La seconda rivoluzione scientifica: scienze biologiche e medicina. Lo sviluppo della farmacologia
Lo sviluppo della farmacologia
All'inizio del XX sec. medici e chirurghi avevano a disposizione pochi farmaci, quali morfina ed eroina per alleviare il dolore, aspirina per le infiammazioni e la febbre, chinino per la malaria e qualche sale minerale per le affezioni gastrointestinali. Molti di questi farmaci venivano già prescritti dagli speziali cinquecenteschi come Paracelso, al quale sono generalmente attribuite l'introduzione e la diffusione del laudano. Invero erano stati fatti ben pochi progressi rispetto ai tempi dei Romani.
All'inizio del XXI sec., per contro, la situazione non potrebbe essere più diversa dal momento che migliaia di farmaci sono oggi disponibili sul mercato. Alla loro scoperta si è arrivati secondo varie modalità: casualmente, grazie ai programmi di screening biologico, e sempre più spesso, man mano che si approfondisce la comprensione del funzionamento corporeo normale e patologico, mediante progettazione razionale. In realtà le nuove metodologie e il ritmo accelerato di scoperta hanno caratterizzato soltanto i settant'anni compresi tra la comparsa dei sulfamidici nel 1933 e le terapie geniche dei giorni nostri. Gli sviluppi fondamentali possono essere classificati in sei aree: (a) l'evoluzione degli antibiotici; (b) l'avvento degli steroidi; (c) la scoperta dei farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale; (d) la progettazione dei farmaci, resa possibile dalla comprensione sempre maggiore del funzionamento dei recettori; (e) gli inibitori enzimatici; (f) i farmaci che interagiscono con le vie di segnalazione cellulare o con la trascrizione del DNA o la traduzione dell'RNA.
La dimostrazione da parte di Louis Pasteur (1822-1895) e di Robert Koch (1843-1910) dell'ubiquità dei microorganismi e del loro ruolo nelle infezioni portò all'utilizzazione generalizzata, nella pratica chirurgica, dell'acido fenico (o fenolo) come antisettico. Dopo aver scoperto che alcuni coloranti azoici erano efficaci per il trattamento di specifiche tripanosomiasi, Paul Ehrlich (1854-1915) si dedicò allo studio di una serie di composti arsenicali. Da tali ricerche derivò il Salvarsan, che si dimostrò un'efficace terapia contro la sifilide causata dalla spirocheta Treponema pallidum.
Tuttavia, l'era degli antibiotici avrebbe avuto inizio soltanto nel 1940, anno in cui la scoperta della penicillina, effettuata nel 1928 da Alexander Fleming (1881-1955), fu tramutata in realtà clinica dal lavoro di Ernst Boris Chain e Howard Florey. Questi importanti sviluppi si verificarono dopo l'identificazione, intorno al 1935, dei primi antibiotici della famiglia dei sulfamidici a opera di Gerhard Domagk (1895-1964), che aveva anch'egli studiato le proprietà biologiche dei coloranti azoici. A partire dal 1945 furono introdotte migliaia di penicilline e antibiotici β-lattamici appartenenti a diverse classi: penami (le penicilline maggiori, come l'amoxicillina, l'ampicillina e la meticillina), cefemi (cefalexina, cefaclor) e monobattami; penemi e carbapenemi (tienamicina). Il rapido aumento della resistenza dei batteri a questi farmaci rese tuttavia necessaria l'invenzione di composti ancor più complessi e di medicinali caratterizzati da nuovi meccanismi d'azione antibiotica. L'acido clavulanico (usato insieme all'amoxicillina) rappresenta un buon esempio di questo tipo di farmaci, poiché è privo di attività antibiotica ma inibisce le β-lattamasi batteriche, enzimi che distruggono le penicilline e le cefalosporine.
Le scoperte di Fleming furono alla base di una serie di programmi di screening che 'setacciarono' il mondo alla ricerca di microorganismi dell'aria e del terreno dotati di proprietà biologiche utili. Quasi tutti gli agenti antibiotici moderni sono stati scoperti in questo modo: le tetracicline, la streptomicina e la rifampicina (usate per la cura della tubercolosi), l'eritromicina, altri macrolidi come la claritromicina e l'azitromicina, e infine la vancomicina e la teicoplanina (gli antibiotici utilizzati come extrema ratio per le infezioni potenzialmente letali causate da ceppi batterici multiresistenti). In maniera analoga sono stati scoperti anche altri agenti non antibiotici, come le antracicline antitumorali (doxorubicina e daunorubicina), la griseofulvina (con azione fungistatica) e le avermectine utilizzate come farmaci antiparassitari (ivermectina).
Intorno alla metà degli anni Sessanta del Novecento nacque una fra le principali classi di antibiotici completamente sintetici: i fluorochinoloni, come la ciprofloxacina e la norfloxacina. Essi possiedono un meccanismo d'azione unico, basato sull'inibizione della DNA-girasi. Questo enzima conduce alla compattazione del DNA (avvolgimento in senso opposto a quello elicoidale) indispensabile per l'attivazione cromosomica al fine della duplicazione.
Nonostante i grandi progressi che sono stati fatti dal 1945 in poi e la gran quantità di antibiotici realizzati, i batteri continuano a sviluppare meccanismi di resistenza nuovi e sempre più potenti, con una velocità superiore a quella della messa a punto di nuovi medicinali.
Sebbene il colesterolo ‒ il precursore di tutti gli steroidi dei mammiferi ‒ fosse stato isolato in forma pura già nel XIX sec., la sua struttura chimica fu chiarita soltanto nel 1933 con la cristallografia a raggi X. Nel 1929 Edward Doisy (1893-1986) e, indipendentemente, Adolf Butenandt (1903-1995) ottennero il primo estrogeno in forma cristallina a partire da urina di cavalla gravida. L'estrone, come venne chiamato in seguito, fu ben presto seguito dall'estradiolo, anch'esso isolato da Doisy che ne estrasse 12 mg da 4 t di ovaie di scrofa. L'ormone maschile androsterone venne isolato nel 1934 da Butenandt ‒ 15 mg da 25.000 litri di urina maschile ‒ e il testosterone fu ottenuto nel 1935 da Ernst Laqueur che lo ricavò da una tonnellata circa di testicoli di toro.
La comprensione della struttura chimica di questi steroidi permise ai chimici di preparare sia gli ormoni naturali sia i loro analoghi strutturali. Storicamente, le strutture più semplici dotate di attività estrogenica sono rappresentate dagli stilbeni, il cui composto progenitore è lo stilbestrolo (dietilstilbestrolo negli Stati Uniti). Nel 1938 si scoprì che la sua azione era due o tre volte più potente di quella dell'estradiolo, e fu il primo farmaco usato nei casi di carenza estrogenica, per esempio in donne in menopausa, benché in seguito, come antagonista degli ormoni maschili, sia stato impiegato per curare il cancro della prostata. Nel corso degli anni sono stati preparati molti altri farmaci analoghi, tra i quali il clomifene, che stimola l'ovulazione ed è utilizzato nel trattamento dell'infertilità. In questa classe, il composto di maggior successo è senza dubbio il tamoxifene (sviluppato dall'azienda britannica Imperial Chemical Industries, ICI, nel 1964), che svolge un'azione antiestrogenica ed è diventato un vero e proprio pilastro della terapia a lungo termine delle pazienti affette da cancro della mammella. Il farmaco si lega ai recettori estrogenici del citoplasma cellulare, bloccando in tal modo l'accesso agli estrogeni e impedendo l'attivazione di vari geni all'interno del nucleo: è questa una strategia di controllo efficace, dal momento che la crescita e la differenziazione delle cellule del carcinoma mammario dipendono dagli estrogeni.
L'altro ormone femminile, il progesterone, fu isolato nel 1934 nel corpo luteo di scrofa e si mostrò efficace nel prevenire gli aborti spontanei e nel mantenere in stato di gravidanza le pazienti inclini a tali episodi. Il progesterone era tuttavia relativamente difficile da sintetizzare e doveva essere somministrato in dosi elevate, in relazione a ciò molti sforzi furono effettuati per la preparazione di una serie di composti analoghi. L'etisterone risultò essere il più potente, ma causava virilizzazione, mentre l'etinilestradiolo, dotato di attività estrogenica, è tuttora impiegato, in combinazione con il progestinico medroxiprogesterone acetato, per alleviare i sintomi della menopausa. Un'importante ricerca condotta da Gregory G. Pincus (1903-1967) sui progestinici, nei primi anni Cinquanta, rivelò che i composti privi del gruppo metilico C19 (una caratteristica strutturale specifica degli estrogeni) possedevano attività contraccettiva. I successivi tentativi di sintesi da parte di Carl Djerassi e George Rosenkrantz, che lavoravano alla Syntex, produssero due agenti molto potenti chiamati norprogesterone e noretisterone (noretindrone). La farmaceutica Searle mise a punto un progestinico norderivato simile, il noretinodrel, che nel 1956 divenne oggetto di una sperimentazione clinica su larga scala condotta a Puerto Rico. Il medicinale fu somministrato insieme all'estrogeno sintetico mestranolo per quattro anni a 1600 donne, riuscendo a impedire la gravidanza in quasi il 100 % dei casi. Tale risultato persuase la FDA (Food and Drug Administration) statunitense ad approvare il farmaco nel 1960: di lì a poco avrebbe avuto inizio la 'rivoluzione sessuale'. In seguito furono scoperti altri progestinici più potenti, tra cui il megestrolo acetato, il clormadinone acetato, il norgestrel e il desogestrel. Oggi, la tipica pillola contraccettiva a basso dosaggio contiene 50-100 microgrammi di estrogeno e 2-10 microgrammi di progestina.
Gli steroidi surrenalici erano stati isolati in miscela grezza già negli anni Trenta, ma soltanto nel 1948 Lewis H. Sarett (1917-1999) riuscì a sintetizzare 5 g di cortisone puro. In quello stesso anno Philip Hensch, utilizzandone una parte, riuscì a ottenere una notevole remissione dei sintomi in un paziente affetto da una grave forma di artrite, e ciò evidenziò come fosse necessario trovare un modo per procurarsi maggiori quantità di quella sostanza così promettente. La sintesi dello steroide naturale e dei suoi analoghi fu notevolmente facilitata dalla scoperta di Russell E. Marker, il quale riuscì a convertire la diosgenina estratta dalle radici di Dioscorea mexicana in progesterone, che a sua volta poteva essere trasformato in cortisone e analoghi. In seguito fu utilizzata allo stesso scopo l'ecogenina ottenuta dall'agave (Agave sisalana). Contemporaneamente si arrivò a scoprire che gli analoghi prednisone e prednisolone potevano essere prodotti per biotrasformazione del cortisone mediante Corynebacterium simplex. Tali analoghi combinavano un'utile azione antinfiammatoria con una minore tendenza a causare ritenzione idrica e sodica, vale a dire la cosiddetta attività mineralcorticoide, espletata dal cortisone, e quella glucocorticoide (antinfiammatoria) clinicamente benefica. La maggior parte degli analoghi descritti è stata progettata più recentemente per ritardare il metabolismo del prednisolone (che è esso stesso un prodotto metabolico del prednisone), o per ridurre ulteriormente l'attività mineralcorticoide. Farmaci come il triamcinolone, che può essere assunto anche oralmente, e il triamcinolone acetonide sono dotati di eccellenti proprietà di assorbimento percutaneo. Ulteriori tentativi di ostacolare il metabolismo hanno prodotto il desametasone, il betametasone e il betametasone valerato, nonché altri potenti farmaci inalabili come il beclometasone dipropionato e il fluticasone propionato, impiegati per ridurre l'infiammazione che induce gli attacchi asmatici.
Dal punto di vista commerciale, l'importanza dei farmaci antinfiammatori steroidei scompare di fronte a quella degli antinfiammatori non-steroidei (FANS). Gli antichi Egizi, circa 3500 anni fa, usavano come preparati antinfiammatori estratti di radice di salice, il cui principio attivo, la salicina, è il progenitore dell'acido acetilsalicilico (aspirina), strutturalmente simile e introdotto dalla Bayer nel 1899. L'acetanilide (1886) e la fenacetina (1887) avevano effetti antipiretici superiori a quelli dell'aspirina, ma a partire dalla metà degli anni Settanta del Novecento il timore dei danni renali associati all'impiego della fenacetina indusse diversi paesi a limitarne l'uso. La terapia d'elezione per abbassare la temperatura, specialmente in età pediatrica, è rappresentata dal paracetamolo (acetaminofene), che fu introdotto nel 1953, benché l'uso eccessivo possa danneggiare il fegato. Fu più difficile reperire un antinfiammatorio che potesse sostituire l'aspirina nel trattamento dell'artrite reumatoide, e non si trovò nulla di veramente efficace fino agli anni Sessanta, quando comparvero l'acido mefenamico, l'acido flufenamico e il diclofenac, tutti introdotti dalla Parke-Davis e ovviamente analoghi strutturali dell'aspirina. Un programma di screening degli acidi indolacetici condotto negli anni Sessanta rivelò l'importanza di altri due farmaci: l'indometacina e il sulindac.
Più o meno nello stesso periodo, i ricercatori di molte case farmaceutiche esaminarono centinaia di acidi aril-propionici, basandosi sull'assunto che queste due caratteristiche strutturali fossero essenziali per un'attività antinfiammatoria. Da queste ricerche derivarono l'ibuprofene, il naprossene, il fenoprofene, il ketoprofene, il flurbiprofene e il benoxaprofene, che fu ritirato quando si scoprì che poteva provocare fenomeni di fotosensibilizzazione in soggetti anziani. Tra i medicinali che si sono aggiunti più di recente a questa stessa famiglia possiamo citare il diflunisal e il piroxicam.
È interessante notare come tali farmaci (esclusi i più recenti) siano stati introdotti prima che John R. Vane, nel 1970, facesse la fondamentale scoperta che l'aspirina (così come tutti questi FANS) esercita i suoi effetti principalmente mediante l'inibizione dell'attività dell'enzima cicloossigenasi, che catalizza la conversione dell'acido arachidonico in prostaglandine primarie. Le ricerche di Vane fornirono una spiegazione dell'associazione, nota da lungo tempo, tra l'uso prolungato di aspirina e vari disturbi a livello dello stomaco, ulcera compresa, poiché molte prostaglandine sono coinvolte nel controllo dell'acidità gastrica.
Sappiamo con certezza che i Sumeri usavano l'oppio (soprattutto la morfina) più di 6000 anni orsono, e che gli estratti di mandragora (atropina e iosciamina) erano usati per alleviare il dolore (nonché come veleno) già all'epoca di Cristo. Gli Aztechi apprezzavano le proprietà allucinogene dello ololuiqui (derivati dell'acido lisergico), mentre altre culture sudamericane preferivano il peyotl o peyote dell'omonimo cactus (composti anfetaminici). Tuttavia il primo studio serio concernente una sostanza attiva sul sistema nervoso centrale fu condotto nel 1884 da Carl Koller (1857-1944), collaboratore di Sigmund Freud. Egli dimostrò le proprietà anestetiche locali della cocaina sulla cornea, e in breve tempo l'uso della sostanza si diffuse dall'oftalmologia alla chirurgia delle orecchie, del naso e della gola. Dopo che nel 1898 ne fu determinata la struttura chimica da Richard Martin Willstätter (1872-1942) ‒ che fece altrettanto con l'atropina ‒, venne introdotta una gamma di analoghi strutturali tra cui la benzocaina e la procaina. Più recentemente, questi farmaci sono stati largamente sostituiti da tipi strutturali del tutto differenti, basati sulla gramina, un alcaloide di origine vegetale; tra questi, la mepivacaina e la bupivacaina ‒ una sostanza utilizzata comunemente per l'anestesia epidurale ‒ e la lidocaina. Il meccanismo d'azione di questi farmaci è stato chiarito solamente alla fine degli anni Ottanta, quando si è scoperto che essi interagiscono con uno o più siti del canale del sodio che attraversa la membrana neuronale, bloccando il trasporto degli ioni in risposta alla stimolazione nervosa. Un effetto simile è stato dimostrato per la tubocurarina, un bloccante neuromuscolare isolato per la prima volta nel 1935 da Harold King a partire dal curaro, il veleno da freccia sudamericano. Questa sostanza si lega ai recettori per l'acetilcolina che si trovano nelle giunzioni neuromuscolari e in tal modo impedisce l'apertura dei canali ionici, che in condizioni normali permetterebbe il movimento degli ioni sodio e potassio attraverso la membrana della cellula nervosa. Dalla sintesi di analoghi dotati di strutture più semplici ‒ il decametonio e il suxametonio, che sono più simili all'acetilcolina ‒ si è infine giunti agli analoghi steroidei più complessi chiamati pancuronio, atracurio e vecuronio. Gli ultimi due rappresentano oggi i farmaci d'elezione per bloccare la trasmissione neuromuscolare durante gli interventi chirurgici, grazie alla rapidità d'azione, alla mancanza di effetti collaterali e al fatto che i loro effetti sono rapidamente reversibili dopo la cessazione della somministrazione.
Un altro gruppo di farmaci la cui evoluzione ha preso il via dalla medicina popolare è quello dei tranquillanti. Negli anni Trenta numerosi studi furono dedicati in India alla pianta Rauwolfia serpentina, che aveva una lunga storia di uso popolare in Asia. Fu così dimostrato che gli estratti di questa pianta erano in grado non soltanto di ridurre la pressione sanguigna ma anche di produrre un effetto sedativo che induceva nel paziente uno stato di rilassamento ma non di sonnolenza; si scoprì infine che il principio attivo era costituito dalla reserpina, e la Ciba nel 1953 la mise in commercio usando il termine 'tranquillante' per descriverne gli effetti.
La popolarità di questo primo tranquillante fu ben presto oscurata dai composti completamente sintetici noti come fenotiazine, tra i quali la clorpromazina, scoperta dalla Rhône-Poulenc nell'ambito di un progetto di ricerca relativo agli antistaminici. La clorpromazina fu immessa sul mercato nel 1952 e divenne rapidamente il farmaco d'elezione per il trattamento dei pazienti agitati o psicotici, schizofrenici compresi. Una sua caratteristica precipua era la capacità di tenere sotto controllo i movimenti dei pazienti, e per descrivere questo tipo di attività fu introdotto il termine 'neurolettico'. L'unica altra importante classe di tranquillanti è derivata da ricerche finalizzate alla produzione di alternative più sicure rispetto agli analoghi degli oppiacei, petidina e metadone. Il più attivo risultò essere l'aloperidolo, che era 50 volte più potente della clorpromazina e presentava effetti collaterali di minore entità.
La struttura triciclica della clorpromazina costituì la base delle ricerche condotte dalla Hoffmann-LaRoche verso la metà degli anni Cinquanta, che portarono alla scoperta delle benzodiazepine. Da questi studi sono derivati due tra i farmaci di maggiore successo della categoria, il clordiazepossido e il diazepam, commercializzati, rispettivamente, con i nomi di Librium e di Valium. Insieme a circa altri 25 analoghi tuttora in uso clinico, essi hanno rivoluzionato il trattamento dell'ansia cronica, inducendo inoltre vari gradi di sedazione. Sono relativamente privi di effetti collaterali, ma è stato dimostrato che tendono a indurre dipendenza e dunque oggi vengono prescritti meno. Sono stati in larga parte sostituiti dalla fluoxetina (il celebre Prozac), un antidepressivo che viene accettato molto volentieri dai pazienti.
Anche l'imipramina e i suoi molti analoghi strutturali sono il risultato dei tentativi effettuati per migliorare l'attività della clorpromazina. Si tratta di potenti antidepressivi che trovano largo impiego nel trattamento della schizofrenia e di altre condizioni psichiatriche gravi. Tutti questi derivati della clorpromazina hanno una caratteristica comune: sono stati messi in commercio senza che si avesse alcuna vera conoscenza dei loro meccanismi e dei loro siti d'azione. Oggi sappiamo che agiscono soprattutto come antagonisti di determinati neurotrasmettitori: la clorpromazina blocca i recettori della dopammina, l'imipramina impedisce la ricaptazione della noradrenalina da parte dei recettori adrenergici, potenziandone in tal modo l'attività, e le benzodiazepine favoriscono il legame del neurotrasmettitore inibitorio GABA, incrementando le correnti ioniche da esso indotte.
Le prime teorie sui recettori e sugli agonisti/antagonisti risalgono, alla fine del XIX sec., alle intuizioni originali di Ehrlich e di altri, ma i primi esperimenti finalizzati a individuarli furono condotti da Raymond P. Ahlquist nel 1948. Egli dimostrò che le ammine adrenalina, noradrenalina e isoprenalina (tutte agoniste del sistema nervoso simpatico e note nel loro insieme con il nome di catecolammine) esercitavano effetti diversi a seconda dell'area del sistema nervoso sulla quale agivano. Concluse che esistevano due tipi di recettori ‒ alfa e beta ‒ e che la stimolazione del primo produceva di solito una risposta di contrazione mentre quella del secondo era associata al rilassamento. Una generalizzazione abbastanza veritiera, con l'eccezione dei beta-recettori del muscolo cardiaco, la cui stimolazione produce un aumento della frequenza cardiaca e della forza di contrazione (effetto inotropo positivo). In termini generali, la noradrenalina stimola principalmente gli alfa-recettori, mentre l'adrenalina agisce sui recettori di entrambi i tipi e l'isoprenalina ha unicamente un'attività beta-agonista. Studi successivi hanno mostrato che esistono diversi sottotipi di recettori alfa beta.
Ciò non era ancora noto nel 1959, quando James Black intraprese presso i laboratori dell'ICI le ricerche sui beta-bloccanti. Egli ipotizzò che il blocco della stimolazione nervosa simpatica dei recettori del muscolo cardiaco avrebbe ridotto la richiesta di ossigeno da parte del cuore e dunque il dolore associato all'angina, una condizione in cui il restringimento delle arterie coronarie causa una riduzione dell'apporto di sangue al muscolo cardiaco. Da queste ricerche sono derivati farmaci come il propranololo, il timololo e il sotalolo.
Negli anni successivi lo studio delle relazioni struttura-attività ha rivelato che i beta-bloccanti migliori erano quelli dotati di un'azione antagonista specifica sui beta-recettori cardiaci (chiamati in seguito beta-1) e pressoché privi di effetto su quelli vascolari, in particolare bronchiali (poi denominati beta-2). I primi beta-bloccanti, come il propranololo, esercitavano un'azione antagonista sui beta-recettori di entrambi i tipi, mentre i farmaci più recenti, come il metoprololo e l'atenololo, sono beta-1 selettivi. Queste sostanze hanno rivoluzionato il trattamento dell'angina e dell'ipertensione.
La selettività inversa fu giudicata utile per il trattamento dell'asma. In questo caso l'attivazione dei recettori beta-2 della muscolatura liscia dei bronchi avrebbe dovuto causare broncodilatazione, contrastando in tal modo il broncospasmo indotto dalla crisi asmatica. Tale malattia rappresenta un problema sempre più importante per i paesi industrializzati, in cui addirittura il 10 % della popolazione si trova, a un certo punto della vita, ad affrontarla. Sebbene consista perlopiù di periodi di fiato corto e respiro sibilante, il relativo tasso di mortalità non è trascurabile. Già nella Cina antica gli effetti di broncocostrizione dell'asma venivano contrastati mediante estratti di Ephedra sinica, ma il più importante principio attivo di questa pianta fu isolato e caratterizzato soltanto negli anni Venti. L'efedrina si dimostrò un potente broncodilatatore, ma esercitava anche un'efficace azione stimolante sul muscolo cardiaco, e ciò rappresentava naturalmente un effetto collaterale indesiderabile. Tenendo presente la classificazione dei recettori adrenergici operata da Ahlquist, si cominciò a cercare un agonista specifico dei beta-recettori. L'isoprenalina era anch'essa un efficace broncodilatatore, ma la sua struttura era ancora più simile a quella dell'adrenalina e dunque presentava notevoli effetti collaterali cardiovascolari. Negli anni Sessanta, la ricerca si indirizzò verso un agonista beta-2 selettivo e mediante questa perspicace progettazione farmacologica si arrivò in seguito al soterenolo e soprattutto al salbutamolo, broncodilatatore efficace quanto l'isoprenalina ma duemila volte meno potente di questa come cardiostimolante. Questo farmaco rappresenta ancora oggi il broncodilatatore d'elezione per la terapia dell'asma.
Oggi sappiamo che entrambi i tipi di beta-recettori sono costituiti da proteine transmembrana che generalmente comprendono sette segmenti polipeptidici alfa-elicoidali che interagiscono con le proteine G sulla superficie interna della membrana. Queste controllano a loro volta la produzione del messaggero intracellulare adenosin monofosfato ciclico (cAMP). Gli agonisti come il salbutamolo stimolano la produzione di cAMP, mentre i beta-bloccanti la inibiscono.
Contemporaneamente a queste scoperte, Black e C. Robin Ganellin, insieme ad altri colleghi della Smithkline & French, stavano esaminando anche la possibilità di bloccare i recettori per l'istamina a livello gastrointestinale. Ci si accorse nuovamente del fatto che esistevano due classi principali di recettori, gli H1 del tessuto vascolare e bronchiale e gli H2 presenti soprattutto nello stomaco. Tuttavia, quando nel 1964 cominciò la ricerca, si sapeva soltanto che le antistamine classiche non avevano effetto sui recettori per l'istamina che erano situati nello stomaco. Black e Ganellin crearono una procedura sperimentale che consisteva nella misurazione della secrezione di acido gastrico indotta dall'istamina in ratti anestetizzati, quindi sintetizzarono ed esaminarono una serie di composti strutturalmente simili all'istamina. Il loro primo antagonista H2 selettivo fu la burimamide, che però non era sufficientemente attiva per via orale, e per arrivare a produrre la cimetidina fu necessaria un'attenta razionalizzazione delle relazioni struttura-attività. Questo composto combinava un'efficace selettività per i recettori H2 con una buona biodisponibilità orale, e fu pertanto introdotto nell'uso clinico nel Regno Unito (1976), negli Stati Uniti (1977) e due anni dopo negli altri paesi, divenendo ben presto il più diffuso medicinale di prescrizione. Il primato gli fu poi portato via dalla ranitidina della Glaxo, che era due volte più potente, e oggi vi sono altre sostanze simili, come la famotidina e la nizatidina, che competono quali migliori farmaci antiulcera.
Tuttavia, la scoperta dell'importante ruolo dell'infezione da Helicobacter pylori nell'eziologia dell'ulcera peptica ha comportato l'introduzione di terapie combinate che prevedono l'associazione di antibiotico, sali di bismuto (un altro trattamento radicato nella medicina popolare) e H2-antagonisti.
L'utilizzazione dell'oppio per il trattamento del dolore intenso era di sicuro praticata in Mesopotamia e in Assiria fin dal 5000 a.C., e i principî attivi, la morfina e la codeina, furono isolati in forma pura all'inizio del XIX secolo. Il derivato sintetico chiamato eroina fu introdotto per la prima volta nel 1899, e dopo la Prima guerra mondiale diverse case farmaceutiche avviarono progetti di ricerca finalizzati a modificare ulteriormente la struttura chimica dei prodotti naturali, nonché a inventarne analoghi completamente sintetici. Lo scopo dichiarato di questi studi era quello di produrre farmaci che fossero dotati di una potente attività analgesica ma che non inducessero dipendenza. Tra le sostanze più importanti che ne derivarono figurano la petidina (usata soprattutto in ostetricia), il metadone (impiegato per il trattamento della tossicodipendenza), la ciclazocina (il primo antagonista degli oppiacei che possedeva anche una potente attività analgesica, ma causava malessere), la pentazocina (un buon analgesico con un potenziale d'abuso limitato) e il naloxone (l'antagonista degli oppiacei più sicuro).
A partire dalla metà del Novecento furono sviluppate le prime teorie sul funzionamento del recettore per gli oppiacei e si cominciò a pensare che esso fosse dotato di un sito lipofilo, un sito anionico e una superficie piana su cui fosse posizionato l'anello aromatico. L'importanza del sito lipofilo fu ribadita dalla scoperta dei ligandi endogeni naturali dei recettori oppioidi, le encefaline, effettuata da John Hughes e Hans Kosterlitz nel 1975. La sintesi di molti analoghi di questi pentapeptidi naturali e degli oppiacei dimostrò l'esistenza di almeno tre sottoclassi di recettori oppioidi, i mu, i delta e i kappa. La maggior parte degli oppiacei in uso clinico agisce sui recettori mu, che rappresentano anche il principale sito d'azione della morfina. I recettori kappa sono responsabili degli effetti psichedelici degli oppiacei, mentre i recettori delta costituiscono i siti di legame delle encefaline.
Sebbene nessuna encefalina sintetica sia entrata nell'uso clinico, oggi la progettazione è più sofisticata e ha prodotto numerosi altri analoghi degli oppiacei. Tra questi, di particolare interesse è la buprenorfina, che combina un elevato potere analgesico (circa 50 volte superiore a quello della morfina) con una quasi inesistente tendenza a indurre dipendenza.
L'isolamento e la caratterizzazione degli ormoni peptidici insulina (1926), ossitocina e vasopressina (1953) diede una notevole spinta alla ricerca sui peptidi e ai tentativi di progettare antagonisti basandosi sulla comprensione dei loro rapporti strutturali tridimensionali con gli ormoni. Lo sviluppo di quest'area di ricerca e di quella a essa correlata relativa alla struttura enzimatica, in particolare al rapporto tra enzima e substrato, è stato enormemente facilitato dai progressi compiuti dalle tecniche di cristallografia a raggi X e dai programmi informatici di modelling strutturale. Ciò ha determinato una vera e propria esplosione dell'interesse per la progettazione razionale di farmaci finalizzati all'inibizione dell'attività di enzimi specifici. Questi studi si sono basati soprattutto sull'idea che un composto chimico avrà una maggiore probabilità di essere attivo se imiterà la struttura dello stato di transizione del substrato naturale.
In questo campo sono stati ottenuti molti importanti successi, e uno dei primi è stata la progettazione degli inibitori dell'enzima di conversione dell'angiotensina (ACE-inibitori). Tale enzima catalizza la conversione dell'angiotensina I, inattiva, in angiotensina II, dal potente effetto pressorio, ed è dunque implicato da vicino nel controllo della pressione sanguigna. Gli antiipertensivi captopril e enalapril, che hanno avuto un grande successo, sono analoghi del substrato di questo enzima. Il loro sviluppo ha fatto seguito alla scoperta, compiuta verso la fine degli anni Sessanta del Novecento dal gruppo di Vane e di Sérgio Ferreira, che il veleno di una vipera brasiliana (Bothrops jararaca) previene la distruzione della bradichinina, un potente vasodilatatore. I veleni polipeptidici di questa famiglia inibiscono l'enzima chininasi II, che successivamente, nel 1977, Ervin G. Erdös mostrò essere identico all'ACE. La sperimentazione in vitro rivelò che il principio attivo più potente del veleno era un pentapeptide, e un'elegante analisi strutturale mostrò che questo si legava a uno ione zinco del sito attivo dell'enzima. Il captopril fu progettato per imitare questo legame e rappresenta uno dei primi esempi della progettazione razionale di un inibitore enzimatico.
Un successo molto più recente e di grande importanza è stato quello relativo agli inibitori delle proteasi dell'HIV, come il saquinavir e il ritonavir. Questi composti mimano lo stato di transizione dei substrati normali della proteasi. Si tratta di un'aspartilproteasi omodimerica a simmetria C2, e l'analisi strutturale ai raggi X di questo enzima cocristallizzato con i farmaci è stata di notevole utilità per la predizione delle strutture richieste alle sostanze candidate. La proteasi processa le proteine virali appena prodotte, tagliandole fino a farle diventare della giusta misura prima di essere incorporate nel capside dell'HIV. Tali farmaci sono utilizzati in combinazione con sostanze come l'AZT (zidovudina), il d4T (stavudina) e il ddC (zalcitabina) che inibiscono un altro enzima virale, la trascrittasi inversa. Questa catalizza la sintesi di DNA virale a partire dallo stampo genetico dell'RNA, e gli inibitori vengono incorporati nella catena di DNA in allungamento poiché somigliano ai nucleotidi naturali che la compongono. Tuttavia, essi causano la terminazione prematura della catena, cosicché il virus non può più riprodursi. Questi farmaci rappresentano dunque un esempio di una seconda classe di inibitori enzimatici, composti che sono simili al substrato naturale e che in qualche maniera interferiscono con i processi chimici catalizzati dall'enzima.
Storicamente, il primo esempio di uso clinico di questo tipo di molecola è stato quello degli inibitori dell'acetilcolinesterasi. L'acetilcolina è uno dei principali neurotrasmettitori del sistema nervoso centrale, e una sua carenza è almeno in parte responsabile dei sintomi di diverse condizioni patologiche, tra le quali la miastenia grave e la malattia di Alzheimer. Già nel 1932 era stata introdotta la fisostigmina, estratta dalla fava del Calabar (Physostigma venenosum), una pianta africana, per alleviare i sintomi della miastenia grave, mentre l'uperzina A, isolata dal muschio cinese Huperzia serrata, è oggi in fase avanzata di studio clinico come farmaco in grado di rallentare la perdita di memoria associata alla malattia di Alzheimer. Entrambe le sostanze producono un incremento dei livelli di acetilcolina nel cervello dei pazienti. Un'utilizzazione più insidiosa degli inibitori dell'acetilcolinesterasi è quella dei gas nervini come il sarin, ma essi hanno anche una notevole importanza commerciale sotto forma di insetticidi fosforati e carbammati.
Altri inibitori enzimatici agiscono semplicemente come substrati competitivi per gli enzimi che inibiscono, e la classe più importante di farmaci di questo tipo è quella delle statine. I prodotti naturali compactina (o mevastatina) e mevinolina (o lovastatina) sono stati isolati da alcune particolari specie di funghi verso la metà degli anni Settanta; essi hanno mostrato un'attività inibitoria dell'enzima idrossimetilglutaril-CoA-reduttasi, che catalizza lo stadio più lento del ciclo biosintetico che porta prima all'acido mevalonico e poi al colesterolo. Di conseguenza tali farmaci sono in grado di ridurre drasticamente il livello plasmatico di colesterolo associato a lipoproteine a bassa densità, che rappresenta una delle prime cause di aterosclerosi e dunque di patologie coronariche. Questi due primi farmaci erano non selettivi, e inibivano la sintesi del colesterolo al di fuori del fegato. Altri analoghi più recenti, come la pravastatina, la simvastatina e l'atorvastatina sono molto più selettivi, e sono oggi tra i farmaci più venduti al mondo.
Sempre negli anni Settanta si scoprì che molti derivati imidazolici e triazolici avevano un'attività antifungina ad ampio spettro: ciò portò all'introduzione dei composti miconazolo, econazolo e isoconazolo. All'epoca il loro meccanismo d'azione non era conosciuto, ma più recentemente le ricerche condotte sul ketoconazolo e sul fluconazolo (entrambi della Pfizer) hanno dimostrato che essi inibiscono l'attività della lanosterolo C-14 demetilasi, un enzima chiave della conversione del lanosterolo nello steroide ergosterolo, il principale costituente della membrana lipidica fungina. Questo enzima appartiene alla famiglia delle cosiddette citocromo P-450 ossidasi, la cui azione consiste nel catalizzare l'introduzione degli atomi di ossigeno e le conseguenti reazioni ossidative del metabolismo degli steroidi. Un altro membro di tale famiglia è costituito dall'aromatasi, ed è a questo tipo di attività che gli inibitori dell'aromatasi come il formestano e l'aminoglutetimide devono la propria utilità nel trattamento del carcinoma mammario estrogeno-dipendente.
La maggior parte dei farmaci di questa categoria è utilizzata nella chemioterapia del cancro ed è entrata nell'uso clinico prima ancora che se ne conoscessero i meccanismi d'azione. In seguito all'introduzione delle mostarde azotate dopo la Seconda guerra mondiale si ebbero i primi farmaci che interagivano chimicamente con il DNA, creando legami covalenti e alterando la replicazione. Si trattava però di sostanze dotate di citotossicità generica più che di una specifica attività antitumorale, sebbene farmaci come il clorambucil, il melfalan e soprattutto la ciclofosfamide mostrino una selettività sufficiente a renderli efficaci agenti antitumorali. La scoperta quasi casuale del cisplatino da parte di Barnett Rosenberg e la sua utilizzazione clinica verso la metà degli anni Settanta hanno rivoluzionato il trattamento di alcuni tipi di cancro, come il teratoma testicolare. In seguito, sono stati prodotti altri analoghi dotati di minore nefrotossicità, come il carboplatino: il loro meccanismo d'azione è oggi ben conosciuto grazie agli studi di cristallografia a raggi X dei loro addotti covalenti con il DNA.
Gli antimetaboliti come il metotrexato, la 6-mercaptopurina, la citarabina e il 5-fluorouracile sono stati utilizzati come analoghi strutturali dei substrati enzimatici prima ancora che fosse stato scoperto il meccanismo d'azione degli enzimi, e hanno avuto un impatto particolarmente significativo su alcuni tipi di tumore come la leucemia. Dalle centinaia di analoghi nucleosidici che sono stati preparati derivano i farmaci antivirali come la ribavarina, l'AZT e l'aciclovir per le infezioni da herpes. Forse il contributo più importante è stato quello dei prodotti naturali come la vinblastina e la vincristina, le bleomicine, le antracicline, la camptotecina, la podofillina, e più recentemente il paclitaxel. Questi farmaci possiedono una varietà di meccanismi d'azione, tra cui l'interazione con la doppia elica del DNA mediante intercalazione, il danneggiamento del DNA tramite la formazione di radicali dell'ossigeno e l'interazione con i fusi mitotici (inibizione della polimerizzazione/depolimerizzazione della proteina tubulina). Nonostante questi meccanismi d'azione siano generalmente ben conosciuti, i dettagli più particolareggiati delle loro interazioni a livello molecolare non si conoscono ancora in maniera completa.
Recentemente sono stati identificati nuovi bersagli, tra cui la telomerasi, un enzima che preserva l'integrità delle estremità della doppia elica. Esso è presente nella quasi totalità delle cellule tumorali ma assente dalle cellule sane, e i suoi inibitori potrebbero dunque valersi di una considerevole selettività. Inoltre sono in corso di valutazione numerosi composti (per es., la fumagillina e i suoi analoghi) che potrebbero fungere da inibitori dell'angiogenesi, ossia il processo mediante il quale vengono prodotti nuovi vasi sanguigni in risposta alla crescita attiva delle cellule tumorali e alla formazione di metastasi.
L'intero campo della chemioterapia tumorale si è rivelato terreno fertile per lo sviluppo di nuove terapie basate sulla comprensione dei meccanismi di segnalazione cellulare e dei loro rapporti con la trascrizione dei geni e la replicazione del DNA. Oggi sappiamo che la maggior parte dei fattori di crescita e delle altre sostanze chimiche che interagiscono con i recettori di superficie delle cellule attivano una cascata di vie di segnalazione intracellulare mediate da chinasi. Il risultato è la produzione di fattori di trascrizione che attivano i geni preposti alla crescita, alla differenziazione o alla proliferazione all'interno del nucleo. Nel cancro le cellule aberranti sono di solito attivate permanentemente, e recentemente è stato ottenuto qualche successo con l'inibizione selettiva delle chinasi. Il glivec, per esempio, è altamente selettivo per la tirosinchinasi BCR-ABL, che è attiva nelle cellule affette da leucemia mieloide cronica (CML); un'altra chinasi, quella del recettore per l'EGF (epidermal growth factor, fattore di crescita dell'epidermide) presente nei tessuti affetti da tumore polmonare a piccole cellule, è inibita dal gefitinib e dall'erlotinib. Questi medicinali sono molto costosi.
Anche gli immunosoppressori come la ciclosporina e l'FK506 (tacrolimus) interagiscono con le vie di segnalazione cellulare. In questo caso inibiscono una specifica fosfatasi (calcineurina) che normalmente attiva il fattore di trascrizione NFAT (nuclear factor of activated T cells, fattore nucleare dei linfociti T attivati). Poiché NFAT attiva normalmente il gene responsabile della produzione dell'interleuchina-2, che media la risposta immunitaria delle cellule T, questi farmaci riducono in modo drastico l'intensità della risposta immunitaria. Essi hanno infatti rivoluzionato il trattamento preventivo degli episodi di rigetto in caso di trapianto d'organo o di midollo osseo.
Questi ultimi esempi mostrano come la progettazione dei farmaci si stia muovendo nella direzione dell'invenzione di nuove sostanze che agiscano a livello genetico, inibendo l'attivazione o la trascrizione dei geni. Si tratta di un'area di ricerca che sarà certamente tra le più importanti del nuovo secolo.