Labriola tra Croce e Gentile
In Italia il primo dibattito su Karl Marx attraversa la crisi fin de siècle, tra Otto e Novecento. A differenza di quanto avviene in altri Paesi europei, nei quali prevale la dimensione politica, la discussione italiana su Marx e sul materialismo storico investe la filosofia: coinvolge temi essenzialmente teoretici, destinati a segnare la cultura del nuovo secolo. Di modo che il confronto sulla filosofia di Marx – sul suo statuto epistemico e le sue ascendenze; sul suo valore euristico; sui suoi rapporti con la storia e la storiografia, la sfera morale e la prassi politica – appare retrospettivamente un capitolo cruciale del Novecento italiano, se non una delle sue fonti.
Antonio Labriola (1843-1904), Benedetto Croce e Giovanni Gentile ne sono, insieme, i protagonisti. Il primo, per l’autorevolezza conquistata quale primo riconosciuto interprete italiano delle pagine marx-engelsiane; gli altri due, perché l’incontro con Marx, mediato dal confronto con Labriola, li interroga subito in profondità, rivelandosi decisivo nelle fasi iniziali di elaborazione del loro pensiero. Non è un dialogo semplice, è piuttosto un confronto teso, tormentato. Un conflitto talora drammatico, intessuto di riserve e di fraintendimenti. Nel quale incidono anche tratti del carattere, vicende e relazioni personali, ma che riflette soprattutto divergenze inconciliabili di ordine teorico nel rapporto con un testo che si riconosce essenziale per la comprensione della modernità. E che è oggetto di interpretazioni radicalmente diverse, nel cui sviluppo l’articolata ma unitaria lettura filosofica offerta da Labriola si dissolve – pur in presenza di una comune cifra antipositivistica e antievoluzionistica – tra l’esigenza crociana di concretezza e distinzione (e la conseguente riduzione metodologica del materialismo storico) e la tensione gentiliana all’unità, al rigore logico, alla soluzione iperfilosofica delle contraddizioni.
Tra Croce e Labriola – dei tre, l’unico marxista – vive un affetto saldo, fatto di stima e di riconoscenza che permarranno nonostante rotture, accuse e sospetti, delusioni e risentimenti. Tra Labriola e Gentile il dialogo resta invece formale ed esteriore, a dispetto di una più forte sintonia, almeno apparente, nella considerazione della cifra filosofica del testo marxiano. Tra Gentile e Croce nasce, sullo sfondo dello studio di Marx, una collaborazione importantissima per entrambi e destinata a segnare la cultura italiana della prima metà del nuovo secolo. Ma questo dialogo – concordia discors – se li vede talora uniti contro Labriola, non stempera tuttavia le dissonanze. Che, profonde sin dall’inizio, emergeranno dirompenti al tempo della piena maturità del loro pensiero, con il drammatico divaricarsi delle traiettorie politiche.
Croce incontra Labriola a Roma all’inizio del 1884 nel ‘salotto’ dello zio paterno Silvio Spaventa, da entrambi assiduamente frequentato. È il momento più duro della sua vita, segnato dalla recente tragedia di Casamicciola. In quel cenacolo Labriola si distingue per vivacità e spregiudicatezza. Il giovane sta lì «tutto orecchi ad ascoltare», affascinato da uno «spirito scintillante» (B. Croce, Antonio Labriola, 1904, in Id., Filosofia, poesia, storia, 1951, p. 1120). E presto decide che, tra tutti i corsi universitari, quello di filosofia morale tenuto da Labriola è il solo che valga la pena di seguire. Nasce così un rapporto umano e intellettuale («d’affetto e di dimestichezza», p. 1121) destinato a durare vent’anni e a segnare la formazione dell’allievo. Dal Contributo alla critica di me stesso, che Croce scrive nel 1915 al termine della propria sistemazione teorica, apprendiamo qualcosa in più a proposito di questo decisivo incontro.
L’insegnamento dello «herbartiano e antihegeliano Labriola» (Contributo alla critica di me stesso, in Id., Filosofia, poesia, storia, cit., p. 1161) è un’ancora di salvezza per il giovane studioso, scosso in radice dal dolore, pervaso dall’angoscia, attraversato da ricorrenti fantasie di morte. Quelle lezioni «vennero incontro inaspettatamente al mio angoscioso bisogno di rifarmi in forma razionale una fede sulla vita e i suoi fini e doveri», una volta caduta la fede religiosa e manifestatesi le tentazioni del relativismo, del naturalismo, del materialismo. Perché, spiegando Johann Friedrich Herbart, Labriola comunica l’esigenza inderogabile di aprirsi all’ideale morale ed etico, di riconoscerne «maestà» e incondizionatezza (p. 1145). E riesce, stemperando l’astrattezza dell’intransigentismo herbartiano, a infondere, insieme all’«amore per l’acuta distinzione» (p. 1160), il vivo sentimento della concretezza morale. Così l’immagine del maestro viene ad affiancarsi, nella mente di Croce, agli altri suoi punti di riferimento intellettuale e morale di questi anni, primi fra tutti Silvio Spaventa e Francesco De Sanctis, studiato con passione già al liceo.
Non è dunque per caso che, tornato a Napoli nel 1886, Croce mantenga stretto il rapporto con Labriola, le cui parole sempre «beve avidamente» (pp. 1147, 1161). In verità, i primi cinque anni napoletani trascorrono in prevalenza su studi storico-eruditi, non senza che Labriola – mal disposto anche verso le preoccupazioni del giovane per la propria salute, che riconduce a un eccesso di attenzione per se stesso – esprima al riguardo riprovazione. Più volte, con un tono paterno che Croce poco apprezza e mal tollera, rimprovera al «giovanotto» una propensione «frivola» all’erudizione e una «vanità letteraria» che induce a studi «inutili» (Labriola a Croce, 16 luglio 1888, in A. Labriola, Carteggio, a cura di S. Miccolis, d’ora in avanti CL, 2° vol., 2002, pp. 453-54). Croce se ne risente, al punto che lo scambio epistolare s’interrompe per oltre due anni, fino all’autunno del 1891. Ma per quel che conta, e cioè per l’influenza concreta che esercita su Croce, l’insegnamento labrioliano resta in questi anni decisivo nello svolgimento della ricerca crociana e ai fini di quel risveglio filosofico che, a partire dal 1892, ne determina l’itinerario.
Gli esercizi storiografici da soli non stanno, occorre definirne il senso, lo scopo e la metodologia: quindi, in primo luogo, i presupposti e le caratteristiche epistemiche. Di questo Croce si occupa in alcuni scritti apparsi tra il 1893 e il 1895, raccolti in volume nel 1896 (Il concetto della storia nelle sue relazioni col concetto dell’arte). Benché nei confronti di questo libro Labriola non formuli giudizi, non è eccessivo sostenere che la sua prelezione sui Problemi della filosofia della storia (1887) ne costituisce il principale punto di riferimento.
Entrambi i cardini dell’argomentazione crociana (l’idea che, in quanto narrazione di fatti «individuali», la storiografia non sia assimilabile alle scienze «proprie»; e che, mentre è legittimo, anzi indispensabile, filosofare sulla storia per illustrarne metodi, oggetti e criteri di giudizio, sia invece irricevibile la pretesa tipica della filosofia della storia, di affermare l’unità reale del corso storico per poi desumerne una metafisica di stampo teleologico) vi si trovano enunciati e svolti, sulla base delle stesse premesse herbartiane e neocriticistiche (e dei medesimi riferimenti al dibattito tedesco, da Johann Gustav Droysen alla Völkerpsychologie) che ora informano le riflessioni del giovane Croce. Le quali, per parte loro, non mancano forse di esercitare un’influenza sul maestro, che di lì a poco preciserà la dimensione narrativa della storiografia – «racconto», non «astrazione»; «esposizione», non mera analisi risolutiva – con il definirla, «in una parola», «arte» (A. Labriola, Del materialismo storico. Dilucidazione preliminare, 1896, in Id., Scritti filosofici e politici, a cura di F. Sbarberi, 1973, d’ora in avanti SFP, p. 624; cfr. CL, 3° vol., 2003, p. 614): idea intorno alla quale, in definitiva, si impernia, a quest’altezza, la teoria crociana della storia.
Discussa in sedi internazionali, la memoria del 1893, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, fa ben presto di Croce una voce autorevole e riconosciuta nel dibattito sulla teoria della storia. Egli è del resto per «natura» – lo ripeterà anche a Labriola, deluso dalla sua renitenza a impegnarsi in politica – un uomo di studi, dedito alla ricerca storica, alla riflessione teorica, alla scrittura e all’organizzazione del lavoro culturale. Ma ciò non significa che viva o ambisca a vivere rinserrato in una torre d’avorio. L’interesse politico è, al contrario, ben vivo tra le motivazioni del suo impegno intellettuale, animato da ragioni etiche e da passione civile.
Di certo non è casuale che proprio a lui Labriola si rivolga nell’aprile del 1895 per chiedergli il «permesso» di inviargli il manoscritto del suo primo saggio marxista (In memoria del Manifesto dei comunisti) che, di lì a qualche mese, vedrà la luce per iniziativa e a spese dello stesso Croce. Sta di fatto che la lettura delle pagine labrioliane e, subito, degli scritti di Marx e Friedrich Engels ha l’effetto di un trauma. Moltissimi anni dopo, recensendo la prima edizione delle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci («Quaderni della “Critica”», luglio 1947, 8, pp. 86-88), rievocherà questa scoperta in termini decisamente riduttivi.
Nel 1895, quand’io, non ancora trentenne, presi a studiare il Marx e il materialismo storico, la mia sollecitudine, alquanto impaziente, era per quel che potessi apprenderne per meglio indirizzare i miei lavori di storia (p. 87).
Ben diverso e più aderente al vero è il ricordo di quell’esperienza intellettuale ed emotiva consegnato al Contributo: lesse e rilesse il Manifesto marxiano, sentendosi «tutta accendere la mente», al punto di non potersi più «distoglier[e] da quei pensieri e problemi» che gli infondevano «fede e speranza nella visione della palingenesi del genere umano, redento dal lavoro e nel lavoro» (Contributo alla critica di me stesso, cit., pp. 1150-51). «Infiammato», «preso dal sentimento di una rivelazione», per oltre due anni il giovane Croce si «caccia tutto» nello studio di Marx e della letteratura economica (i classici dell’economia politica sino ad Alfred Marshall; Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto e «la scuola austriaca») (Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900), 1937, in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, 2001, d’ora in avanti MSEM, pp. 267, 288). E, nell’arco di pochi mesi (tra ottobre e dicembre 1895) pubblica due saggi, Intorno al comunismo di Tommaso Campanella e Intorno alla storia della coltura (Kulturgeschichte), che nettamente risentono di questa nuova conoscenza.
Per due anni, tra il 1895 e il 1896, Labriola e Croce lavorano, si può dire, l’uno a fianco dell’altro per importare in Italia il pensiero di Marx, fornirne un’interpretazione corretta, contrastare la vulgata economicistica e reagire contro i «plagiator[i]» e i «discreditator[i]» (Come nacque e come morì, cit., pp. 277-78), tra i quali spiccano ai loro occhi Achille Loria, Enrico Ferri e Antonio Graziadei. Labriola chiede ripetutamente consiglio a Croce sulla forma da dare ai propri scritti e lo consulta sulle proprie «interpretazioni e rielaborazioni della dottrina» (p. 272); Croce risponde «da medico pratico», temendo la ritrosia del maestro alla scrittura, e s’impegna come «editore e commentatore», «correttore di bozze e divulgatore» (pp. 271, 277, 281) delle sue pagine. In questo contesto vede la luce il primo saggio crociano espressamente dedicato al materialismo storico, la memoria Sulla concezione materialistica della storia letta il 3 maggio 1896 all’Accademia pontaniana («Atti dell’Accademia pontaniana», 1896, 26; a partire dal 1900, in MSEM, assume il titolo Sulla forma scientifica del materialismo storico che, nel focalizzare il tema epistemologico, revoca implicitamente in dubbio la scientificità della teoria marxiana).
Le intenzioni del testo – frequentemente frainteso – sono chiare soltanto in apparenza. Risalta la critica al materialismo storico, ridotto a suggeritore di «alcuni dati nuovi» e di «osservazioni approssimative» a beneficio del lavoro storiografico (onde la raccomandazione di mutarne la denominazione nella più modesta «concezione realistica della storia», MSEM, pp. 24, 28, 34). Risalta parimenti il dissenso nei confronti di Labriola, per quella che viene considerata un’esagerazione a proposito del nesso tra materialismo storico e socialismo (che Croce sfuma, convinto dell’indipendenza del piano pratico dal piano cognitivo) e soprattutto per l’incauta definizione del materialismo storico come «nuova» (Croce scrive «ultima») «e definitiva filosofia della storia», «sfuggit[a] dalla penna» del maestro (pp. 31, 34; cfr. SFP, p. 528) e doppiamente impropria, poiché non si tratta – per Croce – né di filosofia della storia né, tanto meno, di alcunché di ultimo.
Sembrerebbe una netta presa di distanza, se non una liquidazione. Ma Croce intende tutt’altro, benché nel 1937 sosterrà di avere ritenuto sin da subito il materialismo storico «doppiamente fallace e come materialistico e come concezione del corso storico secondo un disegno predeterminato» (Come nacque e come morì, cit., p. 286). È suo proposito piuttosto, per il momento, ricondurre il materialismo storico entro il quadro epistemico definito proprio da Labriola nella prolusione del 1887. E, a tal fine, da un lato demarcarne con precisione il carattere empirico e realistico (di «somma di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico», MSEM, p. 25), dall’altro allontanarne lo spettro della filosofia della storia che, in quanto pretesa scienza o «teoria rigorosa» fondata su un’impossibile «riduzione concettuale del corso della storia» (pp. 18-19, 26), lo riprecipiterebbe nella palude della metafisica. Per questo Croce scrive che, nel parlare (impropriamente) di «filosofia della storia», Labriola si riferisce invece alle riflessioni metodologiche («sulla storia», p. 18) contenute nella dottrina marx-engelsiana. E che l’intenzione non sia liquidatoria – che qui effettivamente Croce miri a «liberare il nòcciolo sano e realistico del pensiero del Marx dai ghirigori metafisici e letterarî del suo autore» (così scriverà nella prefazione alla prima edizione, del 1900, della silloge dei propri testi ‘marxisti’, MSEM, p. 11), figli della tendenza a «civettare (kokettieren) con la terminologia hegeliana» (p. 23) – lo dimostra il lungo elenco delle «vere e fecondissime scoperte» compiute dal materialismo storico grazie a una lettura capace di descrivere il «sistema di forze» materiali e morali attive nel processo storico, e di coglierne l’interdipendenza (pp. 21, 27-28).
Insomma, si tratta di un tentativo di «difesa» e «rettificazione» del materialismo storico (Contributo alla critica di me stesso, cit., p. 1151) a partire dalle premesse poste da Labriola. Il quale del resto apprezza (trova «fondate» tutte le «osservazioni e riserve» di Croce, che ancora nel dicembre del 1896 associa a sé nella difesa del «socialismo scientifico», cfr. Labriola a Croce, 24 maggio e 24 dic. 1896, CL, 4° vol., 2004, pp. 83, 264, dopo averlo raccomandato a Georges Sorel quale possibile collaboratore di «Le devenir social»), benché di certo non condivida appieno (scorgendo «un presupposto formale, ossia un pregiudizio», alla base del rifiuto crociano di considerare il materialismo storico una scienza; Labriola a Croce, 24 maggio 1896, p. 84). Né i rapporti di affetto e fiducia tra maestro e «scolaro» si incrinano dopo quello che può ben essere considerato il primo vero urto che li contrappone, sul finire dello stesso anno 1896, quando, in una lunga nota apposta all’edizione italiana del saggio contro Loria (scritto su suggerimento di Labriola e uscito dapprima su «Le devenir social»), Croce enuncia la propria interpretazione della teoria marxiana del valore (definendo il concetto di plusvalore un «paragone ellittico» risultante dall’implicita comparazione tra la società capitalistica e una società «ipotetica e tipica» – idealtipica – nella quale «la forza-lavoro non fosse una merce») e soprattutto pone a confronto la teoria marxiana con quella della «scuola edonistica od austriaca» (Carl Menger, Friedrich von Wieser ed Eugen von Böhm-Bawerk), presentando quest’ultima come la «teoria generale del valore», pietra di paragone di ogni declinazione particolare (Le teorie storiche del prof. Loria, 1897, in MSEM, pp. 45-46).
Più dell’idea di paragone ellittico, è proprio l’avvicinarsi dell’allievo alle posizioni della «pura economia» (come Croce ama definire il marginalismo, riprendendo un’espressione allora corrente nella scuola di Losanna) ad allarmare Labriola e a indurlo ad attaccare senza mezzi termini quella che gli pare una caduta nell’«antistoricismo» e nel «platonismo» (Come nacque e come morì, cit., p. 290). Se «l’economia non è che scienza storica – anzi non è che una astrazione della storia», è assurdo pensare di elaborare una teoria generale del «giudizio economico» (Labriola a Croce, 3 genn. 1897, CL, 4° vol., pp. 274-75): «la storia dove se ne va» (25 dic. 1896, p. 266) una volta che, per amore di una malintesa «purezza», si siano sradicati i fenomeni dal loro contesto genetico? Ma anche se, a parere di Labriola, l’«inopportuna» nota sul paragone ellittico ha «compromesso il valore obiettivo» (3 genn. 1897, p. 274) del saggio contro Loria, non per questo s’indebolisce il rapporto suo con Croce, che gli è pubblicamente a fianco anche nel duro scontro seguito al coraggioso discorso su L’università e la libertà della scienza. Di Croce Labriola paventa l’inclinazione allo studio spassionato (e la coerente propensione allo studio logico-astratto che, per parte sua, Croce considera presupposto ineludibile di qualsiasi indagine rigorosa), ma ancora spera che egli possa succedergli «nella custodia e nella difesa della genuina tradizione marxistica» (Come nacque e come morì, cit., p. 286) contro gli attacchi mossi da «odiatori e critici professionali» (B. Croce, Polemica sul materialismo storico, «Rivista popolare di politica, lettere e scienze sociali», 1897, 2, p. 391). Nel frattempo un nuovo elemento è tuttavia subentrato a complicare il quadro che stiamo descrivendo: il dialogo tra Croce e Gentile, avviatosi per via epistolare il 27 giugno 1896.
Quando Gentile scrive a Croce inviandogli lo studio sulle Commedie di Antonfrancesco Grazzini, detto il Lasca elaborato in vista della licenza di secondo anno per la laurea in lettere (pubblicato l’anno successivo sugli «Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa»), al centro dei suoi interessi è già il rapporto tra filosofia e storia. Allievo dello spaventiano Donato Jaja, ne ha subito tratto una concezione della ricerca teoretica incentrata sull’idealismo tedesco e sulla linea spiritualistica del pensiero risorgimentale, considerata suo inveramento. Di qui – affermata la «circolarità» tra filosofia e storia, già dal maestro posta a garanzia dell’unità sistematica della ricerca speculativa – un progetto di ripresa della tradizione filosofica nazionale, realizzato (a partire dal Rosmini e Gioberti, 1898) secondo un’interpretazione italocentrica e manichea (tutta giocata contro l’illuminismo razionalista e sensista) della «circolazione» spaventiana.
Gentile intende recensire il volume crociano sul Concetto della storia (la recensione vedrà la luce in «Studi storici», 1897, 6, pp. 137-52) e tale proposito lo spinge a cercare il contatto. Ma il dialogo decolla intorno al materialismo storico e al socialismo, argomenti assai dibattuti, oltre che nella discussione pubblica, anche nell’università italiana. La questione, che Gentile pone in modo provocatorio chiamando direttamente in causa Labriola, concerne precisamente la teoria marxiana della storia. A Croce, del quale ha letto la memoria del 1896, scrive ripetutamente di scorgere, tra lui e Labriola, divergenze «molto importanti» e «sostanziali» riguardo al «valore di questo materialismo storico»: alla sua controversa connotazione di teoria filosofica e di filosofia della storia. Divergenze che Croce «non riconosce», il che – ne desume Gentile – autorizza il sospetto che «non abbia accolto» la posizione labrioliana «integralmente e nel suo essenziale significato» (Gentile a Croce, 13 e 17 genn. 1897, in G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni, 1° vol., 1972, d’ora in avanti GC, pp. 16, 18).
È possibile che Croce sottovaluti il proprio dissenso da Labriola e anche che Gentile non colga come, al di là della terminologia, il rigetto della «filosofia storica» come pretesa scienza delle leggi e del fine della storia in realtà li accomuni. Fatto sta che Croce appare sulla difensiva: risponde che Labriola va letto «tra le linee» e concede che i suoi libri abbondano di «espressioni ondeggianti» (Croce a Gentile, 15 genn. e 9 febbr. 1897, in B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile. 1896-1924, a cura di A. Croce, 1981, d’ora in avanti CG, pp. 4, 5); finalmente, solleva la questione ermeneutica che, a suo giudizio, determina la diversità di vedute: a differenza di quella di Gentile, «più rigorosa nell’attenersi alle parole», la sua «interpretazione tiene scarso conto della formulazione verbale», anche perché Marx ed Engels – «ed anche un po’ il nostro Labriola» – «non elaborano sufficientemente il loro pensiero» (26 ott. 1897, p. 11).
Nel frattempo Gentile ha pubblicato il suo primo saggio su Marx, intitolato senza esitazioni Una critica del materialismo storico («Studi storici», 1897, 3, pp. 379-423; poi ripreso in G. Gentile, La filosofia di Marx. Studi critici, 1899, 1962, d’ora in avanti FM). L’argomento è altrettanto netto: quella elaborata da Marx ed Engels è – come ha ben visto «il prof. Labriola» (FM, pp. 21-22) – una filosofia della storia in piena regola, che presume di conoscere la logica immanente del corso storico e su questa base formula previsioni in tutto analoghe a quelle di ogni scienza; ma è una teoria mal fondata, precisamente in conseguenza della cattiva filosofia che la informa. Il punctum dolens è, per Gentile, il maldestro «rovesciamento» del pensiero di Georg Wilhelm Friedrich Hegel di cui Marx mena vanto: uno Hegel frainteso e letto «alla maniera platonica», nel quale l’Idea è banalmente interpretata come entità trascendente (quindi contrapposta al reale, del quale costituisce invece, per Hegel, «l’essenza», pp. 54-55). Di qui la contraddizione radicale tra la «forma» della teoria (il «procedimento dialettico») e il suo «contenuto» (la storia della società e del «fatto economico», p. 36); quindi l’«assurdo» di una incongrua metafisica dell’accidentale, fondata sulla materia (l’economia), cioè sul «relativo» e sull’«empirico», chiamati a «far le parti dell’assoluto» e dell’«a priori» (p. 57). Di qui, infine, «uno de’ più sciagurati deviamenti del pensiero hegeliano» (p. 58): una costruzione inconsistente, che trascina nel proprio fallimento il movimento socialista, del quale intende essere fondamento teorico.
L’attacco riposa su due presupposti opinabili: che ogni filosofia della storia – a cominciare da quella hegeliana, che Gentile legge, seguendo Jaja, in chiave ipersoggettivistica – si ponga come costruzione a priori, e su basi deterministiche, di un nesso metastorico eterno e immutabile; che l’economia di cui è questione nel materialismo storico consista in una raccolta di fatti empirici, piuttosto che abbracciare il terreno complessivo delle dinamiche riproduttive delle formazioni sociali, indagate nella loro interazione con la sfera delle sovrastrutture complesse. Ma è innegabile l’acume del dispositivo critico, allestito, peraltro, sulla scorta di una conoscenza di Marx limitata alla Prefazione del ’59 e, quanto al resto, mediata dai saggi di Labriola e di Croce. In effetti, la Critica gentiliana scompiglia lo schema delle posizioni sin qui emerse. Come Labriola, Gentile vede nel materialismo storico una filosofia della storia (salvo intendere altrimenti i caratteri essenziali di quest’ultima); come Croce (che però ne riconosce l’utilità euristica), gli nega valore di conoscenza scientifica; infine, diversamente da entrambi, ritiene votato al fallimento il movimento socialista, in quanto privo di quelle solide basi teoriche che Labriola individua nel marxismo e Croce non considera indispensabili ai fini della prassi politica.
Per questa sua originalità lo scritto gentiliano suscita il plauso sincero di Croce. Anche Labriola valuta positivamente le «osservazioni apprezzabili» contenute nella Critica (Labriola a Croce, 17 nov. 1897, CL, 4° vol., p. 410), e si dispone a incontrare Gentile, che andrà a trovarlo a Roma alla fine di dicembre del 1897 (cfr. GC, p. 61). Ma in questo caso vi è maggior cautela, si avverte già una certa diffidenza. D’altronde sono altre le cure che assorbono Labriola, alle prese con le prime avvisaglie della «crisi del marxismo» e con la preoccupante deriva «purista» dell’amico Croce.
Il 21 novembre 1897 esce il terzo saggio crociano, Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti del marxismo («Atti dell’Accademia pontaniana», 1897, 27, pp. 1-46; MSEM, pp. 67-118). Scritto a partire dal labrioliano Discorrendo di socialismo e di filosofia (1897), del quale lo stesso Croce si era fatto editore, il testo presenta rilevanti novità sul piano teorico e interpretativo, a cominciare dallo sviluppo della tesi del paragone ellittico. La «natura propria» della critica marxiana – qui definita «canone d’interpretazione storica» – sembra ora a Croce consistere nella produzione di ‘fatti logici’ (Werner Sombart) empiricamente intuiti, di idealtipi concreti, dei quali la teoria del valore-lavoro costituisce il paradigma (MSEM, pp. 67, 88, 71). In questo quadro è riconosciuto a Labriola il merito di avere individuato la formula più precisa, identica – sottolinea Croce – a quella da lui impiegata nel saggio contro Loria e capace di riflettere la concretezza dei concetti marxiani, non mere astrazioni logiche perché dotati della «pienezza del fatto concreto» (pp. 72-73). Vi è tuttavia, negli elogi al maestro, anche del veleno, giacché Croce non manca di esplicitare ora la distinzione che già sottendeva il suo primo saggio: di contro al Labriola realistico, «antico herbartiano» consapevole dell’irriducibile particolarità dei fatti storici, ve n’è un altro gravato dal «fardello delle teorie», che si lascia tentare da «questioni ontologiche» e discorre di «tendenza al monismo» (pp. 95-96, 99). Sono sì, queste «teoretiche formulazioni», «escrescenze superficiali». Tali però da scoprire il fianco a serie obiezioni, come quelle avanzate proprio da Gentile – «critico rigoroso ed esatto» – che ha avuto buon gioco nel sorprendere tra le pieghe del discorso labrioliano le tracce di una metafisica «della peggior specie» (p. 95).
Ma ciò che più allarga il fossato tra Croce e Labriola è la nuova puntualizzazione della compatibilità tra critica marxiana ed «economia pura», argomentata riabilitando addirittura Karl Eugen Dühring. Dato il loro diverso statuto epistemico, le due posizioni, per Croce, non confliggono, anzi si integrano di necessità, come gli stessi «rimandi» di Das Kapital «ad analisi non fatte» gli paiono suggerire (p. 83). Mentre le analisi di Marx concernono «una particolare formazione economica» (quella del valore-lavoro essendo «la legge particolare dell’astratta società lavoratrice», cioè della «società economica […] solo in quanto produttrice di beni aumentabili col lavoro», pp. 69, 77, 81), la teoria marginalista è «scienza economica generale», anzi «la vera e propria scienza generale dei fatti economici», che individua e illustra le «leggi generali» e i «concetti fondamentali dell’economia», primi fra tutti la «legge generale» e il «concetto generale» del valore (pp. 69, 81-83, 86). In una battuta, il marxismo sta al marginalismo come il particolare al generale: per questo, lungi dal contrastarlo, dovrebbe riconoscervi un presupposto e un necessario complemento. Per quanto concerne Croce, lui, per parte sua, non ha dubbi: tiene
fermo alla costruzione economica dell’indirizzo edonistico, all’utilità-ofelimità, al grado terminale di utilità, e finanche alla spiegazione (economica) del profitto del capitale come nascente dal grado diverso di utilità dei beni presenti e dei beni futuri! (p. 87).
Dovendo collocare nel tempo quel passaggio «dal metodo “predatorio”» al «metodo “scientifico”» al quale Croce si riferirà nel 1947 per descrivere il mutamento di prospettiva che aveva profondamente modificato i suoi rapporti con il materialismo storico (onde non si propose più di «portar via gli oggetti pregiati e importanti» della «dottrina» per farne buon uso, avendo ormai riconosciuto Marx come «uno dei non pochi paradossali e passionali giovani improvvisatori dell’ala sinistra hegeliana», recensione a Lettere dal carcere, cit., p. 87), collocheremmo la cesura forse a quest’altezza (novembre 1897). A ogni modo, ce n’era abbastanza perché Labriola, «intellettualmente offenso» (CL, 4° vol., p. 643) da questa maniera di trattare il materialismo storico en philosophe, slegandolo dal conflitto sociale e politico, desse in escandescenze. La corrispondenza del 1898 è costellata da invettive all’indirizzo del giovane amico, bollato come «epicureo contemplante» e «fraccomodo», «letterato» «extra- e antipolitico» intento a «disput[are] solo con se stesso» (pp. 495, 497, 502-03, 541, 543). L’accusa più rovente riguarda l’irresponsabilità (Labriola scrive «spensieratezza») e l’indifferenza «agli effetti pratici e inclusivamente politici» di quanto viene scritto (pp. 501, 542, 675): possibile che Croce non si avveda delle conseguenze politiche delle proprie prese di posizione?
È forse questo il momento più drammatico del loro rapporto ventennale. E Gentile? Si direbbe impegnato ad approfondire la rottura tra il maestro e l’eterodosso discepolo, rivelatosi – scrive a Croce il 30 dicembre 1897 – «critico inesorabile» di Labriola e «gravissimo piombo a’ suoi piedi» (GC, p. 62). Croce non raccoglie, per il momento. Preferisce battere sulla carenza di precisione e coerenza dei saggi labrioliani («concetti imprecisi», consistenti in sostanza in «impressioni d’insieme») e sulla loro inadeguata «elaborazione formale» (Croce a Gentile, 4 febbr. 1898, CG, p. 16). Che è poi la critica che avanzerà direttamente all’interessato di lì a poco, nell’autunno del 1898, dopo che Labriola gli avrà mosso un nuovo attacco frontale.
La dura risposta di Labriola al saggio crociano del 1897 è consegnata nel breve “Post-scriptum à l’edition française” del Discorrendo (Socialisme et philosophie (Lettres à G. Sorel), 1899), datato 10 settembre 1898 (in SFP, pp. 780-91). Aperto da un cenno a Sorel e alle «immature e premature elucubrazioni» (p. 781) di quello che in un primo momento era parso a Labriola un valente compagno di strada, il testo passa rapidamente alla critica della memoria crociana. Critica che ruota intorno a un argomento di fondo: lo scolasticismo che la informa, il formalismo che la inficia, complice un «malefico bacillo metafisico» (p. 783). I concetti metastorici di cui, da «edonista convinto» (p. 784), Croce va in cerca sono, in quanto tali, astrazioni indeterminate, premesse di un cattivo e inconsapevole empirismo proprio come le ‘robinsonate’ dei classici. L’economia dell’«uomo superistorico e supersociale», forgiata con l’ausilio della «logichetta formale», non è che una sequela di ipostasi, di ‘quasi-enti’: «il puro possibile, che è poi, in realtà, l’impossibile» (pp. 783, 787). Insomma, va bene la critica, visto che «comprendere è superare»; ma si dà il caso che, per superare, occorra innanzi tutto «aver compreso» (p. 791): ciò che Croce non si è dato pena di fare, preferendo (così Labriola gli scrive il 15 ottobre) servirsi dell’«istrumento didattico» della logica come di un «istrumento di ricerca», della «teoria della conoscenza» (CL, 4° vol., p. 645).
Consapevole dell’asprezza dei toni, il vecchio maestro si fa scrupolo di spiegare all’amico perché abbia dovuto far chiarezza, dato l’ampliarsi della discussione che tanti già pretendono segno della «crisi del marxismo». Lo inquieta il favore con cui Sorel ed Eduard Bernstein guardano alle posizioni di Croce e soprattutto che tali posizioni «revisionistiche» vengano attribuite anche a lui, Labriola (p. 637). Del resto, passata la tempesta, i rapporti personali tra i due tornano al sereno. E Croce – che subito riprende a dar suggerimenti a Labriola sui lavori «d’indole storica» che dovrebbero, a suo giudizio, avere la precedenza sulle «questioni generali e metodiche» (Croce a Labriola, 16 nov. 1898, CL, 4° vol., p. 669) – può trarne un bilancio rassicurante, da Labriola accolto, ricordando di avere sempre «procurato di appianare» un dissenso teorico «abbastanza forte in parecchi punti» (Croce a Labriola, 19 nov. 1898, p. 678; cfr. Labriola a Croce, 20 nov. 1898, p. 679).
La replica pubblica di Croce al “Post-scriptum” labrioliano giunge poco dopo (maggio 1899), con un articolo sulla «Riforma sociale» dedicato alle Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore e polemiche intorno ad esse (in MSEM, pp. 135-50). Ma ormai il confronto su Marx con Labriola scivola verso i margini delle sue riflessioni, così come la questione dello statuto epistemico e del valore euristico del materialismo storico. Le obiezioni del vecchio maestro hanno ben poca presa, radicate come sono in uno storicismo critico che a Croce appare frutto di scarso rigore concettuale. Compiutosi l’approdo al «purismo», nei primissimi anni del Novecento prende avvio – con il superamento della prospettiva matematizzante della teoria economica in direzione di un’«Economia filosofica» capace di «comprendere» il principio e l’atto economico (Economia filosofica ed economia naturalistica, 1906, in MSEM, p. 254) – la ricerca che condurrà Croce (già nella Filosofia della pratica del 1909) al riconoscimento del valore spirituale dell’attività economica e dell’autonomia dell’utile nel quadro dei valori e delle attività umane fondamentali.
Frattanto prosegue il dialogo di Croce con Gentile, spesso riguardante Labriola. Con Gentile che lamenta la disattenzione dell’autore del Discorrendo verso la sua Critica (1° ott. 1898, GC, p. 107) e Croce che lo rassicura con il dirgli del «duro intendimento» e della «poca agilità» di Labriola «nella discussione metodica» (8 ott. 1898, CG, p. 25); con il primo che dichiara «pressoché sfatate» le «esagerazioni» e le «pretese» del «povero Labriola», compiacendosi dello scemare della stima per lui di Croce, divenuto «il suo più formidabile avversario» (Gentile a Croce, 24 nov. 1898 e 12 giugno 1899, GC, pp. 140, 182), e quest’ultimo che ribadisce di essere «sempre in ottimi termini personali» con l’antico maestro, ma si dice anche convinto che l’accordo con lui era mera apparenza (Croce a Gentile, 14 giugno 1899, CG, p. 53). Non manca neppure un breve scambio diretto tra Labriola e Gentile. Il quale, nell’inviargli il Rosmini e Gioberti e nel preannunciare un suo «secondo studio» su Marx, scrive a Labriola di vederlo «le mille miglia lontan[o] e dal Croce e dal Sorel», araldi della «bancarotta del materialismo storico» (15 nov. 1898, CL, 4° vol., p. 667). Al che Labriola replica a stretto giro di «lav[arsi] le mani» «di ciò che scrivono Sorel e Croce», letterato pasticcione e per di più voltagabbana l’uno, «un po’ spensierato» l’altro nei riguardi delle conseguenze delle proprie esternazioni (17 nov. 1898, pp. 671-72).
Il nuovo scritto di Gentile, La filosofia della praxis, è pubblicato nel libro del 1899, La filosofia di Marx, che riprende anche il primo saggio e che dedica a Croce «in segno di gratitudine» e nel convincimento dell’unanimità di giudizio «sulla filosofia da me criticata in questo volumetto» (FM, pp. 8-9). Ancora una volta il titolo è eloquente: da un lato, sottoponendo ad attento esame le Tesi su Feuerbach, delle quali offre la prima, non impeccabile traduzione italiana, si misura con la «chiave di volta» del pensiero marxiano; dall’altro, chiama direttamente in causa Labriola, l’«esatto espositore del pensiero di Marx» nella sua «forma filosofica» (pp. 72, 123), che, nel Discorrendo, aveva per l’appunto indicato nella «filosofia della praxis […] il midollo del materialismo storico» (SFP, p. 702).
Come Labriola, Gentile insiste sulla centralità della filosofia di Marx (da Croce degradata a «strascico» e a cattivo «condimento» della critica storica e della pratica politica, MSEM, p. 11) e assume la differenza tra materialismo storico e materialismo naturalistico o metafisico. Ma qui le analogie si fermano. Labriola aveva insistito sul carattere realistico di una concezione materialistica della storia e della prassi costruita sul primato della vita concreta, del lavoro e dei bisogni rispetto al pensiero, alla teoria e alla «creazione mitico-poetica»; in questo senso, aveva affermato l’immanenza del materialismo storico «alle cose su cui filosofeggia» e il nesso genetico con l’«arrovescia[mento]» della «dialettica di Hegel» (SFP, p. 702). Gentile, al contrario, leggendo Marx in termini ‘soggettivistici’ e attribuendogli la tesi dell’«assoluta equazione tra pensiero e realtà», risolve la prassi nell’attività del pensiero smaterializzandola, intendendola come prassi pensata al cospetto di una realtà «che si vien facendo per virtù del soggetto» e che altro non è se non la sua «duplicazione», un suo «incremento» (FM, p. 87; cfr. pp. 78, 102). Ciò che, vittime di un sorprendente autoinganno, né Labriola né lo stesso Marx comprendono è la natura oggettivamente metafisica (monistica) e idealistica della concezione dialettica del reale. Di qui l’incongruo investimento sulla materia, che «come tale è sempre identica a se stessa, non muta mai»: «e dove non è mutamento, non è storia» (p. 162; così si dichiara il nesso irriducibile di Gentile con il dualismo di materia e spirito che egli, paradossalmente, imputa ai suoi bersagli polemici). Di qui anche l’accostamento di Marx a Bertrando Spaventa, di cui sta curando, su incarico di Croce, gli Scritti filosofici.
Come Gentile dirà ristampando La filosofia di Marx nella terza edizione dei suoi Fondamenti della filosofia del diritto (1916, 19373), in queste ormai lontane pagine di fine secolo vivono già «i primi germi di pensieri maturati più tardi» (I fondamenti della filosofia del diritto, 1961, p. vii). Non è difficile intravedere ex post nel suo Marx e soprattutto nello Spaventa teorico di una prassi emendata dal materialismo gli iniziatori della «riforma» della dialettica hegeliana in senso dinamico-speculativo e, di là da essa, gli scopritori di un pensiero-atto identico all’essere nel proprio realizzarsi, quindi di una filosofia identica alla propria storia e alla storia tout court, che nella filosofia dichiara la propria verità. Si tratta evidentemente di approdi speculativi antitetici alle posizioni di Labriola, con il quale del resto sin d’ora Gentile non condivide che l’insistenza sulla filosoficità del materialismo storico.
Anche sul piano biografico resta ben poco da registrare in proposito. Labriola è nella commissione che, nel 1903, boccia sonoramente Gentile al concorso per la cattedra di filosofia teoretica a Palermo. La «rinascita dell’idealismo», invocata da quest’ultimo nella prolusione a un corso libero di filosofia teoretica tenuto a Napoli l’anno precedente, non è ben vista dal vecchio professore che vi legge – come scrive allo stesso Gentile – l’anacronistico auspicio di un «ritorno (ut sic!) ad Hegel» (CL, 5° vol., 2006, p. 299) e che poi, raggiunto dalle lagnanze di Gentile per l’esito del concorso, confida a Croce di considerarlo, nonché «un po’ infatuato di sé, un po’ prosuntuoso», addirittura «pazzo» (p. 340) appunto per tale fissazione. E chissà se questo episodio non contribuirà all’esclusione di Labriola dal panorama della Filosofia italiana dopo il 1850 tracciato da Gentile, tra il 1903 e il 1914, sulle pagine della «Critica» di Croce.
A ridosso della pubblicazione della gentiliana Filosofia di Marx vede la luce, nel 1900, la raccolta dei saggi ‘marxisti’ di Croce, Materialismo storico ed economia marxistica (integrata con quattro nuovi saggi a partire dalla seconda edizione del 1907, dedicata, come le successive sette, «alla memoria di Antonio Labriola che m’iniziò a questi studi») ed è una contemporaneità significativa, destinata a ripetersi a distanza di decenni, allorché Croce risponderà con la riedizione dei Saggi labrioliani (tra il 1938 e il 1939, apogeo del fascismo imperiale) a quella del libro di Gentile (1937). A quest’ultimo, nell’autunno 1898, Croce ha confidato il proposito di comporre «come in una bara» i propri scritti sul materialismo storico (CG, p. 34; MSEM, p. 174), e non si può dire che la metafora sia fuori luogo. Nel 1899 i primi entusiasmi per il materialismo storico sono ormai un pallido ricordo ed è altresì trascorsa – anche grazie all’influsso della critica gentiliana – la fase di feconda riflessione teorica su Marx, benché non sia per questo vero ciò che Croce scriverà nel 1937, sostenendo di non avere ricavato nulla dalle sue teorie, brutalmente degradate ex post a «pseudoeconomia», «pseudofilosofia», «pseudostoria» e a «catechismo rivoluzionario» responsabile della costruzione dello Stato totalitario «più pesante […] che la storia mai ricordi» (Come nacque e come morì, cit., pp. 297, 302, 305). Al contrario: dal rilievo annesso nel marxismo al terreno economico Croce desumerà il valore «spirituale» dell’agire strumentale, mentre dall’ottica polemologica dell’analisi politico-sociale trarrà alimento il suo spregiudicato realismo politico.
Nella prefazione alla prima edizione della sua raccolta (datata luglio 1899), Croce nomina gli altri due protagonisti di questa vicenda come per prenderne congedo: rivendica la propria autonomia di giudizio dal suo «sempre ottimo amico Antonio Labriola» e rimanda in chiusura al lavoro di Gentile (MSEM, pp. 10-11). Ma ci si sbaglierebbe immaginando che la storia finisca qui. Come quello con Marx, anche il rapporto con l’antico maestro (conclusosi com’era cominciato: con note affettuosamente ironiche del vecchio Labriola verso l’inclinazione tassonomica dell’amico – con i tuoi «giudizii «purissimi» sei «l’antidivenire, l’antistoria, l’antievoluzione, l’antiempirico, l’antigenesi, l’antisecolodecimonono… per eccellenza», genn. 1904, CL, 5° vol., pp. 341-42 – e verso uno «Spirito che non ha niente a che fare con la Natura» e «con la Storia», p. 344) durerà a lungo, accompagnando carsicamente la costruzione del sistema filosofico crociano per riemergere – oltre che nelle periodiche note autobiografiche, in diverse recensioni e nell’impegno editoriale (nel 1906, a due anni dalla morte di Labriola, Croce ne raccoglie e pubblica, presso Laterza, gli Scritti varii editi e inediti di filosofia e politica; quindi ripubblica tra il 1938 e il 1939 i tre saggi labrioliani sul marxismo) – in opere centrali del Croce storico (Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 1928, 2004, pp. 148-49) e storico della storiografia (Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, 1921, 19644, 2° vol., pp. 128-37; cfr. anche Note sulla letteratura italiana della seconda metà del secolo XIX, «La Critica», 1907, 5, pp. 417-21), sempre con toni riconoscenti e grati (a eccezione di taluni appunti riduttivamente critici – Labriola determinista, utopista, ortodosso, prigioniero della metafisica hegelo-marxiana – contenuti in scritti degli anni Trenta e Quaranta).
Che non sia un nesso esteriore lo prova la cura posta da Croce nell’escludere Gentile dalla relazione con Marx e con Labriola che egli intende riservare a sé per rivendicare il duplice ruolo di «scolaro» prediletto dell’autore dei Saggi e del Discorrendo e quello di superatore, cioè di liquidatore del marxismo in quanto dottrina teorica. L’esclusione di Gentile dal canone del «marxismo teorico» italiano precede l’aperto divaricarsi dei percorsi intellettuali e biografici: ha luogo già nel ricordo di Labriola che Croce pubblica all’indomani della morte del maestro (dove Gentile non è nemmeno citato) e nella prima prefazione alla propria silloge ‘marxista’ (in cui Croce menziona sì Gentile, ma attribuisce a se medesimo – oltre che, naturalmente, a Labriola – il merito esclusivo di avere svolto in Italia un confronto critico su Marx paragonabile a quello promosso in Francia da Sorel). A questo punto, che nella Storia d’Italia indichi in Labriola l’involontario iniziatore della «crisi del marxismo» e in se stesso il suo consapevole artefice, ignorando Gentile (Storia d’Italia, cit., pp. 162-63; cfr. anche la postilla Liberalismo, «La Critica», 1925, 23, pp. 125-28); e che all’indomani dell’uscita della Filosofia di Marx si risolva a ripubblicare i Saggi labrioliani unendovi una dettagliata cronaca della «nascita e morte» del marxismo teorico che pure rigorosamente tace di Gentile (cfr. B. Croce, Taccuini di lavoro 1937-1943, 1987, 2 luglio 1937, p. 28), non è che la diretta conseguenza di queste premesse. Nelle quali è limpidamente inscritta la cifra di un dialogo a tre quanto mai suggestivo e ricco di tensione.
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