Shamroy, Leon
Direttore della fotografia statunitense, di origine russa, nato a New York il 16 luglio 1901 e morto a Los Angeles il 7 luglio 1974. Nel bianco e nero contese a Lee Garmes la fama di 'principe delle tenebre' per il gusto minimalista nell'uso delle fonti illuminanti. Non tradì del tutto questo approccio nemmeno quando, negli anni Quaranta, si affermò come specialista del Technicolor. Conosciuto e apprezzato per la rapidità sul set, fu conteso dai produttori e divenne il più premiato direttore della fotografia di Hollywood: fu infatti candidato all'Oscar diciotto volte e quattro volte vinse il premio, sempre per film a colori, nel 1943 per The black swan (1942; Il cigno nero) e nel 1945 per Wilson (1944), entrambi di Henry King, nel 1946 per Leave her to heaven (1945; Femmina folle) di John M. Stahl, nel 1964 per Cleopatra (1963) di Joseph L. Mankiewicz. è uno dei cinque direttori della fotografia a poter vantare una stella sulla 'Walk of fame' di Hollywood.Figlio di un chimico russo emigrato negli Stati Uniti alla fine dell'Ottocento, studiò ingegneria meccanica alla Columbia University e collaborò con lo zio Nicholas J. Shamroy alla costruzione del motore Lawrence, di nuova concezione. Si avvicinò al cinema nei primi anni Venti come tecnico di laboratorio per la Fox Film Corporation, potendo così studiare il comportamento dei negativi nelle zone prossime alla sottoesposizione. Dal 1927, con Tongues of scandal di Roy Clements, divenne operatore, e negli anni seguenti lavorò, per diverse piccole case di produzione, in film di genere a basso costo, diretti prevalentemente da Charles Hutchison. Ma nel 1928 filmò (pur se con scarsi mezzi tecnici) due opere di valore: The last moment di Paul Fejos, autoprodotto, privo di didascalie e girato tutto in soggettiva; Acoma, the sky city di Robert J. Flaherty, un documentario sugli indiani del New Mexico che non venne mai terminato perché il materiale girato fu distrutto in un incendio. Partecipò poi come operatore anche a una spedizione etnografica in Giappone, Cina e Filippine. Nel 1933 venne scritturato dalla Paramount Famous Lasky Corporation (dal 1935 Paramount Pictures), dove fotografò vari film di Marion Gering imprimendovi il marchio di una fotografia di gusto realista, e per alcuni anni fu l'operatore preferito di Sylvia Sidney e Claudette Colbert. In un mélo psichiatrico di Gregory La Cava, Private worlds (1935; Mondi privati), usò per la prima volta uno zoom, all'epoca quasi sconosciuto. Nel 1936 collaborò alla regia di un mélo 'politico' di Ben Hecht e Charles MacArthur, Soak the rich, senza essere accreditato. Nel 1938 illuminò Janet Gaynor in The young in heart (Quattro in paradiso) di Richard Wallace, film che nel 1939 gli procurò la prima nomination all'Oscar e un contratto con la 20th Century-Fox. Rimase in questa società sino alla fine della sua vita, collaborando soprattutto ai film in Technicolor di King e Walter Lang. Si vide affidare alcuni dei più impegnativi kolossal a colori della major, da Prince of foxes (1949; Il principe delle volpi) e The snows of Kilimanjaro (1952; Le nevi del Chilimangiaro), entrambi di King, a The Egyptian (1954; Sinuhe l'egiziano) di Michael Curtiz e Cleopatra. Al suo talento di sperimentatore vennero affidati alcuni dei primi film girati in Cinemascope, come The robe (1953; La tunica) di Henry Koster, e in Todd-AO, come South Pacific (1958) di Joshua Logan, due sistemi che però S. ‒ come molti suoi colleghi ‒ non amò particolarmente a causa della perdita di definizione dovuta all'allargamento del formato. Portò il contributo della sua vivace immaginazione figurativa in tutti i generi, dalla commedia, come in Daddy long legs (1955; Papà Gambalunga) di Jean Negulesco, alla fantascienza, come in Planet of the apes (1968; Il pianeta delle scimmie) di Franklin J. Schaffner.
Tra gli altri registi con i quali lavorò sono da ricordare Raoul Walsh, Charles Vidor, John Cromwell, Archie Mayo, William A. Wellman, Elia Kazan, Ernst Lubitsch, Robert Wise, Edward Dmytryk, Fritz Lang, Carol Reed, Otto Preminger, George Cukor.
Ch. Higham, Hollywood cameramen, London 1970, pp. 18-34, 155-58.