Saltarelli (Salterello), Lapo
Giurista e rimatore fiorentino (secc. XIII-XIV), figlio di Guido da Monte di Croce; appartenne a un'oscura famiglia venuta di contado e dimorante in Firenze nel Sesto di San Piero Scheraggio, della quale egli, con il fratello Simone, fu l'esponente più noto e importante. Di lui ci sono pervenuti dei componimenti poetici - fra i quali alcuni sonetti " doppi " o " rinforzati " - che lo fanno annoverare fra i rimatori minori del Duecento fiorentino; D. Compagni gli rivolse un sonetto per chiedergli un parere legale.
Il Lana e l'Anonimo lo dicono " popolare e nato di vile luogo ", aggiungendo un accenno alla ricercatezza del suo comportamento che attirò l'attenzione dei contemporanei e divenne motivo ricorrente nelle citazioni che di lui fecero anche altri commentatori della Commedia. L'Ottimo precisa, infatti, che egli fu " di tanti vezzi in vestire e in mangiare, in cavalli e famigli, che infra nullo termine di sua condizione si contenne ", e conclude contrapponendo a questa ricerca di mollezze, quasi assumendola a meritata punizione di esse, la triste conclusione della vita di lui con la povertà dell'esilio, " deposti per necessitade tutti li predetti adornamenti "; Pietro di D., più conciso e severo, lo dice " lascivus multum ", concordando in questo giudizio col Buti che pone l'accento sulle effeminatezze del S., dicendo che " al tempo de l'autore fu molto leggiadro ". Altri commentatori, invece, quasi mirando a giustificare sotto un profilo moralistico il giudizio dantesco sul S., ne sottolineano un'altra cattiva qualità, che molto probabilmente i contemporanei stessi mettevano polemicamente in evidenza in un giurisperito e uomo politico come Lapo, fortemente impegnato nella vita cittadina e nella lotta tra le fazioni. Lo pseudo Boccaccio, infatti, lo dice " superbo, d'ogni rea condizione e fama "; Benvenuto lo definisce " vir litigiosus et linguosus ", ambedue ripresi dal Landino che ne scrive: " molto litigioso et molto maledico ". Con giudizi che non sono, però, documentati, e sembrano piuttosto parafrasi delle parole di D., il quale (Pd XV 128 un Lapo Salterello) fa del S. il prototipo di un'epoca di decadenza e di corruzione, avvicinandone la condotta immorale a quella della Cianghella di Arrigo della Tosa (" donna " - dice l'Ottimo - " piena di tutto disonesto abito e portamento, e parlante senza alcuna fronte, o alcuno abito o atto pertinente a condizione di donna "), e contrapponendone i vizi alle virtù di Cincinnato e di Cornelia.
Le carte d'archivio fiorentine che documentano la biografia e l'impegno politico del S. avviano alla comprensione dei motivi più veri del severo giudizio pronunciato a suo carico da D. e dai commentatori della Commedia. I verbali delle " Consulte " ne mettono in luce la partecipazione al dibattito politico riportandone i frequenti interventi nelle discussioni dei consigli fra il 1280 e il 1301, unitamente alle deliberazioni prese dalle autorità comunali a proposito di lui (per autorizzarlo ad accettare la nomina a podestà di Spoleto, nel maggio 1293 - avrebbe ricoperto la stessa carica a Brescia nel 1298 -; per risarcirlo delle spese fatte per curare un cavallo, nell'agosto 1295; per permettergli di " dividere quasdam terras cum plebano de Septimo ", nel maggio 1296). Questa copiosa documentazione mostra il S. come un qualificato esponente del ceto dirigente guelfo, ricercato della sua collaborazione non soltanto per la cultura giuridica - nel 1283 è citato come " iuris civilis professor de populo Sancti Petri Scheradii "; nel 1288 fu eletto arbitro nella contesa tra i setaioli e l'intera arte di Por Santa Maria - ma anche per il suo orientamento politico. Il comune lo adopera come ambasciatore (nel 1284, per le trattative con Lucca; nel 1291 in Romagna, per sostenere Ildebrandino Guidi nella richiesta della liberazione di Stefano Colonna prigioniero dei da Polenta), come revisore delle leggi cittadine (nel 1290 fece parte della commissione incaricata di proporre nuove norme per l'amministrazione delle gabelle), come membro dei consigli ristretti convocati per l'elezione dei supremi magistrati politici e giurisdizionali (1289, 1293).
Nel 1285, con Lotto degli Agli, propone che venga conferita al capitano del popolo una " balìa " trimestrale al fine di permettergli di reprimere le violenze commesse dai magnati nel contado, risolvendo con decisione quel problema politico e giuridico della massima importanza. Nel 1292 è eletto per la prima volta priore (per il bimestre 14 febbraio-14 aprile), con una scelta che lo qualifica tra gli esponenti più noti della classe dirigente guelfa; nell'aprile 1295 è inviato ambasciatore a Bonifacio VIII - con Panzardo de' Pulci, Vanni de' Mozzi e Migliore Guadagni -, per concordare col papa la reazione del comune di Firenze contro l'opera che Jean de Chalons andava svolgendo in Toscana onde restaurarvi i diritti dell'Impero (marzo 1295), e per chiedere l'intervento di Carlo II d'Angiò a sostegno dei guelfi. In questo periodo vien maturando anche la scelta politica del S. fra Bianchi e Neri, con l'adesione ai Cerchi (dei quali è anche lontano parente, poiché sua figlia Ermellina ha sposato Scolaio di Giovanni de' Cerchi, cugino di messer Vieri), insieme con altri uomini di legge, come messer Donato Ristori. Fin dal 1285 il S. si era qualificato come un assertore dell'autonomia della legislazione e dell'azione giurisdizionale del comune, opponendosi ai conati d'ingerenza da parte del pontefice; in quell'anno egli aveva sostenuto la legittimità dei provvedimenti punitivi presi a carico dei chierici, impugnati dall'autorità ecclesiastica. La sua polemica anticurialista si sarebbe accentuata negli anni dello scontro decisivo tra Bonifacio VIII e i Bianchi fiorentini, attirando su di lui l'inimicizia dei Neri e del pontefice, e con ciò preparando la propria rovina.
Nel marzo 1300, infatti, trovandosi a Roma come membro dell'ambasceria incaricata di sondare le reali intenzioni del papa a proposito della libertà di Firenze, egli fu il principale inquisitore circa le mene di tre concittadini (Simone degli Spini, Noffo Quintavalle, e il notaio ser Cambio) che, protetti dal papa, tramavano contro l'indipendenza della loro città. Tornato a Firenze, il S., insieme col gonfaloniere Lippo Rinucci-Becca e con ser Bondone Gherardi, si fece inflessibile accusatore dei tre, i quali vennero condannati duramente il 18 aprile. La sentenza provocò l'esasperata reazione di Bonifacio VIII, che commise (24 aprile) al vescovo di Firenze di chiedere al comune l'annullamento del processo e di citare dinanzi al proprio tribunale Lapo e i suoi collaboratori nell'accusa. Le pretese del pontefice furono decisamente respinte dai consigli del comune, che affermarono - il S. consulente - l'autonomia della giurisdizione cittadina. E, quasi a conferma di questa presa di posizione e a riconoscimento dell'impegno con cui l'aveva assunta, il S. fu cooptato priore nel collegio che entrò in ufficio il 15 aprile - era già stato priore una seconda volta nel 1296 -. Ancora più dura e minacciosa fu la replica del papa, il quale si rivolse (15 maggio 1300) non più soltanto al vescovo, ma anche all'inquisitore, il francescano fra' Grimaldo da Prato, ordinando loro di esigere la revoca della condanna emanata contro i suoi protetti e portando la questione sul piano dottrinale, con l'accusa di eresia lanciata specificamente contro il Saltarelli. Questi, infatti, " visus [erat] suggerere... quod de processibus et sententiis Communis non debebamus " - dice il papa - " nos intromittere nec etiam poteramus ", con un'affermazione che, secondo Bonifacio VIII, lo faceva degno di condanna, come negatore della potestà conferita ai successori di Pietro, di giudicare i singoli e le pubbliche autorità. Il conflitto tra il comune e il pontefice si collocava in quel momento nel più vasto quadro della reazione opposta dai liberi comuni alla concezione teocratica di Bonifacio VIII; Bologna, in quello stesso periodo, inseriva nei propri statuti norme limitatrici delle pretese papali, e offriva con ciò un precedente di gran peso per un'analoga deliberazione (13 giugno 1300) da parte dei consigli fiorentini. Questi decisero di vietare al pontefice qualsiasi ingerenza nell'amministrazione della giustizia, limitando i casi in cui era ammesso concedere l'ausilio del braccio secolare all'autorità ecclesiastica. La controversia fu sostenuta, dopo il 15 giugno 1300, anche dalla signoria di cui faceva parte D., cooptato a far parte di quel collegio a opera dei precedenti priori, che compivano una scelta di cui era stato principale sostenitore il Saltarelli. E ridivenne vivacissima nei giorni della permanenza in Firenze del cardinale Matteo d'Acquasparta, quando quel prelato - ma D. non era più priore - richiese, ancora una volta invano, la revoca delle leggi votate il 13 giugno, scomunicando la città e pretendendo che il braccio secolare sostenesse proprio l'esecuzione della sentenza emanata contro il S. e gli altri implicati nel processo a carico degli amici del pontefice.
La ricapitolazione di questi avvenimenti contribuisce a dare la misura dell'influenza goduta in Firenze dal S., al punto da essere collocato al centro della polemica, attirando su lui solo la veemente diatriba di Bonifacio VIII; il pontefice individuava nel giurista di fede bianca il principale esponente di una direttiva politica ostile alle pretese del papato e della Parte nera.
Se, tuttavia, il S. fu per allora salvato dalla permanenza dei Bianchi al governo, i successivi avvenimenti del 1300 - 1301 l'obbligarono a preoccuparsi seriamente della propria sorte, compromessa dalla crisi generale della Parte bianca. Lapo cercò - ma inutilmente - di salvarsi (il Compagni coglie acutamente questa sua preoccupazione: " molto temea il Papa per l'aspro processo avea fatto contro a lui ", II 10); l'antico acceso partitante dei Cerchi si accostò agli avversari, approvando l'ingresso di Carlo di Valois in Firenze e, dopo l'arrivo del " paciaro ", accogliendo in casa propria Pazzino de' Pazzi, lo sbandito che era rientrato in città al seguito del principe, " confidandosi in lui che lo scampasse, quando fusse tornato in stato " (Compagni, ibid.). Per salvare la propria posizione politica, il S. si fece anche strumento consapevole degl'inganni orditi ai danni dei Bianchi; questi gli prestavano ancora fede " perché era molto scienziato e sperto " e ne seguirono il consiglio, accettando di affidare alcuni di loro alla lealtà del Valois, il quale, invece, li trattenne come ostaggi, rimandando alle loro case i Neri.
Il voltafaccia, tuttavia, non meritò al S. il perdono degli avversari, nonostante che egli si fosse rifugiato nelle case dei Pulci. Egli fu condannato il 1° febbraio al bando e alla confisca dei beni, per baratteria, e venne compreso nella sentenza del 10 marzo successivo, che condannava anche l'Alighieri. Della sua vita di esule (che fu povera, come riferisce l'Ottimo) resta una testimonianza nel documento che lo cita fra i membri della delegazione inviata dagli sbanditi a Genova nel settembre 1302 per chiedere che fosse interdetto da quel comune il rifornimento del grano ai Fiorentini. I beni confiscati furono restituiti il 26 novembre 1326 - ma il S. era già morto da tempo in Sardegna (come testimoniato da un'iscrizione trasferita dalla distrutta chiesa di San Francesco alla soglia di quella di Santa Maria di Bonaria in Cagliari: " Hoc est sepulcrum domini viri Lapi de Saltarelli dottoris legum de Florentia induti in morte habitu fratrum minorum ") - al fratello di Lapo, Simone, frate domenicano, già vescovo (dal 1317) di Parma e in quel tempo arcivescovo di Pisa (dal 1323).La Provvisione - nel cui testo quei beni sono elencati - fu, forse, presa dai consigli anche in riconoscimento del patriottismo dimostrato dal figlio dell'esule, Piero, presente in armi ad Altopascio contro i ghibellini.
La viltà del tradimento perpetrato nel 1301 gli valse l'invettiva del Compagni (II 22 " O messer Lapo Saltarelli, minacciatore e battitore de' rettori che non ti serviano nelle tue questioni! "), che pur gli era stato amico, e il severo giudizio di D., il quale - quantunque nei consigli ne avesse più volte condiviso la linea politica e lo avesse compagno di sventura - non esitò a indicarlo come cittadino disonesto e corruttore dei pubblici ufficiali, la cui molle e lasciva condotta morale era stata premessa dell'ancor più grave e ripugnante incoerenza politica.
Bibl.- Le fonti documentarie e cronistiche relative a Lapo S. sono edite in A. Gherardi, Le consulte della repubblica fiorentina dall'anno MCCLXXX al MCCXCVIII, Firenze 1896-1898, ad indicem; Piattoli, Codice 56, 87, 92; I. Del Lungo, Dino Compagni e la sua Cronica, I, Firenze 1879, II, ibid. 1887, ad indicem; C. Fauriel, D. et les origines de la langue et de la littérature italienne, I, Parigi 1854, 160-163, mostra di conoscere (ma non li pubblica) i documenti pontifici di accusa contro il S., che sono editi da G. Levi, Bonifazio VIII e le sue relazioni col Comune di Firenze, Roma 1882, 39-53, 90-92, 95-98. Si veda anche Zingarelli, Dante, ad indicem. Per l'intelligenza dell'opera politica del S.: F.T. Perrens, Histoire de Florence, II, Parigi 1877, 327-515 e passim; III, ibid., 14; ma soprattutto Davidsohn, Storia, ad indicem. Sull'opera poetica del S. cfr. G. Bertoni, Il Duecento, Milano 1943³, 128, 168, 299. Brevi cenni biografici, tratti dai documenti già citati, in G.G. Warren Lord Vernon, L'Inferno, ecc., II, Documenti, Londra 1862, 569-570; Scartazzini, Enciclopedia 1105-1106. L'iscrizione tombale è riportata da F. Nissardi, L.S. a Cagliari, in " Arch. Stor. Sardo " I (1905) 210 ss.
Per la biografia di Simone S., cfr. Davidsohn, cit., ad indicem.