissero vincolate da divieti specifici (o dalla necessità di specifiche autorizzazioni), ma fossero soggette esclusivamente a norme generali applicabili al medesimo titolo a tutti.
Preso nel suo senso originario, anche il principio della separazione dei poteri è un'applicazione del medesimo principio generale, ma soltanto nella misura in cui nella distinzione fra i tre poteri - legislativo, esecutivo e giudiziario - la ‛legge' sia intesa come indubbiamente era intesa da coloro che per primi ne formularono il principio, nel senso ristretto di norme generali di condotta lecita. Finché il corpo legislativo poteva approvare leggi soltanto in questo senso ristretto, i tribunali potevano emanare e l'esecutivo applicare misure coercitive solo per assicurare l'osservanza di tali norme generali. Ciò, tuttavia, può esser vero soltanto nella misura in cui i poteri del corpo legislativo siano confinati all'emanazione di siffatte leggi nel senso ristretto del termine (come, secondo John Locke, dovrebbe essere), mentre non lo è più se il corpo legislativo può impartire all'esecutivo qualsiasi direttiva ritenga opportuna e se, d'altra parte, qualsiasi azione dell'esecutivo, in tal modo autorizzata, venga considerata come legittima. Dove, come in tutti gli Stati moderni, il corpo legislativo è divenuto la suprema autorità di governo, che dirige l'azione dell'esecutivo nei vari campi particolari, e dove la separazione dei poteri significa semplicemente che l'esecutivo non può far nulla che non sia in tal modo autorizzato, ciò non garantisce che la libertà dell'individuo venga limitata soltanto da leggi intese nel senso ristretto proprio della teoria liberale.
La limitazione dei poteri del corpo legislativo, implicita nella concezione originaria della separazione dei poteri, comporta anche un rifiuto dell'idea di un potere illimitato o sovrano, o almeno dell'autorità di un qualsiasi potere organizzato di agire a proprio piacimento. Il rifiuto di riconoscere un siffatto potere sovrano, chiarissimo in Locke e costantemente ricorrente nel successivo pensiero liberale, è uno dei punti chiave su cui tale pensiero si scontra con la concezione - oggi prevalente - del positivismo giuridico. Il pensiero liberale nega infatti che la derivazione di ogni potere legittimo da un'unica fonte sovrana o da una qualsiasi ‛volontà' organizzata sia una necessità logica. Esso argomenta invece che una tale limitazione di tutti i poteri organizzati può essere egualmente ottenuta mediante un consenso generale che rifiuti di obbedire a qualsiasi potere (o volontà organizzata) agente in un modo che quello stesso consenso non autorizzi. La dottrina liberale crede insomma che anche una forza come il consenso generale, benché non sia in grado di formulare specifici atti di volontà, possa tuttavia limitare i poteri di tutti gli organi di governo a quelle sole azioni che posseggano certi attributi di ordine generale.
e) Liberalismo e giustizia
Strettamente connessa alla concezione liberale del diritto è la concezione liberale della giustizia. Essa differisce da quella oggi generalmente diffusa per due aspetti importanti: è fondata sulla convinzione che sia possibile rinvenire norme oggettive di condotta lecita, indipendenti da qualsiasi interesse particolare, e si preoccupa soltanto del carattere giusto o ingiusto della condotta umana o delle norme che la governano, mentre è indifferente alle conseguenze particolari di tale condotta sulla situazione dei diversi individui o gruppi. In particolare, a differenza che per il socialismo, si può affermare che il liberalismo si interessa della giustizia commutativa, ma non di quella cosiddetta distributiva o, secondo l'espressione oggi più frequente, ‛sociale'.
La fede nell'esistenza di norme di condotta lecita suscettibili di essere dedotte (e quindi non frutto di una costruzione arbitraria) poggia da un lato sul fatto che la grande maggioranza di queste norme sarà sempre e assolutamente accettata e, dall'altro, sul fatto che qualsiasi dubbio sull'equità di una norma particolare dev'essere risolto entro il contesto di questo corpo di norme generalmente accettate, di modo che la norma da accettare sia compatibile con il resto: in altri termini ciò significa ch'essa deve servire alla formazione della medesima specie di ordine delle azioni cui contribuiscono tutte le altre norme della condotta giusta, e non può entrare in conflitto con ciò ch'è richiesto da una qualsiasi di queste norme. Il banco di prova della validità di una qualsiasi norma particolare sarà dunque la possibilità di una sua applicazione universale che, a sua volta, dipenderà dalla compatibilità di tale norma con tutte le altre norme accettate.
Si è spesso sostenuto che questa fede liberale nella possibilità di una giustizia indipendente dagli interessi particolari poggiasse su una concezione di una legge di natura che il pensiero moderno ha definitivamente respinto. Ma può essere intesa come fondata sulla fede in una legge di natura solo assumendo questo termine in un'accezione particolarissima; e in questa accezione non risulta affatto evidente che il positivismo giuridico l'abbia efficacemente confutata.
È indubbio che gli attacchi mossi dal positivismo giuridico abbiano contribuito non poco a screditare questa essenziale parte della tradizionale dottrina liberale. E in verità la teoria liberale entra in conflitto con il positivismo giuridico quando quest'ultimo afferma che ogni legge è, o deve essere, il prodotto della volontà arbitraria di un legislatore. Tuttavia, una volta accettato il principio generale di un ordine che si autoregola sulla base della proprietà individuale e del contratto giuridico, è evidente che saranno richieste, all'interno del sistema delle norme generalmente accettate, risposte particolari a specifici quesiti posti dalla logica globale del sistema; e che tali risposte appropriate dovranno essere dedotte piuttosto che arbitrariamente inventate. È tale circostanza che legittima l'idea per cui ‛la natura della questione' richiederà certe norme piuttosto che altre.
L'ideale della giustizia distributiva ha spesso attratto anche pensatori liberali ed è probabilmente divenuto uno dei fattori principali che spiegano il passaggio di tanti di essi dal liberalismo al socialismo. La ragione per cui dev'essere rifiutato dai liberali coerenti è duplice: da un lato, non esistono principi generali di giustizia distributiva universalmente riconosciuti, né è possibile dedurli, e, dall'altro, anche se fosse possibile raggiungere un accordo su principi del genere, essi non potrebbero trovare applicazione in una società in cui gli individui fossero liberi di impiegare le loro cognizioni e capacità per il conseguimento di fini privati. Per garantire specifici vantaggi ai privati quale compenso dei loro meriti (comunque essi siano valutati) sarebbe necessario infatti un tipo di ordine sociale completamente differente da quell'ordine che prenderebbe spontaneamente corpo qualora gli individui fossero vincolati solo dalle norme generali della condotta lecita: un ordine (meglio sarebbe dire un'organizzazione) in cui gli individui fossero posti al servizio di una comune e unitaria gerarchia di fini, e dove si chiedesse loro di fare ciò che è necessario nella prospettiva di un programma autoritario. Mentre un ordine spontaneo (nel senso sopra precisato) non è finalizzato ad alcuna particolare serie di bisogni, ma si limita a fornire le migliori opportunità per il perseguimento di una vasta gamma di necessità individuali, un'organizzazione presuppone che tutti i suoi membri siano al servizio del medesimo sistema di fini. E il tipo di organizzazione unica e onnicomprensiva della società, necessario per garantire che ognuno ottenga ciò che a una qualche autorità sembra che meriti, comporta necessariamente una società in cui ciascuno faccia ciò che quella stessa autorità prescrive.
f) Liberalismo ed eguaglianza
Il liberalismo chiede solamente che lo Stato, nel determinare le condizioni entro cui gli individui agiscono, fissi le medesime norme formali per tutti. Esso si oppone a ogni privilegio sancito per legge, a qualsiasi iniziativa governativa che conceda vantaggi speciali ad alcuni, senza offrirli a tutti. Ma poiché, senza la facoltà di imporre una particolare coercizione, il governo può controllare solo una piccola parte delle condizioni che determinano le prospettive dei singoli individui - i quali sono necessariamente molto differenti tra loro, sia per conoscenze e capacità personali che per il particolare ambiente fisico e sociale in cui si trovano a vivere - un trattamento eguale all'interno delle medesime leggi generali approderà necessariamente a posizioni differentissime per le diverse persone: mentre per eguagliarne la posizione o le possibilità il governo dovrebbe trattarle in modo molto differenziato. In altre parole, il liberalismo si limita a domandare che la procedura, ovvero le regole del gioco da cui vengono determinate le posizioni relative dei diversi individui, sia equa (o perlomeno non iniqua), ma non che siano equi anche i risultati particolari che deriveranno da questo processo per i singoli individui, poiché questi risultati dipenderanno sempre, in una società di uomini liberi, oltre che dalle azioni degli individui medesimi, da numerose altre circostanze che nessuno è in grado di determinare né di prevedere nella loro totalità.
Nell'epoca d'oro del liberalismo classico questa esigenza veniva solitamente espressa con la richiesta che tutte le carriere fossero aperte a chi avesse talento o, in maniera più vaga e meno precisa, con la formula della ‛eguaglianza delle opportunità'. Ma ciò, in effetti, significava soltanto la necessità di rimuovere ogni impedimento - all'ascesa verso le posizioni piu alte - che fosse il prodotto di una discriminazione giuridica tra i vari individui; non quella di eguagliare, per questa via, le possibilità dei diversi individui. Non solo le differenti capacità personali, ma soprattutto le inevitabili differenze degli ambienti di appartenenza, e particolarmente la famiglia d'origine, avrebbero continuato a rendere le prospettive estremamente diverse. Ecco il motivo per cui in una società libera è impossibile realizzare l'idea - che pure è stata in grado di attrarre molti liberali - che un ordine di cose può essere considerato equo solo qualora le possibilità di partenza di tutti gli individui siano le stesse.
Essa esigerebbe infatti una deliberata manipolazione dell'ambiente in cui operano i singoli individui; il che sarebbe assolutamente incompatibile con l'ideale di una libertà in cui gli individui possano utilizzare le proprie cognizioni e capacità per modellare questo ambiente.
Malgrado i rigidi confini che limitano il grado di eguaglianza materiale realizzabile con i metodi liberali, la lotta per l'eguaglianza formale - e cioè la lotta contro tutte le discriminazioni basate sull'origine sociale, sulla nazionalità, sulla razza, sul credo, sul sesso, ecc. - è rimasta una delle caratteristiche più spiccate della tradizione liberale. Malgrado non credesse alla possibilità di evitare differenze anche rilevanti in fatto di posizione materiale, il pensiero liberale sperava di smussarne le asprezze mediante una crescita progressiva della mobilità verticale. Il principale strumento che avrebbe dovuto assicurarla era la creazione - se necessario con fondi pubblici - di un sistema educativo universale che avrebbe almeno posto tutti i giovani indistintamente ai piedi di quella scala che in seguito ognuno, a seconda delle proprie capacità, avrebbe potuto salire. Insomma, il pensiero liberale sperò almeno di poter ridurre le barriere sociali, che vincolavano gli individui alla loro classe di origine, fornendo certi servizi a coloro che non erano ancora in grado di procurarseli da soli.
Ancor più dubbia è la compatibilità della concezione liberale dell'eguaglianza con un'altra misura, che pure ottenne un vasto appoggio nei circoli liberali: ossia l'imposizione fiscale progressiva come mezzo per conseguire una redistribuzione del reddito a favore delle classi più povere. Poiché, infatti, non è possibile individuare un criterio che consenta di far corrispondere tale progressività a una norma che possa esser valida per tutti, o che determini il sovraccarico da far gravare sui più ricchi, la tassazione progressiva sembrerebbe in conflitto con il principio dell'eguaglianza dinanzi alla legge: e tale fu, in generale, l'opinione dei liberali dell'Ottocento.
g) Liberalismo e democrazia
Con la sua insistenza sul principio di una legge eguale per tutti e la conseguente opposizione a ogni forma di privilegio legalmente riconosciuto, il liberalismo si venne a trovare in stretta connessione con il movimento per la democrazia. E, in effetti, nelle lotte ottocentesche per ottenere governi costituzionali, il movimento liberale e quello democratico furono spesso indistinguibili. Ma, col passar del tempo, divennero sempre più evidenti le conseguenze del fatto che le due dottrine erano legate - in ultima istanza - a problematiche differenti. Il liberalismo si interessa alle funzioni del governo e, in particolare, alla limitazione dei suoi poteri. Per la democrazia il problema centrale è invece quello di chi debba dirigere il governo. Il liberalismo esige che ogni potere - e quindi anche quello della maggioranza - sia sottoposto a limiti. La democrazia giunge invece a considerare l'opinione della maggioranza come il solo limite ai poteri governativi. La diversità tra i due principi emerge nel modo più chiaro se si pone mente ai rispettivi opposti: per la democrazia il governo autoritario, per il liberalismo il totalitarismo. Nessuno dei due sistemi esclude necessariamente l'opposto dell'altro: infatti una democrazia può benissimo esercitare un potere totalitario, ed è al limite concepibile che un governo autoritario agisca secondo principî liberali.
Il liberalismo è dunque incompatibile con una democrazia illimitata, proprio come è incompatibile con ogni altra forma di governo a carattere assoluto. La limitazione dei poteri, anche di quelli dei rappresentanti della maggioranza, è infatti presupposta sia dai principî sanciti in una costituzione oppure approvati dal consenso generale, sia da una legislazione realmente autolimitativa.
Pertanto, se è vero che l'applicazione coerente dei principî liberali conduce alla democrazia, è vero altresì che la democrazia si manterrà liberale soltanto se la maggioranza si asterrà dall'usare il proprio potere per attribuire ai propri sostenitori vantaggi particolari, che non possono essere tradotti in norme generali e perciò valide per tutti i cittadini. Anche se una tale situazione può verificarsi nel caso di un'assemblea rappresentativa i cui poteri siano limitati solamente all'approvazione di leggi (nel senso di norme generali di condotta lecita) su cui è probabile esista l'assenso di una maggioranza, ciò diviene invece estremamente improbabile nel caso di un'assemblea che detti specifici provvedimenti di governo. In un'assemblea rappresentativa di tal genere, che assomma poteri propriamente legislativi con poteri di governo e che, pertanto, nell'esercizio di questi ultimi non è vincolata da norme che non possa modificare, è poco probabile che la maggioranza si formi sulla base di una genuina concordia di obiettivi. Essa consisterà piuttosto nel coalizzarsi di una varietà di interessi particolari organizzati, ciascuno dei quali concederà agli altri un qualche vantaggio particolare. Dove, come è praticamente inevitabile in un corpo rappresentativo con poteri illimitati, le decisioni sono prese attraverso un mercanteggiamento di vantaggi particolari tra i vari gruppi e dove, quindi, la formazione di una maggioranza in grado di governare dipende da tale mercanteggiamento, è pressoché inconcepibile che questi poteri vengano usati esclusivamente a favore di interessi autenticamente generali.
Ma se, per tali motivi, sembra quasi certo che una democrazia illimitata finirà per abbandonare i principî liberali a favore di misure discriminatorie destinate ad avvantaggiare i vari gruppi che appoggiano la maggioranza, è quanto meno dubbio che, alla lunga, una democrazia possa salvaguardare se stessa se abbandona i principî liberali. Se il governo assume compiti che, per mole e complessità, sono sempre meno suscettibili di essere realmente indirizzati secondo le decisioni della maggioranza, sembra inevitabile che dei poteri effettivi si appropri un apparato burocratico sempre più indipendente dal controllo democratico. È pertanto non improbabile che l'abbandono del liberalismo da parte della democrazia conduca, alla lunga, alla scomparsa della stessa democrazia. In particolare, è pressoché indubbio che il tipo di economia programmata verso cui la democrazia sembra orientarsi esige, perché possa essere gestito con efficacia, un governo dotato di poteri autoritari (v. democrazia).
h) Le funzioni del governo in rapporto ai servizi
La limitazione - richiesta dai principî liberali - dei poteri governativi alla sola imposizione di norme generali di condotta lecita, non si riferisce che ai poteri di carattere coercitivo. Come è ovvio, il governo fornisce anche, mediante i mezzi finanziari a sua disposizione, un gran numero di servizi che non comportano alcuna forma di coercizione (eccetto quella implicita nella raccolta di questi mezzi attraverso le imposte). E, prescindendo forse da alcune propaggini estreme del movimento liberale, nessuno ha mai contestato che fosse auspicabile l'assunzione di tali compiti da parte del governo. Nell'Ottocento, tuttavia, essi rimasero di portata modesta e di carattere essenzialmente tradizionale: per tale ragione, dunque, furono dibattuti assai poco dalla teoria liberale, che si limitò a insistere sulla necessità di affidare questi servizi alla competenza delle amministrazioni locali piuttosto che del governo centrale. Il timore fondamentale a questo riguardo era che il governo divenisse troppo potente, timore cui si accompagnava, d'altra parte, la speranza che la competizione tra le diverse autorità locali avrebbe controllato efficacemente lo sviluppo di tali servizi indirizzandolo secondo le direttrici più auspicabili.
Il generale aumento della ricchezza e le nuove aspirazioni che essa rendeva possibile soddisfare hanno anche prodotto un'enorme crescita di questi servizi, imponendo, nei loro confronti, un approfondimento teorico assai maggiore di quello sviluppato dal liberalismo classico. Non c'è dubbio che siano molti i ‛servizi pubblici' che, pur essendo altamente desiderabili, non possono essere forniti dal meccanismo di mercato in quanto, se ci sono, essi devono andare a vantaggio di tutti e non possono essere riservati a coloro che sono disposti a pagani.
Dai compiti elementari di protezione contro la criminalità o di profilassi delle malattie infettive (e in genere dei servizi sanitari) sino alla vasta gamma dei problemi posti in modo particolare dai grandi agglomerati urbani, i servizi in questione possono essere forniti soltanto se i mezzi per far fronte al loro costo vengono ottenuti per via fiscale. Ciò significa, se tali servizi debbono essere forniti a tutti, che il loro finanziamento - e anche, pur se non sempre, la loro gestione - devono essere affidati a enti provvisti del potere di imposizione fiscale. Ciò non significa necessariamente attribuire al governo un diritto esclusivo alla fornitura di questi servizi. Il liberale auspicherà anzi che venga lasciata aperta la possibilità di intervento per l'impresa privata ogniqualvolta ciò appaia concretamente fattibile. Egli inoltre continuerà, secondo la propria tradizione, a preferire che tali servizi siano gestiti, fin dove è possibile, dalle autorità locali anziché da quelle centrali e, correlativamente, che i fondi vengano raccolti attraverso imposte locali. In tal modo infatti viene salvaguardata una qualche corrispondenza tra coloro che beneficiano di un particolare servizio e coloro che lo pagano. Ma, a parte queste indicazioni, il liberalismo ha fatto ben poco per definire principî precisi, capaci di orientare le scelte politiche in questo vasto campo di sempre maggiore importanza.
La difficoltà di applicare i principî generali del liberalismo ai nuovi problemi è emersa chiaramente nel corso dello sviluppo del moderno welfare state. Sarebbe stato certo possibile raggiungere, entro una cornice liberale, per lo meno una parte dei risultati che quello si prefigge; ciò tuttavia avrebbe richiesto un processo di sperimentazione assai più lento: il desiderio di raggiungerli per la via immediatamente più efficace ha condotto quasi ovunque all'abbandono dei principî liberali. In particolare, sarebbe stato certamente possibile fornire la maggior parte dei servizi di previdenza sociale mediante la creazione di istituti assicurativi concorrenziali, così come sarebbe stato possibile garantire a tutti, entro una cornice liberale, un livello minimo di reddito. Invece la decisione di fare dell'intero campo delle assicurazioni sociali un monopolio statale, nonché quella di trasformare l'apparato costruito a tale scopo in un grande meccanismo di ridistribuzione del reddito, hanno condotto a una crescita progressiva del settore pubblico dell'economia (ossia del settore controllato dallo Stato) e a un costante restringimento di quell'area dell'economia in cui ancora prevalgono i principî liberali.
i) Compiti positivi della legislazione liberale
La dottrina liberale tradizionale non solo non è riuscita a fronteggiare adeguatamente i nuovi problemi, ma non ha neppure elaborato un programma sufficientemente chiaro atto a delineare il quadro giuridico destinato a garantire un sistema di mercato efficiente. Perché il sistema della libera impresa funzioni in modo da arrecare dei vantaggi non è sufficiente che le leggi soddisfino i criteri di carattere negativo sopra illustrati, occorre anche che il loro contenuto positivo sia tale da far funzionare il meccanismo di mercato in modo soddisfacente. A questo scopo sono necessarie norme che favoriscano il mantenersi della concorrenza e ostacolino, nei limiti del possibile, lo sviluppo di posizioni di monopolio. Questi problemi furono alquanto trascurati dalla dottrina liberale del sec. XIX e sono stati esaminati in modo sistematico soltanto di recente da alcuni dei gruppi ‛neoliberali'.
È probabile che nel campo imprenditoriale non sarebbero mai emersi gravi problemi di monopolio se il governo non ne avesse agevolato lo sviluppo con la politica tariffaria e con certi aspetti della legislazione sulle società per azioni e sui brevetti industriali. È questione completamente aperta se sia necessario introdurre misure specifiche per combattere i monopoli in aggiunta a un quadro giuridico generale tale da favorire la concorrenza. Se si ritiene di sì, va rilevato che tale azione si sarebbe potuta fondare su quell'antica norma - che per lungo tempo è rimasta inutilizzata - della common law contro gli accordi miranti a limitare la libertà di commercio.
Solo relativamente tardi - negli Stati Uniti con lo Sherman act del 1890 e in Europa per lo più solo dopo la seconda guerra mondiale - vi è stato il tentativo di varare una legislazione volta programmaticamente a combattere trusts e cartelli; legislazione che, conferendo generalmente poteri discrezionali a enti amministrativi, non può pienamente conciliarsi con i principi liberali classici.
Tuttavia, il campo in cui la mancata applicazione dei principi liberali ha comportato lo sviluppo di impedimenti sempre maggiori per il funzionamento del sistema di mercato è quello del monopolio del lavoro organizzato, ovvero dei sindacati. Il liberalismo classico aveva appoggiato le rivendicazioni operaie di ‛libertà di associazione' ed è forse per questa ragione che più tardi mancò di opporsi efficacemente al trasformarsi dei sindacati operai in istituzioni cui la legge riconosce il privilegio di impiegare la coercizione in modi non consentiti a nessun altro. Questa posizione dei sindacati operai, appunto, ha reso largamente inoperante in materia di determinazione dei salari il meccanismo di mercato, ed è più che dubbio che un'economia di mercato possa continuare a sussistere quando la determinazione concorrenziale dei prezzi non vale anche per i salari. Se il meccanismo di mercato continuerà a esistere o se invece verrà sostituito da un sistema economico fondato su una pianificazione centralizzata, è problema che potrà dipendere dalla possibilità di ripristinare in qualche modo un mercato del lavoro concorrenziale.
Gli effetti di questo sviluppo appaiono già dalla maniera in cui hanno influenzato l'azione governativa nel secondo importante settore in cui un meccanismo di mercato funzionante presuppone un positivo intervento del governo: il mantenimento di un sistema monetario stabile. Benché il liberalismo classico ritenesse il gold standard capace di fornire un meccanismo automatico di regolazione dell'offerta monetaria e creditizia tale da garantire un funzionamento soddisfacente del sistema di mercato, nel corso della storia è di fatto emersa una struttura creditizia in gran parte dipendente dalla deliberata regolazione attuata da un'autorità centrale. In epoca recente queste facoltà di controllo, che per qualche tempo erano state poste nelle mani di banche centrali indipendenti, sono state di fatto trasferite ai governi, soprattutto perché la politica di bilancio è divenuta uno dei principali strumenti di controllo monetario. I governi hanno così assunto la responsabilità di determinare una delle condizioni essenziali dalle quali dipende il funzionamento del meccanismo di mercato.
Stando così le cose, in tutti i paesi occidentali i governi sono stati costretti, al fine di assicurare un adeguato livello di occupazione nella condizione creata dai livelli salariali ottenuti dall'azione sindacale, a perseguire una politica inflazionistica il cui effetto è di far crescere la domanda monetaria più velocemente dell'offerta dei beni. Da ciò è derivata una situazione di inflazione crescente che i governi hanno poi dovuto contrastare ricorrendo a forme di controllo diretto dei prezzi che vanno rendendo il meccanismo di mercato sempre più inoperante. Questo sembra dunque l'inizio di un processo che, come abbiamo già osservato, condurrà il meccanismo di mercato - fondamento necessario di un sistema liberale - verso la sua progressiva dissoluzione (v. mercato).
l) Libertà intellettuale e materiale
Probabilmente i principi politici del liberalismo che abbiamo posto al centro della nostra esposizione non appariranno a molti, che pur si considerano liberali, come esaustivi delle loro convinzioni e, anzi, neppure come i più importanti. Come si è già osservato, il termine ‛liberale' è stato usato spesso - e particolarmente negli ultimi tempi - per designare soprattutto un atteggiamento mentale generale piuttosto che una specifica concezione delle funzioni proprie del governo. Sarà dunque opportuno, per concludere, ritornare sul rapporto tra questi più generali fondamenti di ogni pensiero liberale e i principi giuridici ed economici, sì da mostrare come questi ultimi siano il risultato necessario di un'applicazione coerente delle idee che hanno condotto alla rivendicazione della libertà intellettuale, su cui concordano tutte le differenti correnti liberali.
La convinzione centrale, da cui si può affermare derivino tutti i postulati liberali, è quella per cui la soluzione migliore dei problemi sociali è da attendersi, piuttosto che dall'applicazione di quel dato sapere di un certo individuo, da un processo interpersonale di scambio delle opinioni, da cui emergerà un sapere migliore. Si riteneva che la discussione e la critica reciproca delle diverse opinioni, derivate da differenti esperienze, avrebbero condotto alla scoperta della verità, o perlomeno alla migliore approssimazione alla verità possibile in una situazione data. La libertà di opinione individuale veniva rivendicata proprio perché ogni individuo era ritenuto fallibile e si supponeva dunque che il raggiungimento del sapere migliore sarebbe derivato solo dalla sistematica sperimentazione di tutte le opinioni. Questa, a sua volta, poteva essere assicurata soltanto dalla libera discussione. In altri termini, il progressivo avvicinamento alla verità lo si attendeva non tanto dal potere della ragione individuale (di cui il pensiero liberale diffidava), quanto dai risultati del processo interpersonale di discussione e di critica. E anche lo sviluppo della ragione e del sapere individuali era ritenuto possibile soltanto nella misura in cui l'individuo partecipava a questo processo.
Che l'avanzare del sapere, ossia il progresso, garantito dalla libertà intellettuale, e il conseguente accresciuto potere da parte dell'uomo di raggiungere i propri fini, fossero cose altamente desiderabili, era uno dei presupposti del credo liberale. Si sostiene talvolta, ma non del tutto giustamente, che con ciò si intendesse esclusivamente il progresso materiale. In effetti se è vero che il pensiero liberale si attendeva, dall'avanzare del sapere scientifico e tecnico, la soluzione della maggior parte dei problemi, è vero anche ch'esso accompagnava a ciò la convinzione - alquanto acritica, malgrado fosse empiricamente giustificata - che la libertà avrebbe comportato un progresso anche nell'ambito della sfera morale. Sembra vero almeno questo: che spesso, nei periodi in cui progredisce la civiltà, vengono più ampiamente accolte convinzioni morali che in fasi precedenti erano state riconosciute soltanto in modo imperfetto e parziale. Più discutibile, invece, se il rapido progresso intellettuale prodotto dalla libertà abbia comportato anche uno sviluppo della sensibilità estetica; ma la dottrina liberale non ha mai rivendicato alcuna influenza in questa direzione.
Tutte le argomentazioni a sostegno della libertà intellettuale valgono anche per la libertà di fare, vale a dire per la libertà d'azione. Le svariate esperienze, da cui sorgono le differenze di opinione che, a loro volta, danno origine allo sviluppo intellettuale, sono il risultato delle diverse scelte d'azione compiute da diverse persone in circostanze diverse. Così come per la sfera intellettuale, anche in quella materiale la concorrenza è il mezzo più efficace per scoprire il modo migliore di raggiungere i fini umani. Soltanto là dove sia possibile sperimentare un gran numero di modi diversi di fare le cose si otterrà una varietà di esperienze, di conoscenze e di capacità individuali tale da consentire, attraverso la selezione ininterrotta delle più efficaci tra queste, un miglioramento costante. E poiché l'azione è la fonte principale delle conoscenze individuali, su cui poggia il processo sociale di avanzamento del sapere, le ragioni della libertà di azione sono altrettanto forti di quelle della libertà di opinione. E, infine, in una società moderna, fondata sulla divisione del lavoro e sul mercato, la maggior parte delle nuove forme d'azione sorgono nell'ambito economico.
Ma c'è un altro motivo per cui la libertà d'azione, specialmente nel campo economico (così spesso giudicato di rilievo secondario), è altrettanto importante della libertà intellettuale. Se è infatti l'intelletto che sceglie i fini dell'azione umana, il loro raggiungimento dipende però dalla disponibilità dei mezzi necessari: ne consegue che una qualsiasi forma di controllo economico, che conferisca potere sui mezzi, conferisce al tempo stesso potere sui fini. Non può darsi libertà di stampa quando l'editoria sia soggetta a controllo governativo, o libertà di riunione se lo stesso accade per i locali necessari a realizzarla, o libertà di movimento se i mezzi di trasporto sono monopolio pubblico e così via. È questa la ragione per cui la gestione statale di ogni attività economica, spesso intrapresa nella speranza vana di mettere mezzi più ampi a disposizione di tutti gli scopi possibili, ha invariabilmente prodotto rigorose restrizioni dei fini che gli individui possono perseguire. Probabilmente la lezione più significativa di tutte le vicende politiche del XX secolo consiste appunto nel mostrarci come il controllo della parte materiale della vita abbia dato ai governi - in quelli che abbiamo imparato a chiamare sistemi totalitari - ampi poteri sulla vita intellettuale. Noi siamo in grado di scegliere i fini che vogliamo perseguire soltanto se una varia molteplicità di fonti ci mette a disposizione i mezzi necessari.
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