La Rivoluzione scientifica: luoghi e forme della conoscenza. Curiosita e studio della natura
Curiosità e studio della natura
All'inizio dell'Età moderna, i termini 'curiosità' e 'curioso' erano riferiti l'uno a un atteggiamento nei confronti della ricerca (la curiosità), nonché a un certo tipo di oggetti (le curiosità), l'altro a una particolare categoria di studiosi (i curiosi). Durante la Rivoluzione scientifica questi tre aspetti della curiosità ebbero un ruolo profondamente innovativo negli studi naturali. Se la curiosità, intesa come atteggiamento personale, indicava la passione per la ricerca, le curiosità erano invece oggetti singolari che meritavano uno studio specifico, mentre i curiosi erano coloro che si dedicavano alle ricerche naturali al di fuori delle istituzioni tradizionali e, in particolare, delle università. La curiosità, durante il XVI e il XVII sec., acquisì un diverso statuto morale e scientifico; la sua rivalutazione sul piano morale incanalò gli interessi e le attività intellettuali in nuove direzioni, spostando l'attenzione di curiosi e scienziati dalla conservazione del vecchio sapere alla ricerca di nuove conoscenze nella filosofia della Natura e nella storia naturale. Come oggetti di indagine, le curiosità si distinguevano nettamente dagli oggetti studiati dai filosofi della Natura scolastici. Nella loro raccolta e nel loro studio si privilegiavano le caratteristiche inedite, esotiche, rare, singolari e, a volte, straordinarie, contrariamente alla massima aristotelica secondo cui la scienza doveva occuparsi di "ciò che accade sempre o nella maggior parte dei casi". Inoltre, le curiosità non potevano quasi mai essere spiegate nei termini delle quattro qualità percettibili (il caldo, il secco, il freddo e l'umido) della Scolastica e inducevano i ricercatori a ipotizzare l'esistenza di forze occulte (vale a dire 'nascoste') e di meccanismi invisibili non accessibili ai nudi sensi. I curiosi, nel XVI e nel XVII sec., costituivano una categoria sociale e intellettuale decisamente più eterogenea rispetto a quella dei filosofi della Natura delle epoche precedenti, che operavano quasi sempre all'interno delle università e dei monasteri. A differenza di questi, infatti, i curiosi non erano soltanto professori universitari e membri degli ordini religiosi (soprattutto domenicani e gesuiti), ma anche medici, farmacisti, cortigiani, umanisti, aristocratici, giuristi, ingegneri, mercanti, marinai, accademici, artigiani e includevano anche donne provenienti da ambienti diversi. Molti curiosi furono in contatto fra loro, attraverso reti epistolari che facilitavano lo scambio di informazioni e materiali, e si raggrupparono intorno a nuove istituzioni quali i musaei, i thesauri, le Wunderkammern, i cabinets, i circoli, pubblici e privati, e le accademie scientifiche.
La curiosità finì per privilegiare lo studio di oggetti nuovi, rari e insoliti, utilizzando metodi di ricerca che non coincidevano più con quelli della filosofia della Natura aristotelica. Le ricerche dei curiosi erano condotte prevalentemente attraverso l'attenta analisi dei particolari, spesso ricorrendo all'ausilio di nuovi strumenti, come il microscopio e il cannocchiale, a differenza di quelle di filosofia della Natura e di storia naturale aristoteliche fondate, rispettivamente, sui procedimenti deduttivi sillogistici e sulle generalizzazioni induttive applicate a diverse categorie di oggetti e fenomeni.
La passione per la ricerca e gli oggetti curiosi (le curiosità) contribuirono a creare forme di organizzazione più collettive e aperte, anche se non necessariamente egualitarie. Al contrario del raziocinio e della contemplazione individuali, forme tipiche della vita intellettuale medievale, il compito di raccogliere informazioni sulle caratteristiche empiriche di oggetti, sia locali sia esotici, richiedeva, a causa della sua vastità, la partecipazione di un gran numero di persone. Nel corso di questo periodo si discusse anche dell'opportunità di organizzare la comunità dei curiosi in una comunità di eguali o piuttosto in forma gerarchica sotto una guida centralizzata.
Quasi tutti i difensori della scienza 'curiosa' ritenevano che le conoscenze libresche, erudite e astratte, dovessero essere perfezionate dalle capacità di osservazione e dalle abilità manuali, necessarie a un'accurata indagine e manipolazione degli oggetti naturali. Questa convinzione favorì, a sua volta, l'apertura verso le attività di ricerca degli artigiani e di altri professionisti come, per esempio, i farmacisti e i pescatori. Anche se nel presente saggio analizzeremo separatamente questi tre aspetti della curiosità, non bisogna dimenticare che si tratta di sfaccettature di un unico fenomeno ricco di implicazioni psicologiche, materiali, metodologiche, epistemologiche e sociali, emerso nel campo dello studio della Natura durante la prima Età moderna.
Un vasto corpus di testi greci e romani, completato e rafforzato dalle opere dei più importanti autori cristiani attivi tra i primi secoli della storia della Chiesa e la metà del XVII sec., condannava la curiosità, un'inclinazione considerata, nella migliore delle ipotesi, vana e frivola, a volte persino viziosa ed empia. Oltre alla fatale curiosità cui avevano ceduto Pandora nella mitologia greca ed Eva nella Bibbia, era menzionata la malevola curiosità di coloro che si intromettevano negli affari dei loro vicini e la pericolosa curiosità di quanti si dilettavano di negromanzia, entrambe considerate espressioni di un illecito desiderio di conoscere segreti. Negli scritti di Plutarco e di Seneca i termini impiegati per designare la curiosità (periegeia in greco e curiositas in latino) sono quasi sempre usati in senso spregiativo, anche in riferimento alla curiosità scientifica e, in effetti, entrambi gli autori insistono sulla futilità di questa inclinazione. Nel contesto della tradizione cristiana, Agostino di Ippona aveva valutato a fondo questi temi, stigmatizzando la curiosità come "concupiscenza degli occhi" (Le confessioni, X, 35). Agostino allude qui agli occhi della mente, le cui tentazioni considera più pericolose di quelle esercitate dagli occhi del corpo. Questi ultimi ‒ strumenti del desiderio di luce e di bellezza ‒ si fissano infatti su ciò che è veramente piacevole, mentre gli appetiti degli occhi della mente vanno indiscriminatamente in cerca di tutto ciò che è nuovo, fissandosi anche su oggetti tutt'altro che piacevoli, come, per esempio, l'orribile vista di un cadavere fatto a pezzi o le mostruosità esibite negli spettacoli teatrali. Secondo Agostino, coloro che "scrutano i segreti della natura, la cui conoscenza è perfettamente inutile" (ibidem), per non parlare di quelli che si dedicano alle arti magiche, sono schiavi di un desiderio di fare esperienza fine a sé stesso. La curiosità è certamente vana e non conduce a nulla e, in alcuni casi, può persino distogliere l'attenzione da Dio e dalla salvezza.
Agostino associa la curiosità a due peccati capitali, la lussuria e la superbia. Come forma di concupiscenza, la curiosità poteva essere accostata ad altri appetiti corporei e contrapposta alla continenza, intesa come ostacolo alla frammentazione del sé. Secondo questa visione la continenza è il sostegno dell'autocontrollo e dell'ubbidienza, mentre la curiosità, come del resto altri appetiti, mina la volontà. Stretta nella morsa della concupiscenza, del corpo o degli occhi, l'anima è resa passiva e reattiva. Proprio come la lussuria soggioga il corpo e ne annienta le energie, la curiosità compromette l'attenzione e la risoluzione. Lo stesso Agostino ammise di essere indotto quotidianamente in tentazione dalla curiosità che minacciava di distrarlo dalla preghiera con tante sciocche piccolezze, come, per esempio, la vista di un ragno o di una lucertola. Magnificare subito dopo le meraviglie della Creazione non era sufficiente a cancellare la sua colpa: egli sapeva bene, infatti, che le ragioni che lo avevano spinto ad ammirarle erano diverse. Nella sua analisi, Agostino associa la curiosità anche alla superbia e, in particolare, all'arroganza dei dotti che scrutano le opere della Natura per scoprire cose per loro prive di utilità, guidati da un vano desiderio di conoscenza che li rende arroganti e dimentichi di Dio: "I superbi non Ti trovano, neanche se la loro perspicace curiosità è riuscita a contare le stelle e l'arena, a misurare le plaghe del cielo e a seguire le vie degli astri" (ibidem, X, 34-35). Per i cristiani erano proprio queste le più dannose implicazioni della curiosità. Negli elenchi dei sette peccati capitali, compilati dai teologi medievali, la curiosità non è quasi mai menzionata, mentre la superbia appare, invece, molto spesso al primo posto: si riteneva, infatti, che questo vizio alimentasse l'ambizione e che questa, a sua volta, portasse alla ribellione e all'eresia. Spesso quindi i moralisti accusavano Satana di aver commesso alcuni peccati di curiosità, che erano parte integrante della sua ribellione al volere di Dio: Satana, infatti, non si era limitato a corrompere Eva stimolando la sua curiosità, ma era sprofondato dal cielo nella Terra a causa del suo stesso desiderio di conoscere i misteri divini. Nel XVI sec., la prima versione della leggenda di Faust ripropose il tema della dannazione come conseguenza di un'illecita curiosità.
Sarebbe difficile sopravvalutare l'influsso esercitato dalle critiche rivolte da Agostino alla curiosità all'interno della tradizione cristiana sino alla fine del Rinascimento. Le scienze occulte ‒ così definite perché si occupavano delle cause nascoste ‒ come l'astrologia, la divinazione e la magia erano condannate come espressioni particolarmente perniciose della curiosità: si riteneva, infatti, che esse potessero condurre a un pericolo spirituale ancora più minaccioso, quello dell'eresia. I filosofi morali della Scolastica si richiamavano all'esempio di Tommaso d'Aquino che aveva operato una netta distinzione tra il vizio della curiosità (curiositas), vale a dire il desiderio vano e smodato di conoscere cose di cui non aveva senso interessarsi, e la virtù dell'amore per lo studio (studiositas), presentata come una disciplinata e devota ricerca della verità. Le tracce di questa strategia dicotomica sono ancora rilevabili nell'opera di Erasmo da Rotterdam (1466/1469-1536), che contrappose curiosità devota e curiosità empia: la prima porta ad ammirare l'opera di Dio con gratitudine e meraviglia, senza cercare di indagare cause naturali sconosciute o i misteri della fede; la curiosità empia, invece, si identifica con la ricerca di conoscenze che non hanno nulla a che fare con la salvezza e con le necessità della vita di tutti i giorni e include le indiscrezioni delle persone malevole così come i tentativi di risolvere intricati enigmi teologici. Anche Michel de Montaigne (1533-1592), che pure aveva parlato della curiosità in termini decisamente più positivi, presentandola come un sano esercizio mentale anche se improduttivo per la ricerca della verità, ripropose l'analogia istituita da Agostino tra il desiderio insaziabile per la conoscenza e l'appetito sessuale, per poi sostenere come la curiosità fosse incompatibile con una condotta di vita serena. Da Tertulliano a Erasmo, i moralisti cristiani menzionarono regolarmente tra gli illeciti oggetti di questa funesta inclinazione i segreti filosofici della Natura, gli enigmi teologici di Dio, i moventi nascosti dell'azione politica dei principi e i segreti familiari dei vicini.
A partire dal XVII sec., tuttavia, la curiosità in quanto passione per la ricerca iniziò a essere profondamente rivalutata. Alcuni viaggiatori e naturalisti come André Thevet (1502-1590) e Pierre Belon (1517-1564) avevano apertamente elogiato gli esploratori che non esitavano ad abbandonare i loro paesi di origine per soddisfare la curiosità verso popolazioni e luoghi esotici; gli autori dei libri di emblemi iniziarono a impiegare le immagini di Icaro e di Prometeo per simboleggiare il coraggio e non la sconsiderata temerarietà intellettuale; nella rielaborazione in chiave drammatica della leggenda di Faust realizzata da Christopher Marlowe (1564-1593) e, più tardi, da Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), la storia del sacrificio dell'anima immortale in cambio della conoscenza era presentata in una luce eroica, anche se moralmente ancora ambivalente. Francis Bacon (1561-1626) nella Instauratio magna interpretò la storia biblica del peccato originale in modo da renderla più congeniale a coloro che intendevano esplorare i segreti della Natura. Nella sua versione, il peccato commesso da Adamo ed Eva è quello di aver ricercato la conoscenza morale e non la "pura e incorrotta" conoscenza della Natura. La ricerca delle conoscenze che Dio aveva nascosto ai mortali non doveva essere considerata empia; era come se la divina Natura si fosse divertita a praticare l'innocente e piacevole gioco dei bambini che si nascondono e nella sua gentilezza e nella sua bontà avesse permesso allo spirito umano di prendervi parte:
Non è stata certo quella scienza innocente e immacolata della natura, per la quale Adamo impose i nomi alle cose secondo le proprietà naturali, che ha dato inizio od occasione al peccato originale; ma quella ambiziosa e irriflessiva cupidigia di una scienza morale, capace di giudicare del bene e del male, che ha prodotto il distacco dell'uomo da Dio, e l'empia volontà di darsi da sé le sue leggi. Delle scienze che contemplano la natura il santo filosofo dice: "è gloria di Dio nascondere la verità nella natura, gloria di re rintracciarla"; come se Dio si dilettasse di quel gioco innocente dei fanciulli, che si nascondono per farsi scoprire, e avesse scelto, per Sua indulgenza e benevolenza, l'anima umana a compagna in questo gioco. (Opere filosofiche, I, pp. 227-228)
Nei dialoghi De l'éducation des dames pour la conduite de l'esprit dans les sciences et dans les moeurs (1679), il filosofo cartesiano François Poullain de la Barre giunse ad affermare che il desiderio di appropriarsi di tutte le conoscenze (anche di quelle della magia nera, purché nella pratica non se ne abusasse) non era meno lecito di quello di disporre di tutto ciò che fosse necessario alla salute del corpo.
Uno dei più abili sostenitori della rivalutazione della curiosità fu il filosofo inglese Thomas Hobbes. Nel Leviathan (1651), Hobbes sostiene che gli uomini si distinguono dagli animali non tanto in virtù della ragione quanto della curiosità e che le delizie di questa passione, in quanto inesauribili, superano di gran lunga i piaceri carnali. La curiosità spinge gli esseri umani a esplorare le cause e gli effetti dei fenomeni nel campo della filosofia naturale e morale e, in ultima analisi, proprio dalla curiosità deriva il linguaggio. Nella sua descrizione della 'eccellenza' della curiosità, quest'ultima non è più inserita nella categoria dei vizi ma in quella delle virtù e cambia di posto all'interno della costellazione delle passioni. Hobbes colloca ancora la curiosità tra i desideri, contrapponendola, tuttavia, agli appetiti corporei come, per esempio, la lussuria, la fame e la sete. Nella psicologia di Hobbes il 'desiderio' è una nozione fondamentale e pressoché onnicomprensiva poiché esso guida i movimenti della mente e del corpo, i loro appetiti e le loro avversioni. Senza questa incessante tensione, la vita si arresterebbe. Per Hobbes quindi la felicità risiede nel desiderare e non nel soddisfare i propri desideri. In questa meccanica del pensiero e dell'emozione, la curiosità non è semplicemente uno dei tanti desideri, ma l'archetipo stesso del desiderio, poiché è l'inclinazione più vicina al puro desiderio, il perpetuum mobile dell'anima. Secondo Hobbes, al contrario dei desideri del corpo, la curiosità è caratterizzata "dalla persistenza del piacere nella continua e infaticabile produzione della Conoscenza, [che] supera la breve veemenza di qualsiasi piacere carnale" (ed. Pacchi, p. 46). A differenza della lussuria, la curiosità non ha limiti. È per questo che gli autori dell'inizio dell'Età moderna finirono per accostarla alle passioni acquisitive dell'avidità e dell'avarizia.
Il nesso tra l'avidità e la curiosità, due passioni insaziabili, trasformò la dinamica del desiderio di conoscenza: l'inclinazione passiva che portava alla frammentazione del sé descritta da Agostino cedette il passo a un'attività in grado di disciplinarsi e di coordinare nell'azione di ricerca tutte le facoltà. Hobbes non fu l'unico pensatore del XVII sec. a mettere in luce le analogie esistenti tra la curiosità e l'inestinguibile avarizia dello spilorcio. Anche il frate minimo Marin Mersenne, il quale nei suoi scritti aveva affrontato diverse questioni matematiche e di filosofia naturale e che era al centro di una vasta rete epistolare che includeva Hobbes e Descartes, ricorse alle analogie del movimento e dell'insaziabilità per descrivere la curiosità nelle Questions théologiques, physiques, morales et mathématiques (1634). Secondo Mersenne vi è più piacere nell'andare in cerca di un oggetto, sia esso il denaro o la conoscenza, che nel godimento di beni già acquisiti; di conseguenza "desideriamo sempre andare al di là, in modo che le verità acquisite sono per noi soltanto mezzi per giungere al conseguimento di altre verità: è per questo che non ne abbiamo maggior considerazione di quanta ne abbia un avaro per i tesori che ha nei suoi forzieri" (ed. Pessel, p. 302). Anche coloro che disapprovavano il culto della curiosità, come per esempio Descartes, riconoscevano in essa una passione inestinguibile, pronta ad accrescersi sempre di più; la curiosità del primo periodo dell'Età moderna non si arrestava di fronte a nessuna singola esperienza per quanto perfetta potesse sembrare. Mentre la curiosità agostiniana vaga da un oggetto all'altro, ma in forma di distrazione, capace di disturbare la concentrazione nella preghiera o nella contemplazione, la curiosità di Hobbes, invece, richiede una intensa attenzione, soprattutto per quanto riguarda l'esplorazione degli inafferrabili fenomeni naturali. Benché non sia meno ossessiva della lussuria, l'avidità mobilita con inesorabile efficienza i mezzi necessari al conseguimento dei suoi scopi e richiede un notevole autocontrollo. In verità, alcuni moralisti del XVII sec. rimasero così colpiti dal potere dell'avidità e di altri sentimenti nel rafforzare l'autodisciplina che finirono con il credere che taluni interessi freddi e calcolatori fossero in grado di mitigare le passioni più selvagge come, per esempio, la lussuria, l'ambizione e l'ira.
Alla fine del XVII sec., la curiosità iniziò a essere considerata più una virtù che un vizio. In quanto tendeva alla ricerca e all'attività, essa era considerata più vicina all'avidità e all'avarizia che alla lussuria e alla superbia. L'accumulo di oggetti curiosi fu spesso descritto come una forma di 'consumismo' analoga a quelle suscitate dai prodotti di lusso che furono oggetto di lunghe discussioni di carattere economico-morale nel periodo compreso tra la fine del XVII e l'inizio del XVIII secolo. Il tema dell'insaziabilità finì per occupare una posizione di primo piano in queste analisi. La natura smodata del mercato degli oggetti di lusso sgomentava quanti paventavano il verificarsi di fenomeni di corruzione e di decadenza e allettava coloro che auspicavano una crescita economica illimitata. Inoltre, sia la curiosità sia il mercato dei prodotti di lusso erano alimentati dalle novità, dal momento che i lussi dell'oggi ‒ scarpe, tè, pane bianco ‒ sarebbero divenuti le necessità del futuro, così come le conoscenze del momento sarebbero state ben presto superate a causa dell'inarrestabile curiosità.
La nuova dinamica dell'insaziabilità e il vecchio legame tra curiosità e segreti di ogni genere influirono sulle concezioni legate allo studio del mondo naturale. In primo luogo, l'epistemologia delle cause nascoste iniziò ad affiancare, e poi a sostituire, la filosofia naturale aristotelica che si basava su quanto poteva essere percepito dai nudi sensi. Tra tali cause nascoste figuravano non soltanto le antipatie e le simpatie, gli influssi celesti, le forme sostanziali e la forza dell'immaginazione ‒ le cause 'occulte' ripetutamente invocate dagli astrologi, dai maghi e dai medici del Rinascimento per spiegare qualsiasi tipo di fenomeno, dall'attrazione e repulsione magnetica, alle pietre figurate e all'azione dei veleni ‒ ma anche gli 'schematismi latenti' di Bacon, i meccanismi microscopici di Descartes e le forze eteree di Newton, cause che non potevano essere osservate a occhio nudo o erano invisibili. La filosofia naturale guidata dalla curiosità finì davvero per assomigliare a una partita a rimpiattino giocata con Dio: i naturalisti del XVII sec. giunsero a presumere che le spiegazioni dei fenomeni visibili andassero ricercate nel regno dell'invisibile, un'ipotesi, quantomeno in quel momento, rafforzata dall'uso delle lenti d'ingrandimento e dei microscopi, che rivelavano l'esistenza di un mondo costituito da strutture e da organismi piccolissimi fino ad allora rimasto sconosciuto.
In secondo luogo, al contrario della fluttuante attenzione della curiosità agostiniana, la ferma attenzione che caratterizzava la curiosità hobbesiana favorì un'attenta e impegnativa esplorazione dei particolari empirici. Le opere dedicate da Aristotele alla Natura abbondavano di accurate osservazioni di un'ampia gamma di particolari, dalla duttilità del rame ai denti dei cavalli. Si riteneva, tuttavia, che questi particolari contenessero in sé principî universali che dovevano servire da base alla conoscenza dimostrativa. In quattro secoli di storia, la filosofia scolastica della Natura aveva espresso diverse concezioni del ruolo svolto dai particolari empirici, ma l'opinione di Tommaso d'Aquino, il quale riteneva che le discipline incentrate sui particolari, come la medicina, l'alchimia e l'etica, fossero difficilmente conciliabili con l'ideale aristotelico della certezza dimostrativa, era di gran lunga la più diffusa. Di conseguenza, i filosofi medievali della Natura, pur analizzando una serie di raccolte di esempi (molti dei quali ereditati da Aristotele e da altre fonti antiche), nella maggior parte dei casi non avvertirono la necessità di condurre nuove indagini che verificassero o arricchissero questo patrimonio di particolari naturali. La storia dell'accrescimento registrato dalla raccolta di particolari naturali nel corso del XVI sec. è troppo complessa per poter essere presa in esame in questa sede; ci limiteremo, quindi, a segnalare la crescente importanza assunta in questo periodo da alcune discipline, come, per esempio, la medicina e la storia naturale. Nel suo programma di riforma della filosofia naturale formulato nell'Instauratio magna (1620), Bacon sottolineò più volte l'impellente necessità di approfondire la conoscenza dei particolari naturali da un lato, e l'estrema difficoltà di raccoglierli e interpretarli dall'altro. Bacon riteneva che l'intelletto umano abbandonato a sé stesso si sarebbe ben presto stancato della scrupolosa esplorazione dei particolari e avrebbe finito per operare prematuramente delle generalizzazioni. La curiosità, se ben guidata, poteva offrire una soluzione a questo problema, dal momento che spingeva l'attenzione a concentrarsi sui più piccoli particolari dell'oggetto in esame e quindi ostacolava ciò che Bacon considerava un'inclinazione fin troppo umana, quella a passare troppo velocemente all'astrazione.
In terzo luogo, la dinamica dell'insaziabilità creò un'analoga ricerca di novità nel campo della filosofia della Natura e della storia naturale. A differenza dell'amore per lo studio che tendeva a insistere sulle stesse fonti (spesso costituite dai libri canonici) per generazioni e generazioni, dando luogo a interpretazioni e commenti, la curiosità aveva bisogno di oggetti sempre diversi. Durante il primo periodo dell'Età moderna, nei circoli intellettuali si ricorreva ancora al termine 'novatore' più per insultare che per elogiare un autore. Le novità erano associate alla decadenza e al disordine più che alle scoperte e al progresso. Di conseguenza, l'importanza attribuita alle novità nel campo della storia naturale e della filosofia della Natura era, a sua volta, una novità. Il desiderio di novità traspare chiaramente dalle pagine delle prime riviste scientifiche pubblicate nel corso della seconda metà del XVII sec., spesso sotto gli auspici delle accademie: le "Philosophical Transactions of the Royal Society of London", le "Histoire et Mémoires de l'Académie des Sciences", il "Journal des Sçavans" e gli "Acta Eruditorum". Queste riviste contenevano un gran numero di articoli in cui erano descritti fatti nuovi, rari e insoliti, come, per esempio, "Resoconto di una nascita mostruosa […] nel Sussex", "Novità dell'inizio dell'anno: la cometa", "Su un nuovo barometro", titoli che facevano immancabilmente leva sul verificarsi di fenomeni strani, sorprendenti e soprattutto nuovi. Talvolta la novità era legata alla rarità, come nel caso dell'albero di un giardino fiorentino che produceva sia limoni sia arance, talaltra un oggetto era considerato nuovo perché esotico, come si osserva, per esempio, nelle relazioni inviate dalle Barbados o dal Giappone ‒ e persino da "alcune remote e poco visitate regioni europee" quali la Boemia e la Sassonia. Erano considerate novità anche le invenzioni ‒ come le macchine in grado di copiare lettere o di cuocere ossa. I viaggi e gli scambi commerciali con l'Asia, l'Africa, il Medio Oriente e le Americhe costituirono le fonti di un gran numero di novità sia nel campo della storia naturale sia in quello dei mercati. In effetti, molte di queste novità ‒ come nel caso dei bulbi di tulipano del Levante e delle conchiglie del Mar dei Caraibi ‒ erano prodotti di lusso oppure oggetti degni di ricerche scientifiche; erano, dunque, curiosità in tutti i sensi.
La curiosità del primo periodo dell'Età moderna era vorace ma non onnivora: l'importanza accordata alle novità dimostra che le ricerche curiose di storia naturale e di filosofia della Natura sceglievano con grande scrupolosità i loro oggetti. Come abbiamo già osservato, gli oggetti 'curiosi' studiati in questo periodo non erano facilmente distinguibili dagli oggetti di lusso: 'raro', 'nuovo' e 'stravagante' erano gli aggettivi più usati per designare entrambi. Mersenne presentò le curiosità come oggetti di lusso, come cose cioè non necessarie nella vita di tutti i giorni, e sottolineò il legame esistente tra la curiosità scientifica del suo tempo e il commercio degli oggetti di lusso, paragonando la mente umana a un sovrano, a cui una schiera di operosi valletti e fornitori tenta di procurare ogni sorta di cose deliziose e splendide, proprio come i sensi rovistano nella Natura alla ricerca di "piaceri e distrazioni" che intrattengano la mente. Né il sovrano né la mente hanno veramente bisogno di queste curiosità, ma con esse la vita è più piacevole.
I "piaceri e le distrazioni" raccolti nella Natura dai sensi erano esposti in bella vista nelle collezioni, note anche col nome di cabinets des curiositez. Il contenuto di queste collezioni tendeva a rispecchiare la ricchezza e la varietà dell'arte e della Natura: coralli, congegni automatici, corni di liocorno, calici di alabastro, cartamoneta cinese, fossili, monete antiche, coccodrilli essiccati e laccati, oggetti sudamericani in piume, avori lavorati al tornio, animali ed esseri umani mostruosi e molti altri oggetti rari erano disposti lungo gli scaffali o appesi ai muri e ai soffitti dei cabinets per il diletto dei collezionisti e dei loro illustri ospiti. Tutti gli oggetti contenuti nei cabinets erano considerati curiosità, secondo almeno tre diverse accezioni del termine. Alcuni erano prodotti dell'abilità manuale o 'cura', un termine che riecheggiava il significato originario del latino curiositas. Il filosofo della Natura Robert Hooke impiega l'aggettivo 'curioso' proprio nell'accezione di 'accurato' quando descrive nella Micrographia (1665) l'aspetto di una mosca blu osservata al microscopio: "la parte posteriore del suo corpo è rivestita da un'armatura blu scintillante estremamente curiosa" (p. 184). Altri oggetti erano considerati 'curiosità' in quanto sprovvisti di qualsiasi funzione; Bernard Le Bovier de Fontenelle (1657-1757), segretario a vita dell'Académie Royale des Sciences, dovette riconoscere che al contrario dell'"utile" storia, la matematica e la fisica erano in alcune loro parti soltanto "curiose". Altri ancora suscitavano il desiderio di un esame scrupoloso di tutte le loro più strane particolarità, come testimonia un articolo delle "Philosophical Transactions" in cui si elogia un autore per "le eccellenti ricerche della sua Curiosità".
Data l'estrema diversificazione delle posizioni sociali e dei mezzi finanziari dei collezionisti all'inizio dell'Età moderna, non esisteva uniformità nelle collezioni. Vi era invece un'ampia gamma di raccolte, da quelle create a Firenze e a Praga dai Medici e dall'imperatore Rodolfo II, che abbondavano di oggetti fabbricati con metalli preziosi e di gemme lavorate dai maestri artigiani, a quelle più modeste degli studiosi, dei medici, dei farmacisti e dei mercanti che contenevano per lo più antichità e oggetti naturali. Gli interessi di coloro che lavoravano nel campo della medicina erano rivolti soprattutto agli oggetti naturali: alcune rarità, come i bezoar e la corteccia dell'albero sudamericano della china, infatti, non erano privi di utilità in campo farmaceutico. Come dimostrano i casi delle collezioni del farmacista napoletano Ferrante Imperato (1550 ca.-1654 ca.) e del professore di medicina di Copenaghen Ole Worm (1588-1654), i medici e i farmacisti erano tra i migliori collezionisti di naturalia. Anche le facoltà di medicina delle università crearono alcune delle prime collezioni accademiche, spesso nei giardini botanici, come nell'Università di Pisa, o nei teatri anatomici, come nel caso dell'Università di Leida.
Il legame esistente tra le collezioni di curiosità e le nuove sedi delle indagini empiriche non era affatto casuale. Entrambe erano espressione del consapevole sforzo, intrapreso prima nel campo della medicina e della storia naturale e poi in quello della filosofia naturale, di integrare l'erudizione libresca con un'educazione fondata sullo studio delle cose. Il bisogno di osservare direttamente gli oggetti di studio divenne improrogabile soprattutto nel campo della medicina, in parte a causa dei testi botanici degli autori antichi (per es., Dioscuride), che offrivano indicazioni piuttosto ambigue per quanto riguardava l'identificazione delle piante, incluse quelle mediterranee, ma soprattutto perché la flora dell'Europa transalpina, per non parlare di quella delle regioni da poco esplorate dell'Estremo Oriente e Occidente, non era stata descritta e le sue proprietà terapeutiche dovevano ancora essere studiate dai naturalisti europei. Prima che l'Europa fosse invasa dai nuovi naturalia, provenienti dai paesi recentemente scoperti, i medici erano stati costretti a rivolgere la loro attenzione all'aspetto, all'odore e al gusto dei semplici e a come queste caratteristiche agissero sui singoli pazienti, dal momento che non era possibile dimostrarne gli effetti a partire dai principî primi. Tuttavia, quello che sembrava uno svantaggio epistemologico dal punto di vista dei criteri cui si richiamavano i filosofi scolastici della Natura nel XVI e nel XVII sec., iniziò sempre più frequentemente a essere considerato un vantaggio, dal momento che i riformatori della filosofia naturale, seguiti in un secondo momento anche da alcune accademie scientifiche, come la Royal Society di Londra e l'Académie des Sciences di Parigi, avevano più volte sottolineato che l'affidabilità della conoscenza della Natura era legata a uno scrupoloso studio dei particolari naturali e non alla dimostrazione basata sugli assiomi. Insieme ai giardini botanici, ai laboratori e ai teatri anatomici, i cabinets erano spazi in cui la conoscenza delle cose rivaleggiava con quella delle parole.
Come oggetti, le curiosità entrarono a far parte dell''impero delle cose' nel senso commerciale dell'espressione. Nei trafficati porti di Siviglia, Venezia, Marsiglia e Amsterdam si poteva acquistare ogni sorta di articoli, dalle spezie agli uccelli del paradiso, dalle conchiglie ai nuovi rimedi, come il guaiaco, estratto dal legno di un albero sudamericano e impiegato nel trattamento della sifilide. Spesso la destinazione di questi oggetti era decisa sul momento, indipendentemente da qualsiasi distinzione astratta in categorie. I naturalia potevano fare il loro ingresso nelle botteghe dei farmacisti come merci destinate alla vendita o come curiosità da ammirare. I metodi impiegati per conservare adeguatamente i campioni medici e scientifici contenuti nelle collezioni non erano facilmente distinguibili da quelli utilizzati dai mercanti, che dovevano evitare il deterioramento delle merci immagazzinate, in modo da poterle vendere al momento opportuno. Nel XVI e nel XVII sec., i filosofi della Natura iniziarono a frequentare i mercati e a consultare gli artigiani più esperti per approfondire la conoscenza delle caratteristiche dei naturalia. Il naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1605) si recava assiduamente al mercato del pesce di Roma per imparare a distinguere i diversi tipi di pesci e i loro nomi. Le visite di Galilei all'Arsenale di Venezia non furono prive di conseguenze per le sue indagini sulla resistenza dei materiali. La voga dei tulipani che si diffuse enormemente in Olanda tra il 1636 e il 1637 dimostra che le curiosità ‒ in questo caso rappresentate da bulbi esotici importati dal Levante ‒ in alcuni casi si trasformarono in merci molto ricercate per le quali si crearono e si estinsero ingenti patrimoni. Philipp Hainhofer (1578-1647), un mercante di Amburgo che riforniva di curiosità i principi di molti paesi europei e curava l'allestimento dei sontuosi cabinets destinati a ospitarle, organizzò un lucroso commercio basato sia sulle curiosità sia sugli articoli rari e preziosi.
Le caratteristiche che rendevano 'curiosa' o interessante per la ricerca una cosa erano le stesse che la qualificavano come oggetto di lusso. Il contenuto dei cabinets era costituito da una congerie di 'curiosità', disposte in modo da intensificare ulteriormente la sensazione di varietà di quanti li visitavano. Questi oggetti, tuttavia, erano accomunati dal fatto di essere dotati di un valore economico che poteva derivare dal materiale di cui erano costituiti (catene d'oro, scrigni tempestati di gemme), dalla loro rarità (serpenti a due teste, canoe eschimesi) o dalla cura del lavoro che richiedevano (per es. un nocciolo di ciliegia scolpito che presentava undici facce o una serie di poliedri di avorio inseriti l'uno nell'altro). Tutti questi aspetti erano comunque riconducibili al puro valore di scambio, dato che anche oggetti in origine ideati per svolgere una precisa funzione (per es., le porcellane cinesi) non venivano apprezzati in virtù di tale funzione ma soltanto perché esotici. Nei cabinets, la bramosia del possesso e quella della curiosità venivano a coincidere, al punto che i moralisti del XVII sec. iniziarono a criticare i collezionisti, spesso accusati di aver portato alla rovina le loro famiglie, sperperando grandi somme per acquistare i dispendiosi ma inutili oggetti contenuti nei loro cabinets. Come l'avidità, la curiosità era un desiderio di acquisizione che non conosceva limiti.
All'inizio dell'Età moderna, tuttavia, l'affinità tra avidità e curiosità condizionò la scelta degli oggetti curiosi anche in un altro senso, meno letterale e più strettamente legato alle indagini scientifiche condotte in questo periodo. L'estetica dei cabinets, che tendeva a prediligere la rarità, la varietà e soprattutto la raffinatezza e la sottigliezza dell'abilità manuale, indicava gli oggetti degni di essere studiati e acquistati. Nella prima Età moderna, la psicologia della curiosità, oltre a privilegiare quelli che Bacon chiamava i fenomeni "nuovi, rari e inusuali", si rivolse a tutto ciò che era piccolo, intricato e soprattutto nascosto. L'ingegnosità della Natura, concepita come capacità di costruire strutture complesse e, in particolare, in miniatura, si rivelava soprattutto in alcuni oggetti, ed erano proprio questi gli oggetti che i naturalisti del Seicento preferivano studiare. Spesso la somiglianza tra un'opera d'arte curiosa e un'opera curiosa della Natura era evidente, come sottolineava il naturalista inglese John Ray, che nel trattato The wisdom of God manifested in the works of the Creation del 1691, paragonò gli insetti, "queste minuscole macchine", a "opere d'arte di straordinaria ricercatezza e sottigliezza, piccoli congegni, movimenti o curiosi oggetti in avorio lavorato al tornio o intarsiato o in metallo […] osservati con ammirazione, acquistati a caro prezzo e custoditi come singolari rarità nei musei e nei cabinets delle curiosità" (ed. 1692, pp. 158-159). La moda delle osservazioni condotte col microscopio e il forbito linguaggio con cui erano descritte derivavano in gran parte dalla curiosità per tutto ciò che era minuscolo e intricato. Inoltre, come aveva osservato Hobbes, la curiosità era alimentata dai procedimenti, mentali o visivi, di scomposizione degli oggetti in tante minuscole parti, che moltiplicavano gli oggetti in questione. La mente e gli occhi vagavano ininterrottamente da un dettaglio molto piccolo, o molto complesso, a un altro, pur seguitando a fissare lo stesso oggetto, ora esaminato in tutta la sua molteplicità. Gli oggetti ideali della curiosità erano quelli che da questo punto di vista erano più ricchi di risorse, vale a dire quelli che erano in grado di offrire una quantità inesauribile di dettagli.
Nel XVI e nel XVII sec., la curiosità era spesso accompagnata dallo stupore, un accostamento difficilmente concepibile all'interno della considerazione agostiniana di queste passioni. Agostino aveva criticato gli eruditi per la loro eccessiva curiosità e per la loro scarsa capacità di stupirsi. Resi superbi dal potere di prevedere le eclissi, gli astronomi spesso dimenticavano il timore reverenziale con cui si doveva guardare l'opera di Dio. All'inizio dell'Età moderna lo stupore servì invece da esca alla curiosità. Secondo Descartes, lo stupore era per importanza la prima delle passioni, quella che spronava la curiosità verso sempre nuove indagini, di conseguenza le persone incapaci di stupirsi erano quasi sempre ignoranti. Il filosofo francese Nicolas Malebranche (1638-1715) condivideva questa posizione; a suo parere, infatti, lo stupore che stimolava "una ragionevole curiosità" era un efficace antidoto per la noia e un forte incentivo per una coscienziosa esplorazione dei particolari. In un articolo del 1672, Newton spiegò come fosse giunto alla decisione di intraprendere i suoi esperimenti sulla scomposizione della luce bianca attraverso l'uso del prisma. In un primo momento lo studioso era rimasto incantato dalla bellezza del gioco dei colori, poi aveva notato con stupore che lo spettro era oblungo e non rotondo e infine aveva ceduto "alla curiosità più che ordinaria" di esplorare più a fondo questa meravigliosa anomalia. Lo stupore e la curiosità erano strettamente connessi tra loro: l'uno accendeva l'altra e viceversa, tanto che Hooke esortò i naturalisti a studiare gli oggetti comuni e ordinari fingendo di credere di trovarsi in presenza di oggetti "estremamente rari", in modo da far intervenire la curiosità necessaria a una scrupolosa osservazione dei più minuti particolari.
All'inizio dell'Età moderna, quindi, tra gli oggetti privilegiati dalla curiosità dei naturalisti figuravano meraviglie di tutti i tipi. Nel Novum organum (1620), Bacon mise in luce la necessità di procedere alla compilazione di una storia naturale tripartita che sarebbe servita da base alla nuova filosofia della Natura: la Natura che opera regolarmente, cioè la storia naturale dei fenomeni ordinari; la Natura che devia dal suo corso, cioè la storia naturale delle pretergenerazioni o meraviglie; la Natura lavorata dall'uomo, cioè la storia naturale delle arti meccaniche. Secondo Bacon, la storia naturale delle meraviglie avrebbe svolto una duplice funzione. Poteva essere utilizzata per correggere gli assiomi della filosofia naturale che erano ricavati esclusivamente dai fenomeni ordinari e avrebbe aperto la strada all'introduzione di una serie di innovazioni nel campo delle arti meccaniche. Queste raccomandazioni esercitarono una profonda influenza sui membri delle prime accademie scientifiche: sia la Royal Society sia l'Académie des Sciences intrapresero la compilazione di storie delle arti e del commercio; gli annali di entrambe le accademie e le nuove riviste scientifiche contengono un gran numero di descrizioni di nascite di esseri mostruosi, di strani eventi atmosferici, di pietre figurate, di persone che dormivano per due settimane consecutive e di altri fenomeni meravigliosi. Inoltre, quasi tutti i protagonisti della Rivoluzione scientifica si imbatterono, in una qualsiasi fase della loro carriera, in oggetti, fenomeni o principî meravigliosi: Galilei inviò a un membro della famiglia de' Medici un magnete 'meraviglioso'; Descartes sostenne di essere in grado di spiegare meccanicisticamente la ragione per cui il cadavere di un uomo assassinato sanguinava in presenza del suo carnefice; Gottfried Wilhelm Leibniz entrò in corrispondenza con alcuni alchimisti nel tentativo di chiarire i motivi per cui le sostanze fosforescenti emanavano luce nell'oscurità; Boyle descrisse la nascita di esseri mostruosi nelle pagine delle "Philosophical Transactions"; Christiaan Huygens (1629-1695) condusse alcune indagini sulla birifrangenza dello spato d'Islanda e Newton studiò "un certo principio segreto" di affinità chimica. Benché i loro metodi e i loro interessi sotto altri aspetti fossero privi di punti di contatto, questi filosofi della Natura (così come alcuni loro, meno noti, contemporanei) appartenevano a una comunità, non rigidamente organizzata ma consapevole di sé e della propria azione, già nota col nome di 'curiosi d'Europa'.
Le ricerche scientifiche dei curiosi nell'Europa del XVI e del XVII sec. non si svolgevano all'interno di una singola istituzione o professione e neppure di una sola condizione sociale. Coloro che iniziarono a essere collettivamente designati col nome di 'curiosi' operavano in contesti tra loro molto diversi: corti principesche, accademie, botteghe artigianali, ordini religiosi, laboratori alchemici, studioli umanistici, spedizioni dirette verso paesi esotici e, in alcuni casi, all'interno delle università. Anche la gamma delle identità sociali dei curiosi era molto ampia e includeva aristocratici come il napoletano Giambattista Della Porta (1535 ca.-1615), esperto di magia naturale, gesuiti come Athanasius Kircher (1602-1680), membro del Collegio Romano, artigiani come il ceramista francese Bernard Palissy (1510-1590) e gentiluomini 'virtuosi' come l'inglese John Evelyn (1620-1706), per non parlare di figure molto meno conosciute come quelle dei viaggiatori e dei marinai che riportarono dai loro viaggi descrizioni ed esemplari dei nuovi e strani mondi che le esplorazioni, le conquiste e il commercio avevano reso accessibili agli europei. I curiosi erano per la maggior parte uomini, anche se probabilmente alcune donne presero parte alle indagini che avevano come oggetto i naturalia in quanto partecipavano alle attività scientifiche e, soprattutto, artigianali, in cui l'organizzazione del lavoro coinvolgeva l'intera famiglia. In qualche caso, come in quello della naturalista tedesca Maria Sibylla Merian (1647-1717), le donne pubblicarono persino lavori di ricerca a loro nome. Dovendo generalizzare, si può dire che un'alta percentuale di curiosi aveva ricevuto una formazione medica e/o esercitava un mestiere legato alla medicina, come nel caso del farmacista Imperato e del chirurgo francese Ambroise Paré (1510-1590). Questa circostanza non può essere considerata sorprendente, dal momento che almeno sin dal XIII sec. la medicina era la disciplina più legata all'osservazione delle peculiarità e dei dettagli empirici. Tuttavia, l'ambiziosa idea dei medici, dei farmacisti e di altri uomini di medicina di applicare i loro metodi alla filosofia della Natura, tradizionalmente presentata come il regno delle generalizzazioni necessarie fondate sulla dimostrazione, sarebbe stata inconcepibile prima del XVI e XVII secolo. I tentativi di estendere e quindi di elevare lo statuto dei metodi e degli oggetti della scienza curiosa modificarono sia l'aspetto pratico sia l'aspetto sociale dell'attività intellettuale.
Si affermarono attività come la raccolta degli esemplari, il lavoro sul campo, gli esperimenti condotti in laboratorio, gli scambi epistolari e la compilazione di diari in cui erano riportati i dati delle osservazioni: tutte forme molto ricercate di esperienza che portarono a un notevole ampliamento della gamma dei naturalia studiati e dei modi di studiarli, nonché all'accentuazione dell'importanza del riconoscimento e della registrazione delle novità nei loro più minuti dettagli. Nuove forme di rapporti sociali come le reti epistolari, le visite alle collezioni, gli spettacoli di corte, le ricerche e le discussioni collettive che avevano luogo all'interno delle accademie, i dibattiti condotti presso gruppi privati e in seguito ospitati anche nelle pagine di un nuovo genere di pubblicazioni, le riviste scientifiche, travalicavano le vecchie divisioni sociali tra pubblico e privato, tra nobili e comuni cittadini, tra membri delle professioni liberali, educati nelle università, e mercanti, tra scambi diretti di opinione e comunicazioni destinate a un pubblico di sconosciuti. Per chiunque intenda definire l'identità dei curiosi, quindi, non è facile tracciare una netta linea di demarcazione tra iniziati e profani. I curiosi si distinguevano più per quello che facevano e per il modo in cui lo facevano che per la condizione alla quale appartenevano. Per dare un'idea dell'ampia gamma di persone e di luoghi legati alle passioni e agli oggetti tipici della curiosità sarà sufficiente illustrare alcuni esempi che si riferiscono a diversi contesti, quali le corti, gli ambienti umanistici, la società civile e le accademie.
L'attrazione della curiosità per i segreti e le meraviglie favorì la creazione di un legame tra questa inclinazione e la cultura rinascimentale e barocca di corte, all'interno della quale gli intrighi e gli spettacoli in grado di stupire il pubblico ebbero un grande sviluppo come strumenti di potere. Il medico, astrologo e matematico Gerolamo Cardano (1501-1576) ricorda che l'arrivo a Milano dell'imperatore Carlo V fu festeggiato alla corte degli Sforza con l'esibizione di cose meravigliose che incantarono i presenti. Galilei cercò di ottenere il favore dei Medici offrendo loro segreti e meraviglie quale il magnete. Nelle corti, stupire gli altri con meraviglie era una forma di competizione, soprattutto in occasione dei matrimoni e delle incoronazioni, eventi spesso celebrati alla presenza di un gran numero di ambasciatori e sovrani stranieri. Anche i cabinets delle curiosità dei principi potevano essere utilizzati per stupire i dignitari stranieri, che dovevano rimanere colpiti dalla ricchezza, dal potere e dal gusto dei loro regali ospiti: sembra che le meraviglie dell'arte e della Natura contenute nella collezione di Rodolfo II fossero mostrate soltanto ai visitatori di alto rango, come segni visibili del prestigio imperiale. I segreti e le meraviglie non erano soltanto gli oggetti di consumo maggiormente apprezzati dagli aristocratici; secondo alcuni, essi costituivano anche l'aristocrazia dei fenomeni naturali. Nel 1558, Giambattista Della Porta pubblicò i Magiae naturalis, sive de miraculis rerum naturalium libri IV e nella prefazione svelava "un gran numero di cose eccellenti, degne dei migliori dei nobili". L'esperto di magia naturale rivelò le "occulte" proprietà delle cose naturali e mostrò come fosse possibile sfruttarle per realizzare meraviglie tecnologiche. Spiegò che, collocate in un contenitore a tenuta d'aria, le piante di fragola potevano crescere anche fuori stagione e che le lumache (ben lavate) potevano essere usate come rimedio contro l'ubriachezza. La chiave per decifrare i segreti della Natura era quella di utilizzare il potere dei superiori sugli inferiori nella gerarchia dei "ranghi e ordini" che Dio aveva imposto all'intera Creazione. Secondo Della Porta, l'associazione di queste meraviglie con la nobiltà era una verità ovvia che non aveva bisogno di dimostrazioni; nella dedica a Rodolfo II di una parte della Taumatologia, un trattato rimasto incompiuto, Della Porta scrisse che "le grandi cose convengono solo ai grandi principi".
Tuttavia le corti non monopolizzarono la curiosità; gli studiosi umanisti misero insieme le loro collezioni di rarità e di oggetti esotici attraverso viaggi, scambi di esemplari con corrispondenti che vivevano in paesi lontani e, in alcuni casi, grazie alle indagini sul campo. L'umanista zurighese Konrad von Gesner (1516-1565) pubblicò un indice di autori greci e latini, insieme ad alcuni voluminosi trattati di zoologia e botanica, e organizzò una rete epistolare in tutta Europa grazie alla quale riuscì a procurarsi numerosi campioni botanici. Inoltre Gesner, che era professore di botanica, fu tra i primi a sentire l'esigenza di condurre gli studenti sul campo, ossia nella campagna circostante, per insegnare loro a identificare le piante in situ (così come nel giardino botanico dell'università e negli erbari di esemplari essiccati e pressati) e ad affinare la vista, l'odorato e il gusto, con l'ausilio dei quali sarebbe stato possibile cogliere le specificità delle piante.
Queste, infatti, non potevano essere captate da brevi descrizioni verbali e neppure dalla tecnica xilografica. L'attività di filosofo e quella di botanico di Gesner erano meno lontane tra loro di quanto si potrebbe pensare. Negli anni Novanta del XV sec., il medico e umanista ferrarese Niccolò Leoniceno aveva già tentato di correggere la Naturalis historia di Plinio, prima attraverso il confronto con i manoscritti resi disponibili in quel periodo e in seguito ricorrendo alle analisi filologiche delle fonti greche, Dioscuride e Teofrasto, e infine con l'osservazione diretta. Sia una buona conoscenza del vocabolario greco, sia il possesso di sensi ben affinati erano requisiti indispensabili per i botanici dell'inizio dell'Età moderna. Gli erbari nascevano dall'unione delle competenze degli umanisti e dei naturalisti curiosi i quali, conservando le piante disseccate nei libri, potevano fare confronti, stabilire concordanze e classificazioni e disporre di riferimenti durante i mesi invernali, nel corso dei quali era impossibile studiare nei giardini botanici e sul campo.
L'opportunità di intraprendere un viaggio era, comunque, considerata ancora più importante. Gesner si rammaricò di non aver potuto soddisfare il suo desiderio di studiare la flora e la fauna di altre regioni direttamente sul luogo, non avendo avuto il sostegno di un mecenate facoltoso. La carriera del naturalista fiammingo Charles de L'Écluse (Clusius, 1526-1609) dimostra che Gesner non si sbagliava. Dopo aver studiato giurisprudenza e aver tradotto alcune opere di storia naturale in latino (inclusi diversi studi sulle piante medicinali delle Indie Occidentali e altre relazioni di viaggio redatte dai naturalisti del suo tempo), de L'Écluse soggiornò per un certo periodo in Ungheria, in Provenza, in Spagna e in Austria, dedicandosi allo studio della flora locale. Quando, nel 1594, fu nominato professore di botanica all'Università di Leida, il giardino botanico di questa istituzione si arricchì delle piante esotiche che lo studioso aveva portato con sé o che aveva potuto acquistare grazie ai contatti stretti nel periodo in cui, a Vienna, rivestiva la carica di naturalista di corte dell'imperatore Massimiliano II.
Tuttavia, anche gli abitanti delle città che disponevano di mezzi più modesti potevano in qualche misura partecipare alle meticolose indagini dei curiosi. Gli artigiani che sapevano leggere e scrivere intervennero sempre più frequentemente nei dibattiti dei filosofi naturali formatisi nelle università, facendosi forti delle loro osservazioni dei naturalia. Bernard Palissy non conosceva il latino e tuttavia sfidò la teoria della formazione dei fossili enunciata da Cardano (di cui aveva letto una traduzione francese), basandosi sulle esperienze compiute nel periodo in cui aveva realizzato stampi in argilla di conchiglie e di rettili per la decorazione in ceramica di una grotta artificiale che avrebbe dovuto essere realizzata alle Tuileries, a sua volta un'opera curiosa secondo lo spirito dei cabinets. Gli interessi di Palissy erano legati soprattutto alla sua esperienza professionale e, a volte, la preoccupazione di salvaguardare i segreti del mestiere si scontrò in lui con il desiderio di esporre chiaramente il suo punto di vista nelle dispute incentrate su questioni di filosofia naturale. L'esigenza di non rivelare i segreti di fabbricazione influenzò anche i rapporti tra i curiosi e gli alchimisti, a cui si rivolsero in alcuni casi i filosofi della Natura per acquistare le sostanze fosforescenti (come fecero, per es., Leibniz e Boyle); ma anche questi commercianti di prodotti chimici ritennero utile a volte pubblicare le loro ricerche, benché soltanto in forma di annunci pubblicitari per le proprie merci.
Le ricerche dei curiosi violarono i confini che dividevano il privato dal pubblico e le classi sociali più agiate da quelle meno abbienti anche in altri ambienti urbani. I circoli privati fondati per discutere temi scientifici e, in particolare, i nuovi sviluppi della filosofia naturale, come quello che si riuniva intorno a Mersenne, a volte resero pubblici i loro dibattiti; per esempio Palissy affisse un gran numero di manifesti nei luoghi più frequentati di Parigi per invitare i medici eruditi a discutere con lui le strane proprietà delle sorgenti, un tema d'obbligo della scienza delle curiosità. Un centro più strutturato di pubblica discussione fu organizzato tra il 1633 e il 1645 a Parigi sotto gli auspici del Bureau d'Adresse di Théophraste Renaudot, un'originale società che operava come agenzia di collocamento, accademia e centro di assistenza medica e legale. Tutti i cittadini, senza distinzione di rango, incluse le donne ‒ se si deve credere all'autore della prefazione del resoconto di questo evento ‒ furono invitati a riunirsi a scadenze regolari per discutere amichevolmente una serie di temi come, per esempio, "Del moto o della quiete della Terra" o "Della ragazzina irsuta recentemente vista in città". Quest'annuncio dimostra che gli oggetti curiosi erano resi accessibili anche a chi per ragioni di censo o di ceto non era in grado di formare una collezione o di visitarne una, almeno negli ambienti metropolitani, dove era possibile assistere a tali meraviglie nelle fiere e, più tardi, nei caffè pubblici. Quella di Renaudot non era che una delle tante iniziative volte alla creazione di modelli d'interazione intellettuale più aperti e ugualitari, spesso intraprese in aperta opposizione alla feroce solitudine delle celle monastiche o all'acrimoniosa inciviltà delle dispute universitarie. L'importanza accordata alle curiosità nei resoconti di queste nuove forme di dibattiti pubblici è sorprendente e forse potrebbe derivare dall'intento di far risaltare l'astratta aridità delle discussioni universitarie.
Anche le accademie erano espressione del tentativo di offrire un'alternativa ai modelli universitari di indagine e di dibattito e la curiosità era ben rappresentata tra i soggetti e i metodi di ricerca che vi si privilegiavano. Le prime accademie che si proponevano come scopo lo studio della Natura furono in gran parte fondate sotto il patrocinio di aristocratici o di principi. Fra queste si annoverano l'Accademia de' Secreti organizzata da Della Porta, all'interno della quale 'gli uomini curiosi' si dedicavano all'esplorazione dei segreti della Natura attraverso la sperimentazione; l'Accademia del Cimento, nata a Firenze presso la corte dei Medici; l'Accademia dei Lincei fondata da Federico Cesi, marchese di Monticello. Il nome di quest'ultima era ispirato all'emblema scelto da Della Porta per la Magia naturalis (1589) in cui era raffigurata una lince. Si riteneva infatti che, grazie alla sua vista straordinariamente acuta, questo animale fosse in grado di vedere le cose in profondità e i membri di questa Accademia, i Lincei, si proponevano di scoprire le operazioni interne della Natura. Tuttavia, la composizione sociale della successiva generazione di accademie scientifiche, ossia di quelle fondate tra il 1650 e il 1660 nell'Europa settentrionale, era completamente diversa, anche se queste ultime non cessarono di seguire "con sguardo curioso" la Natura "Nei più intimi recessi / Della sua impercettibile piccolezza", come sostiene Abraham Cowley nell'ode To the Royal Society, pubblicata nel 1667 (Sprat, The history of the Royal Society, n.p.). Alcuni aristocratici, come Boyle e Huygens, seguitarono a svolgere un ruolo di primo piano nelle accademie transalpine, all'interno delle quali peraltro operavano pochissimi mercanti e artigiani. La maggior parte dei loro membri non proveniva dall'aristocrazia, ma dalle professioni liberali e soprattutto da quella medica, non soltanto perché la medicina era la facoltà universitaria che offriva i più completi insegnamenti di filosofia naturale, ma anche perché, dalla metà del XVII sec., gli uomini di medicina erano quelli che avevano adottato con più prontezza e convinzione i nuovi metodi e i nuovi oggetti della curiosità.
La creazione dell'Academia Naturae Curiosorum (più tardi nota come Accademia Leopoldina), fondata nel 1652 nella città imperiale di Schweinfurt in Franconia, dimostra che l'unione tra gli interessi dei medici e quelli dei curiosi cercò di esprimersi in un nuovo tipo di istituzioni. I fondatori di questa Accademia erano quattro medici che, nel corso dei loro studi, avevano frequentato diverse università; il primo dei suoi presidenti, Johann Lorenz Bausch (1605-1665), dopo aver studiato per un anno presso l'Università di Padova, aveva intrapreso un viaggio in Italia, nel corso del quale aveva visitato i cabinets delle curiosità di Venezia, Roma, Bologna, Pisa e Napoli e aveva iniziato a mettere insieme una collezione di 'curiosità esotiche' dell'arte e della Natura. Nell'atto costitutivo dell'Academia Naturae Curiosorum, i fondatori indicarono gli scopi di questa istituzione menzionando in una sola frase, accanto alla ricerca di ciò che era utile dal punto di vista medico, l'"innato appetito di conoscere". Soltanto attraverso un accurato ed esteso studio dei tre regni, animale, vegetale e minerale, i medici potevano sperare di scoprire i segreti rimedi della Natura: "ogni giorno la sontuosa Natura del mondo ci offre cose nuove e in precedenza sconosciute in grande abbondanza [...] i cui modi di operare sono nascosti e non sufficientemente conosciuti", come scrive Andreas Büchner nella Academiae Sacri Romani Imperii […] historia, del 1755 (pp. 19-21). Apparentemente i primi membri di questa Accademia si sentirono obbligati a giustificare la decisione di aver adottato il nome di 'curiosi', nella consapevolezza che questo termine aveva ancora una connotazione morale negativa in alcuni circoli. Essi infatti specificarono che la loro curiosità non aveva nulla a che fare con "ciò che è frivolo e vano", ma esprimeva il proposito di dedicarsi con "diligenza" al miglioramento delle condizioni di vita degli esseri umani. La loro pubblicazione annuale, non a caso chiamata "Miscellanea Curiosa" (ma nota anche con il nome di 'Ephemerides'), pubblicata a partire dal 1670, invitò i medici di tutta Europa a inviare presso la redazione resoconti di casi insoliti e descrizioni di nuovi naturalia che potevano condurre all'individuazione di nuovi tipi di cura, nello spirito della storia naturale delle meraviglie di Francis Bacon. Le osservazioni riportate sulle pagine della "Miscellanea" erano peculiari sia perché ciascuna di esse descriveva un singolo oggetto o evento osservato da una particolare persona in un dato luogo e momento di tempo, sia perché avevano come oggetto cose rare, strane ed esotiche (una sirena rinvenuta in Danimarca, una coppia di fratelli siamesi, strane forme di calcoli renali). Grazie alla "Miscellanea", i membri di questa Accademia moltiplicarono le fila dei 'curiosi', fino a poter contare su una comunità rappresentata in tutte le regioni europee, discostandosi nettamente dal modello locale delle prime accademie di corte.
La Royal Society di Londra (fondata nel 1660) e l'Académie des Sciences di Parigi (fondata nel 1666) non si proponevano soltanto scopi medici, anche se gran parte dei loro membri erano dottori in medicina. Ben presto ampliarono oltre i confini delle metropoli la cerchia originaria dei loro aderenti, che si riunivano regolarmente per assistere agli esperimenti e per discutere le relazioni, con una rete di corrispondenti che vivevano nelle più lontane regioni del globo, tra cui si contavano anche alcune accademie. Notabili di provincia che tenevano diari in cui erano registrati i dati del tempo atmosferico, mercanti in viaggio verso le Indie Orientali e Occidentali, medici a cui era capitato di assistere alla nascita di esseri mostruosi, eruditi stranieri che seguivano il percorso di comete e novae e curati di campagna informati sulla flora e sulla fauna locali furono incoraggiati a far pervenire le loro osservazioni alle "Philosophical Transactions" e all'"Histoire et Mémoires de l'Académie Royale des Sciences" che le avrebbero pubblicate sulle loro pagine. Come abbiamo già osservato, erano decisamente curiosi non soltanto i temi di molte di queste relazioni, ma anche i meticolosi metodi di indagine su cui si basavano. Sin dal 1662 la Royal Society curò la compilazione di una serie di questionari destinati a essere distribuiti tra mercanti, marinai e altre categorie di viaggiatori, specificando che l'educazione e la posizione sociale dei destinatari erano meno importanti dell'opportunità di effettuare osservazioni ravvicinate e dirette. Benché fossero consapevoli dei problemi che queste testimonianze, non verificabili e soprattutto relative a questioni tanto insolite, potevano sollevare, gli accademici ritennero che il valore delle informazioni così raccolte compensasse ampiamente il rischio di errori o di frodi. Nelle attività dei curiosi la competenza si impose sempre più frequentemente come il principale criterio di scelta dei membri della disseminata comunità dei curiosi, a detrimento dell'erudizione umanistica e dell'eleganza delle teorie, anche se il conferimento del titolo formale di membro di queste accademie era ancora legato a criteri relativi alla confessione religiosa, all'educazione, alla posizione sociale e‒ almeno nel caso dell'Académie‒ ai titoli professionali di chi desiderava entrare a farne parte.
L'apertura delle accademie, per quanto concerneva gli informatori, era in parte dettata da ragioni di carattere pratico. L'empirismo nella ricerca delle particolarità naturali presso le società scientifiche del XVII sec. dipendeva in gran parte dal lavoro di osservazione svolto da una rete costituita in prevalenza da volontari. I pensionnaires dell'Académie des Sciences che ricevevano uno stipendio, si dedicavano con la stessa passione dei membri non pagati della Royal Society alla ricerca di resoconti attendibili di fenomeni naturali e di nuove scoperte, inviati dalle province e da paesi lontani da corrispondenti che non percepivano un onorario. Ciò valeva soprattutto per le osservazioni di storia naturale. Gli esperimenti erano costosi e impegnativi, richiedevano un grande dispendio di tempo e spesso davano luogo a risultati contrastanti ma, in via di principio, potevano essere effettuati quando e dove si voleva. Le curiosità invece non erano facilmente osservabili: le pietre fossili rinvenute in una certa cava non erano reperibili altrove; l'aurora boreale poteva essere osservata una sola volta nel corso di una vita; pochissime persone avevano il tempo, le risorse e il coraggio necessari a recarsi in paesi lontani per studiarne la flora e la fauna. Non era facile, e in alcuni casi neppure possibile, ripetere queste osservazioni; si potevano eventualmente esaminare le antiche cronache nel tentativo di trovare esempi che potessero confermarle.
Fu la vastità del lavoro di raccolta delle osservazioni a rendere necessaria la collaborazione di ricercatori che vivevano in paesi lontani e che si distinguevano soprattutto per il loro interesse per le curiosità. Sia Bacon sia Descartes avevano sognato invano un mecenate disposto a ricoprire il ruolo che Alessandro aveva avuto per Aristotele e quindi a pagar loro gli assistenti e i materiali necessari alle indagini empiriche, che entrambi consideravano essenziali a una filosofia naturale riformata, ed essi si riferivano chiaramente a servitori e non a colleghi. Nella New Atlantis (1626), Bacon immaginò una società retta da una sorta di istituto di ricerca scientifica, la Casa di Salomone, che doveva essere organizzato gerarchicamente, dai "Predoni" fino agli "Interpreti della natura", e che aveva alle sue dipendenze "un gran numero di servi e aiutanti" (Scritti filosofici, pp. 863-864). Quando si trovava a dover effettuare un esperimento, Descartes preferiva rivolgersi a servi e non ad aiutanti, perché i primi potevano essere indotti a fare esattamente ciò che gli si diceva. Le accademie del XVII sec. ricorsero in alcuni casi ad assistenti pagati, soprattutto per quanto riguardava il lavoro manuale necessario all'esecuzione degli esperimenti, ma si basarono in prevalenza sulle reti di corrispondenti volontari per quanto concerneva il lavoro empirico. Questi 'curiosi' collaboratori e lettori delle prime riviste scientifiche erano 'appassionati' non tanto perché privi di un'educazione o di una posizione professionale ‒ soltanto un piccolo numero di savants dell'inizio dell'Età moderna aveva ricevuto un'istruzione formale o era pagato per le sue attività scientifiche ‒ quanto perché si dedicavano allo studio di un tema o allo svolgimento di un'attività per pura passione. In questo contesto la parola 'passione' indica l'ardente desiderio di conoscere quanto più possibile nei dettagli un insieme piuttosto insolito di oggetti: i curiosi erano coloro in cui la passione della curiosità si rivolgeva alle cose strane e rare.
Così una combinazione di fattori psicologici, sociali ed epistemologici, che risentivano dell'influenza della curiosità, finì per trasformare in modo radicale lo studio della Natura. Nel corso del XVI e del XVII sec. il contenuto della filosofia naturale, fino ad allora costituito da generalizzazioni universali basate su oggetti percepibili dai nudi sensi e ricavate da assiomi, iniziò a essere rappresentato da descrizioni circoscritte di particolari naturali, eseguite a partire da osservazioni ed esperimenti molto accurati. Lo statuto epistemologico della storia naturale, considerato sin dall'Antichità di gran lunga inferiore a quello della filosofia naturale, una disciplina che studiava gli universali e non i particolari, subì una drastica rivalutazione. La passione della curiosità, un tempo collocata tra i vizi accanto alla superbia e alla lussuria, divenne quasi una virtù, più legata agli interessi civili che ai tumulti delle passioni. Dal momento che la curiosità andava in cerca di cose nascoste, nuove e meravigliose, i naturalisti guidati dalla curiosità rivolsero la loro attenzione ai segreti e alle meraviglie della Natura. Furono elaborate pratiche scientifiche per raccogliere la sfida lanciata dalle nuove passioni e dai nuovi oggetti di indagine, come la raccolta degli esemplari, i viaggi e il lavoro sul campo. Emersero anche nuovi generi di pubblicazioni scientifiche: i brevi articoli dedicati a una singola osservazione, pubblicati dalla stampa periodica e spesso scritti in vernacolo, a poco a poco sostituirono i lunghi trattati latini consacrati all'esposizione sistematica di grandiose teorie. Di conseguenza si estese la partecipazione allo studio della Natura, almeno per quanto riguardava certi compiti, e tanto le donne quanto coloro che non sapevano leggere e scrivere, benché fossero ancora in gran parte esclusi da una partecipazione diretta, a volte furono considerati importanti fonti di informazioni in alcuni campi. L'insaziabile appetito di novità, che ancora oggi seguita a scandire il ritmo della scienza moderna fu forse la principale caratteristica distintiva della scienza curiosa.
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