Legittimazione soggettiva ed oggettiva all'appello
Con la l. n. 103/2017 e il d. lgs. n. 11/ 2018 vengono novellati i casi nei quali il pubblico ministero e l’imputato sono legittimati ad appellare. Si tratta dell’intervento normativo che riconsidera la materia dopo l’intervento della l. n. 46/2006 (cd. legge Pecorella), che aveva ridisegnato i casi di appello, dichiarata costituzionalmente illegittima con decisione n. 26/2007 e n. 85/2008 della Corte costituzionale. In un’ottica volta all’efficienza del sistema, il nuovo testo riduce l’area dell’appellabilità del p.m. e dell’imputato, in modo da calibrare equamente il sacrificio in termini di accesso all’impugnazione di merito.
Nell’ambito dell’ampio contenuto della riforma Orlando rappresenta una significativa novità la rivisitazione della legittimazione soggettiva e oggettiva all’appello. Fallito il tentativo di riforma operato dalla l. 20.2.2006, n. 46, dichiarata incostituzionale, scartata l’ipotesi di operare una profonda revisione del giudizio di appello, il legislatore, per evitare analoghe censure, in maniera diametralmente opposta, con la l. 23.6.2017, n. 103 e il d. lgs. 6.2.2018, n. 11 ha inciso sull’ambito relativo all’appellabilità della sentenza di non luogo a procedere1, di quella ordinaria (e quella del giudizio abbreviato) in maniera parziale, ma efficace.
La cd. riforma Orlando – in conformità alle indicazioni fornite dalle sentenze 6.2.2007, n. 26 e 4.4.2008, n. 85 circa il bilanciamento fra le garanzie difensive (art. 24, co. 2, Cost.) e la durata ragionevole del processo (art. 111, co. 2, Cost.), al fine di decongestionare il carico giudiziario pendente in quella fase e di rendere più semplice e agevole i procedimenti d’appello – ha novellato il giudizio di secondo grado di merito, anche attraverso un più ordinato e razionale ingresso della domanda di controllo delle decisioni di primo grado (arg. ex artt. 546, 581, 591 c.p.p.). Per quello che qui interessa deve dirsi che la novella si è mossa su più versanti: soggettivo, oggettivo e riformando meccanismi che “di riflesso” agiscono sulla materia2.
Facendo propri i rilievi di attenta dottrina, il d. lgs. n. 11/2018 limita e razionalizza la legittimazione alla proposizione dell’appello da parte del Procuratore generale: essa è ridotta ai soli casi di avocazione o acquiescenza. Chiara la prospettazione di evitare appelli concorrenti e di limitare l’accesso all’impugnazione di merito nei soli casi in cui ricorre la necessità di porre rimedio a situazioni di possibile inerzia del pubblico ministero di primo grado, palesata, anche, attraverso il ricorso “anticipato” all’avocazione. La riforma valorizza, dunque, il ruolo svolto dal procuratore della Repubblica presso il Tribunale che ha coltivato le indagini, esercitato l’azione penale, rappresentato l’accusa nel processo e che, quindi, viene ritenuto del tutto legittimato a scegliere se coltivare (o meno) l’impugnazione di merito. Fermo restando quanto stabilito dal giudice delle leggi in ordine al fatto che il potere di appello del p.m. non può riportarsi all’obbligo di esercitare l’azione penale (art. 112 Cost.) – perché di questo non costituisce estrinsecazione necessaria (C. cost., 9.5.2003, n. 165; 16.7.2002, n. 347; 21.12.2001, n. 421; 26.5.1994, n. 198/1994, 23.12.1998, n. 426) – la nuova “assegnazione” pare, invece, limitare il potere in esame nel solo caso in cui occorre tutelare proprio l’inerzia dell’accusa. A tal fine, l’art. 3, 1° comma del testo inserisce un nuovo art. 593 bis c.p.p., rubricato Appello del pubblico ministero secondo il quale: «Nei casi consentiti, contro le sentenze del giudice per le indagini preliminari, della corte d’assise e del tribunale può appellare il procuratore della Repubblica presso il tribunale» (art. 593 bis, co.1, c.p.p.) e subito dopo circoscrive lo stesso potere del Procuratore generale presso la corte di appello «soltanto nei casi di avocazione o qualora il procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza al provvedimento» (art. 593 bis, co. 2, c.p.p.). Al di là del carente richiamo al semplice Procuratore della Repubblica di primo grado, senza distinzione fra il “titolare” (procuratore), il “rappresentante” (sostituto procuratore) del medesimo ufficio ovvero il pubblico ministero che ha presentato le conclusioni3, a confortare il fatto che il limite inerisce alla sola appellabilità soccorre la contestuale modifica apportata all’art. 570, co. 1, secondo periodo, c.p.p. Analogo limite è, poi, prospettato per l’appello contro la sentenza di non luogo a procedere. Le modifiche, com’è intuibile, riducono parallelamente la legittimazione al ricorso per saltum (che spetta alla parte che ha diritto ad appellare)4. Al fine di raccordare i rapporti tra i diversi uffici, il nuovo art. 166 bis disp. att. c.p.p. stabilisce che «al fine di acquisire tempestiva notizia in ordine alle determinazioni relative all’impugnazione delle sentenze di primo grado, il Procuratore Generale presso la Corte di Appello promuove intese o altre forme di coordinamento con le procure della Repubblica del distretto»: ne discende che i rapporti fra i due uffici sono strutturati in maniera più dinamica e flessibile, agevolando la conoscenza delle reciproche determinazioni, anche ai fini della decorrenza (differente) del termine per impugnare. Non sono stati, invece, affrontati i problemi legati ai possibili appelli non coincidenti o divergenti per capi, motivi e/o richieste probatorie e/o contenuti diversi da quelli prospettati nell’atto d’appello presentato, né i casi di rinuncia per cui è incerto se il Procuratore generale possa (o meno) porre nel nulla, anche in via parziale, l’impugnazione presentata da altro pubblico ministero.
Raccogliendo le “aperture” manifestate in materia dalla note pronunce della Corte costituzionale nn. 26/2007 e 85/2008 e in maniera opposta alla soluzione avanzata con la l. n. 46/2006, la novella del 2018 ha inciso sulla sfera oggettiva dell’appellabilità: al riguardo si prevede che, fermo quanto previsto dagli artt. 443, co.3, 448, co. 2, 579 e 680 c.p.p., il p.m. può appellare la sentenza di proscioglimento, posto che la pretesa punitiva portata avanti con l’esercizio dell’azione penale non ha, in tal caso, trovato soddisfacimento. Sul punto, tuttavia, va tenuto presente che la l. n. 103/2017, per far fronte alla eventualità della condanna dell’imputato per la prima volta in appello, ha inserito nell’art. 603 c.p.p. il nuovo comma 3bis, ove si prevede la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel caso di «appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa»5. In simmetria, il p.m. non può appellare le sentenze di condanna, salvo che non modifichino il titolo di reato formulato nel capo d’imputazione, che venga riconosciuta una circostanza aggravante ad effetto speciale o sia stabilita una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato se le eccezioni non appaiono sempre ragionevoli6 non v’è dubbio, invece, che la nuova disciplina si sovrappone, in parte – e per taluni irragionevolmente – al regime stabilito per le sentenze pronunciate in sede di giudizio abbreviato7. Ad ogni modo, distinto il piano della responsabilità da quello del trattamento sanzionatorio (di esclusiva pertinenza del giudice), l’appello è ammesso (limitatamente) nei soli casi in cui la decisione giudiziale incide in maniera significativa sulla prospettazione accusatoria (ergo, sull’imputazione). La novella accentua così il ruolo antagonista dell’organo d’accusa: d’altro canto il principio di parità tra accusa e difesa ex art. 111 Cost., non comporta necessariamente l’identità dei poteri processuali del p.m. e del difensore dell’imputato, date le differenze fisiologiche fra le due parti. Le asimmetrie sono, dunque, ammissibili, anche con riferimento alle impugnazioni. Le segnalate esclusioni, peraltro, dovrebbero assicurare una maggiore celerità nella definizione dei processi in conformità all’art. 111 Cost., benché – si badi – l’innesto agisca “di riflesso” sul venir meno della reformatio in peius (art. 597, co. 3, c.p.p.). Ragioni di uniformità hanno comportato l’esclusione del potere d’appello dell’imputato contro sentenze di proscioglimento emesse perché «il fatto non sussiste» o «l’imputato non lo ha commesso»: la scelta non pare avere effetti dirompenti, tenuto conto del soddisfacimento della pretesa connessa, per l’imputato, al diritto di difesa e che le decisioni erano già inappellabili per carenza d’interesse8. Un discorso diverso va formulato rispetto alle sentenze emesse ai sensi dell’art. 530, co.2, c.p.p. rispetto alle quali l’imputato subisce un “pregiudizio” e che meriterebbero il diritto al controllo9. La questione, nota alla dottrina, non è stata coltivata dal legislatore, nonostante la Commissione ministeriale incaricata di predisporre una proposta di articolo per l’attuazione della delega conferita al Governo, avesse indicato la necessaria modifica degli artt. 652 e 653 c.p.p.10 Il mancato recepimento va, forse, individuato nel fatto che, così statuendo, la legge finisce per ammettere che ciascuna parte debba sopportare un “parallelo” sacrificio dei propri poteri di impugnazione. In conformità, le nuove previsioni sono state oggetto di coordinamento con la disciplina dettata per la sentenza di non luogo a procedere. La necessità di eliminare l’asimmetria originata dalla l. n. 46/2006 e rilevata da C. cost. n. 85/2008 ha condotto alla riforma dell’art. 593, co. 3, c.p.p.: è prevista «in ogni caso» (dunque, anche contro le decisioni pronunciate nel giudizio abbreviato), l’inappellabilità delle sentenze di condanna e di proscioglimento (e di non luogo), relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con una pena alternativa. Con la l. n. 103/2017 è stata, invece, ripristinata l’appellabilità della sentenza di non luogo a procedere, escludendo, tuttavia, la legittimazione della parte civile.
Tratto peculiare della novella del 2018 è sicuramente la riduzione del potere di proporre l’appello incidentale in capo al solo imputato: l’istituto – nato a favore del p.m. per fronteggiare l’appello dell’imputato, e voluto “solo” a favore di quest’ultimo, interpretato da C. cost., 17.11.1971, n. 177 e assegnato nel 1988 a tutte le parti – oggi pertiene unicamente all’imputato. La limitazione si giustifica «nella prospettiva della riduzione dell’appellabilità senza sacrificio per le ragioni della difesa» e con l’esigenza di ricondurre entro parametri oggettivi di stretta legalità l’appello del pubblico ministero, onde evitare che impugni soltanto in conseguenza dell’appello dell’imputato; e, per altro verso, di restituire equilibrio a una situazione altrimenti sbilanciata in favore della parte pubblica, a causa della facoltà di neutralizzare per incidens il divieto di riforma in peius: la soluzione pone sullo sfondo la funzione deterrente finora svolta dal meccanismo. L’abolizione de qua ha comportato l’abrogazione dell’art. 166 disp. att. c.p.p. rubricato Comunicazione al procuratore generale dell’appello dell’imputato ove si prevedeva la comunicazione anche al procuratore generale non impugnante dell’appello principale dell’imputato. Il mutamento avrebbe determinato, secondo parte dei commentatori, un cambiamento dello spazio applicativo dell’istituto: esso spetterebbe all’imputato anche in caso di carenza della legittimazione in via principale. Ne sarebbe derivato il pieno recupero del diritto di difesa sui fronti della partecipazione attiva e della rinnovazione della prova dichiarativa (art. 603, co. 3-bis, c.p.p.); prerogative, queste, altrimenti sottratte all’iniziativa dell’imputato, quando appella in via principale il solo pubblico ministero allo scopo di ottenere un mutamento in peius dell’assoluzione piena11. Ancora incerta è la sua estensione alla sentenza di non luogo a procedere. La scelta appare, ad una parte della dottrina, del tutto irragionevole, tenuto conto delle ripercussioni che operano sull’istituto da sempre ritenuto il giusto “contrappeso” verso le impugnazioni dilatorie e infondate12. Sotto tale aspetto, non può non tenersi conto di quanto stabiliscono i novellati artt. 546, lett. e) e 581 c.p.p.13 Il nuovo co. 3 dell’art. 595 c.p.p. assegna all’imputato – privo della legittimazione in via principale – la facoltà di presentare memorie e richieste scritte entro 15 giorni dalla notificazione dell’impugnazione presentata dalle altre parti. Valorizzando il diritto di difesa e al contraddittorio l’art. 595, co. 3, c.p.p. consente all’imputato di depositare, nella cancelleria del giudice, memorie o richieste scritte nelle quali poter chiedere (mediante “motivi a sostegno”) una diversa statuizione in relazione alle istanze o alle eccezioni sollevate con l’impugnazione da altri proposta.
La facoltà, già ammessa dalle Sezioni Unite Andreotti, per far fronte ai consapevoli deficit di garanzie difensive, rientra in quanto già previsto all’art. 121 c.p.p. La nuova norma, tuttavia, intende responsabilizzarlo ad uno sviluppo ordinato ed “accelerato” della procedura, come traspare dalla previsione di uno specifico termine.
La ratio e la collocazione della norma inducono a limitarne l’operatività entro i limiti e i confini già individuati dall’appello principale (da altri proposto).
Al diritto de quo corrisponde l’obbligo di una motivazione precipua e rafforzata del giudice.
All’interno del quadro delineato, costituisce una significativa novità l’introduzione dell’art. 568, co.4-bis c.p.p. a mente del quale «il pubblico ministero propone impugnazione diretta a conseguire effetti favorevoli all’imputato solo con ricorso per cassazione»: a contrario, l’organo dell’accusa non può proporre appello pro reo. Posta in seno alla disciplina dell’interesse all’impugnazione, la norma, finisce, tuttavia, per influenzare l’ambito della legittimazione. Aspramente censurata da una parte della dottrina14 per la sua irragionevolezza, proprio per il limite che essa determina, in verità la disposizione svolge una funzione “servente” per evitare (ogni) un possibile rilievo d’incostituzionalità o censure d’irragionevolezza delle soluzioni fortemente riduttive operate in tema di legittimazione all’appello da parte dell’organo d’accusa, come indica la stessa Relazione illustrativa. La previsione intende, infatti, valorizzare proprio il ruolo istituzionale spettante a quest’ultimo e, segnatamente, il suo obbligo di vegliare sull’«osservanza delle leggi» e «alla pronta e regolare amministrazione della giustizia»: più che aggiungere un ulteriore limite (in punto di interesse) all’appellabilità, la previsione configura, dunque, il riconoscimento del pubblico ministero come soggetto orientato ad assicurare la legalità del processo.
Da tempo attesa, la riforma, per quanto settoriale e minima, ha da subito sollevato le critiche di una parte della dottrina data la sua inidoneità a realizzare l’auspicata deflazione processuale. In particolare, l’attenzione si è rivolta all’abolizione dei tipici meccanismi deflattivi (riduzione dell’appello incidentale) e al nuovo art. 568, co. 4-bis, c.p.p. ritenuto asistematico e assolutamente contrastante con la funzione di garante della legalità e gli obbiettivi istituzionalmente imposti all’organo d’accusa (arg. ex art. 73, co. 1, ord. giud.), tanto da individuarvi una sorta di trasformazione, neppure troppo velata, del ruolo della magistratura requirente sul piano ordinamentale15. Ad essa, invece, si affida la “tenuta costituzionale” dell’intera manovra operata sul versante della legittimazione all’appello da parte del Procuratore della Repubblica. Sotto tale aspetto la riforma opera indubbiamente un “mutamento culturale”, basti pensare all’assegnazione al Procuratore Generale della funzione di coordinamento e di collaborazione con l’organo d’accusa di primo grado, ben lontana da quella struttura gerarchica sulla quale riposava finora la materia . La soluzione, come le altre, importa una nuova configurazione, più oggettiva e strettamente legale degli istituti e dello stesso giudizio d’appello sempre più configurato quale strumento di controllo della sentenza, che mezzo per ottenere un “nuovo giudizio” (v. nuovo art. 603, co. 3-bis, c.p.p.). È pacifico, peraltro, che le novelle sinteticamente indicate vanno collocate in un quadro più ampio e generale quale è quello ricavabile dall’insieme delle modifiche già operate dalla l. n. 103/2017, prima, e di quelle più vaste del d. lgs. n. 11/2018, poi.
1 Garuti, G., L’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, in Arch. pen., Supp. n.1, 2018, 657 ss.
2 Per un efficace quadro di sintesi, cfr. Bargis, M., Primi rilievi sulle proposte di modifica in materia di impugnazioni nel recente d.d.l. governativo, in Dir. pen. cont.– Riv. trim., 2015, fasc. 1, 4; Id., I ritocchi alle modifiche in tema di impugnazioni nel testo del d.d.l. n. 2798 approvato dalla camera dei deputati, in www.penalecontemporaneo.it, 19.10.2015, 12, 1 ss.; Ceresa Gastaldo, M., La riforma dell’appello, tra malinteso garantismo e spinte deflative, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2017, fasc. 3, 3 ss.; Gialuz, MCabiale, A.Della Torre, J., Riforma Orlando: le modifiche attinenti al processo penale, tra codificazione della giurisprudenza, riforme attese da tempo e confuse innovazioni, in Dir. pen. cont – Riv. trim., 2017, fasc. 3; Spangher, G., La riforma Orlando della giustizia penale: prime riflessioni, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2016, fasc. 1, 88 ss.; Id., DDL n. 2067: sulle proposte di modifica al codice di procedura penale, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, n. 3, in www.giurisprudenzapenale.com.
3 V. Bargis, M., Riforma in due fasi per la disciplina dell’appello penale, in www.penalecontemporaneo.it, 13.6.2018, 2.
4 Diversamente potendo fare riferimento all’organo specifico del p.m., Lorenzetto, E., Nuovi interventi sulla struttura dell’appello e ricadute sul ruolo delle parti, in La riforma delle impugnazioni: tra carenze sistematiche e incertezze applicative, a cura di M. Bargis e H. Belluta, Torino, 2018, 238.
5 In particolare, Bargis, M., Riforma in due fasi, cit.
6 De Caro, A., La deflazione delle impugnative, in La riforma della giustizia penale, a cura di A. Scalfati, Torino, 2017, 342; Lorenzetto, E., Nuovi interventi, cit., 241.
7 In senso critico, Ceresa Gastaldo, M., La riforma dell’appello, cit., 171 ss.; adde, Lorenzetto, E., op. cit., 240.
8 In tal senso v., anche, De Caro, A., La deflazione, cit., 341.
9 Suggerisce l’introduzione dell’appellabilità, Dell’Anno, P.P., Le tre deleghe sulla riforma processuale introdotte dalla legge n. 103 del 2017, in Processo penale e giustizia, 2017, 1092; contra, Lorenzetto, E., op. cit., 243.
10 V., già volendo, Marandola, A., La riforma Orlando si completa: approvato il decreto legislativo sulle impugnazioni, in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 10, 261.
11 Lorenzetto, E., op. cit., 247.
12 Così, Lorenzetto, E., op. cit., 247.
13 Cfr., fra gli altri, Scaccianoce, C., La riforma “Orlando” e la semplificazione del sistema delle impugnazioni: dalla “specificità” dei motivi alla struttura ‘mutevole’ dell’appello, in Arch. pen., 2017, 3, 891-910.
14 In senso fortemente critico, Bargis, M., op. cit., 3; Fonti, R., Interventi e ripercussioni sul ricorso per cassazione nel “secondo tempo” della riforma sulle impugnazioni, in La riforma delle impugnazioni tra carenze sistematiche e incertezze applicative, a cura di M. Bargis e H. Belluta, Torino, 2018, 246 ss.
15 Lorenzetto, E., op. cit., 246.