La storiografia militante: critici e sostenitori
Nel 1929 Benedetto Croce, nel saggio Intorno alle presenti condizioni della storiografia in Italia, traeva una sorta di bilancio dell’efficacia della propria opera; constatava che l’esperienza della guerra, e delle rivoluzioni, aveva fatto accettare che la storiografia dovesse essere «militante»; ma, precisava, molti non avevano inteso che ciò significava «pensante», cioè «idealistico-dialettica», tale da concepire la storia come perpetua vita: arricchimento etico, e non gioco di forze. Tale limitatezza egli imputava alla sordità di molti storici nei confronti degli impulsi morali, anzi, «religiosi», o al loro adattarsi a essere supporto, inutile, del potere politico. Riconosceva, d’altro canto, che sulla strada da lui aperta si erano messi valorosi studiosi: faceva i nomi di Guido De Ruggiero, di Adolfo Omodeo (i quali avevano preso, nella «Critica», il posto prima occupato da Gentile) e di Antonio Anzilotti (1885-1924).
Accanto a questi, merita di essere ricordato Nino Cortese (Perugia 1886-Napoli 1972), che riconobbe pubblicamente di dovere a Croce gli orientamenti della sua ricerca; nel 1926, in un saggio apparso sulla «Rivista storica italiana», Cortese aveva dato piena adesione sia alla metodologia crociana sia all’applicazione che di essa era stata fatta nella Storia del Regno di Napoli; condusse, su solide basi documentarie, studi sul Mezzogiorno, dal Cinquecento all’Ottocento; accanto alle monografie su Lo studio di Napoli nell’età spagnola (1924), ci sono i saggi, redatti tra il 1920 e il 1942, raccolti nel volume Il Mezzogiorno ed il Risorgimento italiano (1965); curò edizioni di opere di Vincenzo Cuoco e di Pietro Colletta; di particolare impegno il suo lavoro di editore degli scritti di Francesco De Sanctis, 15 volumi, dal 1930 al 1941, opera che fu interrotta dalla guerra.
Sino appunto alla guerra le critiche, talvolta aggressive, rivolte ai volumi storici di Croce non ne avevano limitato la fortuna; la Storia d’Italia ebbe otto edizioni dal 1928 al 1943, la Storia d’Europa cinque edizioni dal 1932 al 1942; correva la battuta che non si poteva non dirsi crociani. Le cose mutarono rapidamente dalla fine degli anni Quaranta, con l’emergere di tendenze culturali alimentate da quelle istanze di un radicale mutamento della società italiana che erano state elaborate sia durante la guerra partigiana sia nei movimenti e nei partiti di massa dei primi anni del dopoguerra. Dopo una breve fase nella quale parve che la concezione della storia come opera di minoranze colte potesse venir applicata alle élites rivoluzionarie (a coltivare questa posizione erano molti militanti del Partito d’azione), ad assumere un atteggiamento vivacemente critico fu la storiografia di ispirazione marxista, orientata dalla pubblicazione, che si aveva proprio in quegli anni, dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci: essa rifiutava la prospettiva etico-politica, insisteva sul conflitto delle classi, criticava risolutamente l’immagine che, della storia d’Italia, Croce aveva dato. Un altro tipo di critiche, le quali investivano più la teoria che l’opera storiografica, venivano dall’area che si disse neoilluminista: Croce era accusato di aver respinto in blocco la sociologia, sbarrando così la strada allo sviluppo, in Italia, delle scienze sociali; e di aver avuto, inoltre, una fondamentale indifferenza per le forme istituzionali, con il risultato di fare della libertà una nozione metafisica.
A rivendicare, contro queste critiche, la permanente validità dell’insegnamento crociano, fu Vittorio De Caprariis (Napoli 1924-Roma 1964), che fu anche, per alcuni anni, vicedirettore dell’Istituto italiano per gli studi storici. Dopo un libro su Francesco Guicciardini. Dalla politica alla storia (1950), nel quale, staccandosi dalla famosa immagine desanctisiana del Guicciardini, che talvolta lo stesso Croce aveva ripreso, spiegava come attraverso una serie di delusioni politiche il suo personaggio avesse trovato la passione per scrivere la sua Storia d’Italia, de Caprariis pubblicò nel 1959 la sua opera maggiore, Propaganda e pensiero politico in Francia durante le guerre di religione. In essa si intrecciano vari filoni, tra i quali notevole è l’attenzione per gli sforzi di fondare la libertà di coscienza su basi istituzionali, giuridicamente valide, che fossero in grado di togliere alla «politica» il suo aspetto «demoniaco». Al di là dell’espressione, che non era certo crociana, de Caprariis vedeva in questi sforzi l’inizio della politica moderna – pur continuando, sulle orme di Croce, a respingere l’idea di un «diritto naturale». Dai francesi del Cinquecento passò ai costituzionalisti americani e a Tocqueville. Nella sua assai intensa attività pubblicistica propose una lettura ‘democratica’ del liberalismo crociano, con particolare attenzione alle istituzioni (non soltanto parlamento e governo, ma anche i partiti, che voleva regolati da norme più precise di quanto stabilito dall’articolo 49 della Costituzione). Alla sua sensibilità politica non sfuggì che, alla fine degli anni Cinquanta, la prima crisi dei partiti stava innescando una crisi istituzionale; e, quasi a continuare l’opera di Croce, si era accinto, alla vigilia della morte, a una storia d’Italia a partire dalla Prima guerra mondiale.