Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Anche le scuole vescovili restano contagiate dalla tradizione pagana delle feste stagionali, legate a sovversivi rituali carnevaleschi: i giovani chierici non disdegnano all’occasione di trasformarsi in attori o pantomimi dando vita a “contrasti” o a mimi conviviali. Ai chierici vaganti, che si prodigano in rappresentazioni parodiche, si contrappone – sul finire del X secolo – la solitaria drammaturgia di Rosvita che nel monastero di Gandersheim compone in moduli terenziani sei drammi cristiani, apologetici e miracolistici.
Giovanni Crisostomo
La vita è un palcoscenico
De Lazaro
Quando tu, seduto in teatro, vedi uno di quelli che recitano laggiù con la maschera del re, non lo giudichi beato, né lo prendi per re, né ti auguri di diventare come lui; ma sapendo che è uno qualunque della piazza, forse un funaio o un ramaio o qualcosa di simile, non lo reputi felice per la maschera o per la veste che indossa, e non giudichi da questo il suo stato, ma lo disprezzi per la sua vile condizione. Fa’ lo stesso nel caso nostro: immaginati di stare nel mondo come in un teatro, guardando a quelli che recitano sulla scena: se vedi molti che sono ricchi, non pensare che siano realmente ricchi, ma che portano la maschera di ricchi. Poiché, come colui che sulla scena sostiene la parte del re o del condottiero, spesso è servo di colui che vende sul mercato i fichi e l’uva, così precisamente questo ricco spesse volte è il più miserabile di tutti. Strappagli la maschera, mettine a nudo la coscienza, entra nel suo animo: troverai un’assoluta povertà di virtù, toccherai con mano che egli è il più abbietto degli uomini. Come a teatro, al cader della sera, gli spettatori se ne vanno, e gli attori escono fuori e depongono il loro apparato scenico, e quelli che davanti a tutti comparivano come re e condottieri, si mostrano ormai per quel che sono, così anche nella vita: quando sopraggiunge la morte e la rappresentazione è terminata, tutti depongono la maschera della ricchezza e della povertà e se ne partono di qui.
San Cipriano
Cena con furto
Coena Cypriani
19. Si sparecchia. Ciascuno vuole andarsene. Ma il re dispone che ciascuno cambi nuovamente di abito, tornando a essere quel che era prima. Gesù riassume le spoglie di maestro, Nembrod quelle di cacciatore, Pietro torna pescatore, Adamo ortolano, Tobia medico ecc..
[…]
21. Dopo ciò si recano i doni al re. Abramo offre una pecora, Tecla un toro, Rebecca un cammello, Levi dei pinocchi, Mosè due tavole ecc..
22. Ma il re viene a conoscere che vari oggetti gli sono stati rubati. Infatti Agar aveva rubato una coperta, Rachele il sigillo aureo, Tecla uno specchio d’argento. Beniamino una coppa, Tamar l’anello signatorio, Giuditta un copertoio di seta, Davide la lancia del re, Abimelech la moglie di un altro.
23. Il re indignato ordina che tutti siano condotti ai tormenti. E così per prima viene decollato Giovanni, Adamo scacciato; Zaccaria si fa muto, Giacobbe se la dà a gambe, Nabuccodonosor stupisce, Eva interrogata cerca un compagno nella colpa, Pietro nega tre volte.
24. Senonché tutti hanno un po’ la coscienza turbata. Incominciano le accuse e le discolpe. E finalmente si prova a Gioele che il reo è Achar. Presto viene preso, condannato e messo a morte.
25. Il re ordina che sia sepolto. Efron vende il suolo, Abramo lo compera, Nachor fa il monumento, Caino lo costruisce, Marta vi sparge gli aromi, Noè lo chiude e Pilato ne detta l’epigrafe. Dopo di che ciascuno torna a casa.
V. De Bartholomaeis, Origini della poesia drammatica italiana, Torino, SEI, 1952
L’assimilazione di rituali pagani, aperti a una licenza sovversiva, contamina certe feste stagionali come la primaverile Cornomannia che, il sabato successivo alla Pasqua, consentono ai giovani del basso clero – per l’intero anno tenuto a una rigida disciplina – di liberare, a Roma sui prati antistanti il Laterano, la loro compressa vitalità parodica: in un rimescolio di religiosi e laici, di parrocchiani e comparse in costume, prendono così vita improvvisate rappresentazioni satiriche. Secondo il rituale fisso, il priore della scuola di canto dapprima cavalca un asino fra gli sbeffeggiamenti degli allievi, poi l’allegria è incrementata da canti di lode, inframmezzati da scenette comiche e dagli arcipreti che avanzano, insellati alla rovescia, cercando di raggiungere il piatto di monete fissato in capo al ciuco. Infine preti e sagrestani – il capo ornato di segala cornuta – dopo la distribuzione di dolci e frittelle, tornano in processione nelle loro diciotto parrocchie. Portano la benedizione di casa in casa mentre il papa stesso riceve e scambia doni (tra questi la tradizionale volpe che fugge in mezzo alla folla tumultuante).
In realtà la contaminazione parodica del sacro fa il suo ingresso istrionico anche nelle chiese – spesso templi pagani riadattati –, l’unico spazio pubblico sempre aperto al popolo dei fedeli. In particolare le feste paraliturgiche di chierici, diaconi, presbiteri (celebrate rispettivamente il 28 dicembre come Festa degli Innocenti, il 26 dicembre nell’occorrenza di Santo Stefano, il 27 dicembre per San Giovanni) avevano aperto, nell’intento d’assimilare cultura e tradizioni pagane, l’interno dell’edificio sacro alle processioni grottesche, alle mascherate e ai lazzi del basso clero.
Lo spirito licenzioso delle libertates decembris rinnova allora i carnevaleschi cerimoniali delle infrazioni, dei capovolgimenti, delle inversioni gerarchiche instaurando un fittizio trionfo della follia con l’elezione derisoria di un episcopus puerorum. La Festa degli Innocenti vede un presule imberbe salire in cattedra con i sacri paramenti, il pastorale e la mitria: benedice le follie ed empietà di chierici e preti che durante un’imitazione del servizio divino entrano nel coro, danzando mascherati e cantando ritornelli osceni. Invece dell’incenso nel turibolo bruciano pezzi di cuoio e i più esagitati, dopo aver corso, saltato, ballato, non esitano a denudarsi. L’occasione si prestava anche a introdurre ludi theatrales palesando nei giovani chierici, che si trasformavano in istrioni, un’inconfessata solidarietà funzionale con la prassi attorica degli istrioni. Non per nulla il canone 7 del concilio di Tours dell’813 diffida i sacerdoti affinché “fuggano le spudoratezze dei turpi istrioni e le violenze degli spettacoli ed esortino gli altri sacerdoti a fuggirle”.
Solitamente sono i giovani chierici a trasformarsi in mimi, ma la festa non preclude l’accesso né all’invadenza dei gruppi girovaghi di musicanti e pantomimi né alle prestazioni eccessivamente libere dei fedeli; tanto che il canone 15 del concilio romano dell’826, relativo ai banchetti dei giorni festivi, ammonisce proprio nei riguardi di pseudofedeli che ancora si comportano al modo delle pantomime: “Ci sono donne che nei giorni festivi e sacri, e nei natali dei santi, amano venire in chiesa non per desiderio delle cose dovute, ma per ballare, cantare ritmi osceni, effettuare e guidare danze comportandosi come pagani”.
Alle feste paraliturgiche, al ludico capovolgimento della gerarchia ecclesiale, non s’opponevano certo le autorità civili, tant’è che la Cronaca di Eccardo – maestro del coro nel monastero di San Gallo nell’odierna Svizzera – registra come il re Corrado I, per premiare la devozione dei giovani monaci, concedesse loro, per il Natale del 911, tre giorni ad ludendum. Nei secoli successivi le feste paraliturgiche e l’eredità sovvertitrice delle calende pagane sarebbero culminate nelle Feste dei folli, aggregando fedeli, chierici e giullari nella degenerazione dell’ufficio liturgico.
Sebbene dalla corte di Aquisgrana il monaco di York, Alcuino, applichi con determinazione il suo progetto di restaurazione civile dell’Occidente su basi classico-religiose e attivi al proposito una soprannazionale scuola palatina, le sue diffide a clero e laici dal praticare spettacoli (una lettera del 791 lamenta: “L’uomo che ospita attori, mimi e saltimbanchi nella sua casa non sa quale turba di spiriti diabolici vi penetri”) non sortiscono sempre gli effetti auspicati.
La stessa politica di morigeratezza, insieme etica e culturale, si impone di seguire l’erede di Carlo Magno, Ludovico il Pio, il cui biografo assicura: “Non esaltò mai nel riso la sua voce e quando, nelle grandi feste, i musici di scena rallegravano il popolo e i buffoni e i mimi, con i danzatori e i suonatori di cetra, stavano presso la mensa al suo cospetto, allora il popolo rideva con misura davanti a lui, ma egli non mostrò mai i candidi denti nel riso”.
Le scuole episcopali, durante la rinascita carolingia, seguono un loro preciso progetto di recupero del teatro classico, riesumando le commedie di Terenzio, commentate e studiate pure nell’apprendimento della lingua latina.
Da una siffatta frequentazione nasce probabilmente l’anonimo contrasto dialogico Terenzio e il critico, una disputa da recitarsi fra studenti forse in un’occasione festosa che consente il gioco mimico-espressivo sottolineandolo con smorfie, gesti, a solo, lazzi. Il giovane schernitore entra infatti sulla vuota scena esordendo con una serie di imperativi: “Cessa di ricordare i tuoi vecchi e triti consigli, o Terenzio! Smettila, finalmente: e vattene, vecchio poeta, ché i tuoi versi mi sono a noia. Taci quei tuoi raccontini: roba vecchia [...] che bella poesia la tua! Val tanto come questo”. Un monologo ove gli scarti tonali, le indicazioni spazio-temporali, organizzano la scena agìta verbalmente, sino al gesto di spregio del battersi la mano sul didietro, gesto che rinnova i lazzi derisori dell’istrione pantomimico. A questo punto non può che affacciarsi sulla scena un incredulo Terenzio, caricando il suo registro verbale di sdegnata superiorità, e d’incredulo risentimento: “Chi ha pronunciato tali parole? Da quali lontane contrade viene il miserabile che così villanamente ha ghignato contro di me?”. Probabilmente destinato a recitarsi fra studenti, il testo s’interrompe al verso 66, ma il suo movimento scenico documenta una teatralità e un carattere mimico che ha già contagiato la cultura elitaria e la sua passione per il teatro antico.
In epoca carolingia quella teatralità altomedioevale che è prima affidata all’improvvisazione d’istrioni e pantomimi comincia a essere fissata o a rivivere in un testo scritto. È quanto avviene per un fortunato mimo conviviale come la Cena Cypriani la cui originaria versione pare collocabile fra il IV e il VII secolo. Di ignoto autore, il mimo risponde ai caratteri di fabula saltica, testo recitabile da una voce con l’ausilio visivo di danze e azioni mimate. In virtù del suo costante successo sarà riproposta dal maestro palatino Rabano Mauro attorno all’855, articolata in ben 24 quadri ad uso della corte carolingia di Lotario II; nell’876 il diacono Giovanni Imonide l’avrebbe rielaborata in versi per una messinscena destinata alla corte papale.
Il divertimento degli spettatori lo garantiscono i singoli quadri cantati e danzati la cui conduzione è affidata al mimo buffo Crescenzio. Questi, balbettando, accentua il carattere irriverente, comico e grottesco, delle azioni rappresentate. Il pretesto lo fornisce un banchetto nuziale offerto dal re Gioele a Cana, sulle rive del Giordano: vi convengono di buonora uno stuolo di personaggi estrapolati con la massima libertà cronologica dal Vecchio e dal Nuovo Testamento: a contraddistinguerli è un dettaglio ironico o un elemento parodistico legato alle loro vicende bibliche. Accanto ad Adamo, Eva prende posto sedendosi su una foglia di fico, il pastore Abele s’accomoda sopra una secchia da latte, Noè sopra un’arca, Pietro in cattedra, Sansone è provvisto di colonne e l’infelice Giobbe deve accontentarsi dello sterco. Con gli antipasti, la parodia si sviluppa collocando Davide all’arpa mentre Erodiade intreccia i suoi passi di danza; Eva ruba un fico prima che la turba gaudente si denudi in attesa delle vesti cenatorie. Quando si tratta di collaborare alla preparazione del pranzo, a Isacco tocca portar la legna, il vitello lo conduce Abramo e l’uccisione spetta a Caino mentre Erode ne sparge il sangue. Durante il banchetto scoppia un tumulto perché si scopre che Isacco ha mangiato del capretto e Tobia del pesce arrostito; dal piatto recato da Erodiade esce una testa per Giovanni, un’orecchia per Pietro, la costola va ad Eva, vulvam va ad Elisabetta.
Davanti al pubblico di chierici e prelati – tutti esperti conoscitori della materia biblica – il momento spettacolare delle libagioni incrementa l’atmosfera carnevalesca e dissacratoria: Noè s’addormenta ubriaco, Giacobbe vuota i bicchieri altrui e un parapiglia scoppia per il vino adulterato da Giona.
Tra la girovaga professionalità dei pantomimi e la officiante drammaturgia coltivata in scuole e monasteri si muove anche il popolo irregolare dei clerici vagantes, giovani del basso clero in giro per le strade d’Europa, che incrementano la pratica dello spettacolo allarmando le autorità carolinge. Un capitolare dell’814 impone a chiunque di non accogliere “i chierici e i monaci vaganti senza il consenso del vescovo”; divieto infruttuoso se, nel 930, alcuni vescovi esortano arcidiaconi, decani e ufficiali della cristianità a far rapare a zero “i chierici ribaldi” affinché almeno “non resti in essi segno della tonsura clericale”.
Ora mossi dalla necessità di raggiungere nuove scuole o università o corti bandite da sovrani e feudatari, ora spinti da un giovanile spirito d’avventura, spesso incalzati da pratiche necessità di sopravvivenza, a volte in polemica con le gerarchie o renitenti alla giustizia, i chierici vaganti offrono la loro esuberanza e il loro estro artistico per occasionali rappresentazioni burlesche, scherzi goliardici, farse oscene, parodie liturgiche, senza sottrarsi ad amori o intrallazzi, volentieri unendosi agli istrioni, ai mimi, ai musicanti di professione. Invece di evocare biblici profeti, questi giovani transfughi della Chiesa parodiano l’ufficio drammatico intonando: “Dimmi tu Adamo, primo uomo, / che fosti ingannato col pomo”; e al primo cantore risponde gestendo e mimando il secondo: “Fui cacciato dalla casa di Dio. / La mia donna mi defraudò, / e saziandomi con la mela / mi privò del paradiso” – così l’Officium Lusorum nella celebre raccolta dei Carmina Burana, conservati dall’abbazia bavarese di Beuren.
Ai chierici vaganti appartiene, accanto alle rappresentazioni burlesche, anche il registro celebrativo del Gaudeamus igitur, l’invito a uno spontaneo epicureismo non privo di fugaci note nostalgiche. Tutto sommato una complessiva acculturazione dello spettacolo altomedievale e dei suoi protagonisti che poi segue anche più isolati percorsi.
La scelta cristiana del culto dell’antica Roma, voluta dagli imperatori di casa sassone del X secolo, avvia un nuovo fervore di attività culturali nei grandi centri monastici: a San Gallo si traducono in volgare tedesco le Bucoliche di Virgilio e l’Andria di Terenzio. Al contempo il Quem queritis?, il “Chi cercate?” rivolto dall’angelo alle tre Marie in visita al vuoto sepolcro di Cristo, apre, insieme alla Visitatio sepulchri, il cerimoniale liturgico a un embrionale movimento dialogico cantato-declamato su cui si articolerà lo spettacolo religioso delle sacre rappresentazioni.
Nel monastero di Gandersheim la monaca Rosvita compone in latino sei drammi cristiani: Gallicano, Dulcizio, Callimaco, Abramo, Pafnuzio, Sapienza, ispirandosi agli Acta sanctorum e alle Vitae patrum, ma recuperando il modello drammaturgico di Terenzio per la caratterizzazione dei personaggi, l’eleganza e il nitore dello stile.
Con vivace ardimento la monaca si dichiara nella prefazione “la forte voce di Gandersheim” chiamata a celebrare “la lodevole purezza delle sante vergini cristiane” e, in virtù del suo intento parenetico ed edificante, legittima la scelta di servirsi “dello stesso genere di composizione con cui gli antichi rappresentavano turpi impudicizie di donne invereconde”. A difesa di una sua eroina – e della sua capziosità stilistica – non esita a proclamare che: “Quanto più le dolci parole degli amanti sono atte a sedurre tanto più alta è la gloria dell’aiuto divino [...] specialmente quando si vede vittoriosa la fragilità femminile e la forza maschile domata e confusa”.
Il carattere comunitario della tradizione culturale sassone e il fervore religioso di Rosvita ben poco concedono alle discriminazioni fra i sessi e la monaca inaugura a suo modo una scrittura al femminile che coniuga la tematica della fanciulla indotta o forzata – per la sua bellezza – nella strada del vizio ma sempre capace di volgere gli aspetti erotici delle sue vicissitudini verso la catarsi, la redenzione, il martirio suo o dei suoi malvagi persecutori. Nell’Abramo la virginale Maria, sedotta da un giovane voluttuoso nonostante l’educazione alla preghiera cui l’ha allevata lo zio eremita, è fuggita in un lupanare; ma Abramo, scosso dal sogno d’un drago minaccioso, vi si reca travestito, finge di volerla possedere e, svelandosi, la redime riconducendola nel deserto ad espiare; lei è ormai consapevole che: “l’enormità dei miei peccati mi ha precipitata nel profondo della disperazione”. Però sa che Dio l’attende. Nel Callimaco la bellissima Drusiana, sposa insidiata, ottiene di morire per non cedere e, quando Callimaco corrompe il becchino per impossessarsi del cadavere dalla tomba, esce un drago che lo uccide; il marito ottiene però da San Giovanni una generale resurrezione e il rinsavito Callimaco si pente e si converte.
Cariche di risvolti erotici e salvifici, queste peripezie tra vizio, violenza, prodigi, martiri e redenzioni, s’intrecciano nello spazio e nel tempo coinvolgendo apocalitticamente l’intero universo con clamorosi balzi cronologici. Il corpus agiografico dei sei testi di Rosvita costruisce deliberatamente una prima forma di drammaturgia cristiana da contrapporre a quella pagana del modello terenziano. È la lontana anticipazione d’una drammaturgia della parola articolata su un testo accuratamente scritto. Oggetto di pubbliche letture in ambito monastico, parrebbe che, dei sei drammi, almeno il Gallicano – con la sua esemplare vicenda di castità, conversione, martirio – venisse rappresentato nel XII secolo e fosse poi utilizzato nel 1489 da Lorenzo de’Medici per comporre la sua Rappresentazione dei santissimi Giovanni e Paolo.