Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Sul finire del Quattrocento Firenze si fa promotrice di una “rinascenza” della letteratura e della arti senza precedenti. Fondamentale risulta la figura di Lorenzo de’ Medici, principe-letterato per antonomasia. Intorno a sé il Magnifico riesce a raccogliere una cerchia di poeti e dotti che fondano le basi per una nuova letteratura, incentrata sui modelli classici, non solo latini ma anche della tradizione greca, da poco riscoperta. Principale collaboratore nell’impresa laurenziana è Angelo Poliziano, poeta, professore e filologo, ma accanto a lui troviamo anche altre personalità, di minore spessore culturale ma di grande successo, quali per esempio Luigi Pulci e Girolamo Benivieni.
Lorenzo de’ Medici
Lorenzo de’ Medici
Comento de’ miei sonetti
Proemio
Dante, il Petrarca e il Boccaccio, nostri poeti fiorentini, hanno, nelli gravi e dolcissimi versi e orazioni loro, mostro assai chiaramente con molta facilità potersi in questa lingua exprimere ogni senso. Perché, chi legge la Comedia di Dante vi troverrà molte cose teologiche e naturali essere con grande destrezza e facilità expresse; […]. Chi negherà nel Petrarca trovarsi uno stile grave, lepido e dolce, e queste cose amorose con tanta gravità e venustà trattate, quanta sanza dubio non si truova in Ovidio, Tibullo, Catullo, Properzio o alcuno altro latino?
[…] E considerando l’opera sua [del Boccaccio] del Decameron, per la diversità della materia, ora grave, ora mediocre e ora bassa, e contenente tutte le perturbazioni che agli uomini possono accadere, d’amore e odio, timore e speranza, tante nuove astuzie e ingegni, e avendo a exprimere tutte le nature e passioni degli uomini che si trovono al mondo, sanza controversia, giudicherà nessuna lingua meglio che la nostra essere atta a exprimere. E Guido Cavalcanti […] non si può dire quanto commodamente abbi insieme coniunto la gravità e la dolcezza […].
E forse saranno ancora scritte in questa lingua cose subtili e importante e degne d’essere lette, maxime perché insino a ora si può dire essere l’adolescenzia di questa lingua, perché ogni ora più si fa elegante e gentile.
Lorenzo de’ Medici, Opere, a cura di T. Zanato, Torino, Einaudi, 1992
Lorenzo de’ Medici
Canzona di Bacco
Quanto è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto, sia,
di doman non c’è certezza.
Questo è Bacco e Arïanna,
belli e l’un dell’altro ardenti:
perché el tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.
Queste ninfe e altre genti
sono allegri tuttavia.
Lorenzo de’ Medici, Opere, a cura di T. Zanato, Torino, Einaudi, 1992
Lorenzo de’ Medici
Corinto
Eranvi rose candide e vermiglie:
alcuna a foglia a foglia al sol si spiega,
stretta prima, poi par s’apra e scompiglie;
altra più giovenetta si dislega
a pena dalla boccia; eravi ancora
chi le sue chiuse foglie all’aire niega;
altra, cadendo, a piè il terreno infiora.
Così le vidi nascere e morire
e passar lor vaghezza in men di un’ora.
Quando languente e pallide vidi ire
le foglie a terra, allor mi venne a mente
che vana cosa è il giovenil fiorire.
Nostro solo è quel poco ch’è presente,
né il passato o il futuro è nostro tempo:
un non è più, e l’altro è ancor nïente.
Cogli la rosa, o ninfa, or ch’è ’l bel tempo!
Lorenzo de’ Medici, Opere, a cura di T. Zanato, Torino, Einaudi, 1992
Luigi Pulci
Marguette, e l’amore per il vitto
Morgante
Rispose allor Margutte: A dirtel tosto,
io non credo più al nero ch’a l’azzurro,
ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;
e credo alcuna volta anco nel burro,
nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto,
e molto più nell’aspro che il mangurro;
ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
e credo che sia salvo chi gli crede;
e credo nella torta e nel tortello:
l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo;
e ’l vero paternostro è il fegatello,
e posson esser tre, due ed un solo,
e diriva dal fegato almen quello.
E perch’io vorrei ber con un ghiacciolo,
se Macometto il mosto vieta e biasima,
credo che sia il sogno o la fantasima […].
Luigi Pulci, Morgante, a cura di F. Ageno, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955
Con l’ascesa al potere nel 1469 di Lorenzo, poi detto il Magnifico, il governo mediceo su Firenze si rafforza e inizia a prendere corpo, grazie a un’accortissima politica culturale, il mito della Rinascenza fiorentina. Figlio di Piero de’Medici e di Lucrezia Tornabuoni, Lorenzo viene educato da umanisti e filosofi come Marsilio Ficino, Cristoforo Landino e Giovanni Argiropulo.
Attorno alla sua personalità si forma ben presto una sorta di circolo, la cosiddetta “brigata laurenziana” composta di letterati, poeti e collaboratori, tra cui spiccano alcuni dei più illustri nomi della cultura fiorentina del tempo, primi fra tutti Angelo Poliziano e Luigi Pulci. Gli interessi del giovane Lorenzo sono volti in particolare al recupero della tradizione municipale, nei suoi molteplici aspetti. È così che, all’inizio degli anni Settanta, si assiste a Firenze a una forte ripresa della letteratura volgare fiorentina, sulla scorta dei modelli trecenteschi.“Principe” letterato per antonomasia, Lorenzo non si limita a proteggere artisti e poeti, ma contribuisce in prima persona alla rinascita della letteratura fiorentina di fine Quattrocento. La straordinaria fioritura culturale del tardo umanesimo a Firenze è del resto funzionale agli interessi politici del Magnifico, che mira a fare della città, anche attraverso l’eccellenza culturale, un punto di riferimento nelle complesse vicende della politica italiana.
Tradizionalmente si divide la poliedrica produzione letteraria del Magnifico in tre fasi: la prima, in gran parte precedente all’avvento al potere, si muove sul doppio binario di un petrarchismo raffinato e fedele al modello, e di una vena comico-burlesca, più tipicamente toscana. I componimenti lirici (ortodossi anche nei metri: sonetti, canzoni, sestine e ballate), composti per la giovane Lucrezia Donati, vengono raccolti nel 1474 in un Canzoniere che riprende la struttura dei Rerum Vulgarium Fragmenta in assoluto anticipo su quella che diverrà poi una moda. A questa prima sistemazione Lorenzo aggiungerà man mano nel corso degli anni altre liriche, venate anche da notevoli echi stilnovistici, per poi arrivare a un nuovo ordinamento, non più in chiave petrarchesca, bensì dantesca, con il Comento de’ miei sonetti, la cui prima redazione risale al 1481-1484. Sulla scorta della Vita Nova il Magnifico riassembla alcuni sonetti del Canzoniere, accompagnandoli con un commento esegetico in prosa che nella seconda redazione (1487-1491) vira più nettamente verso un’interpretazione filosofica di impronta ficiniana. Se l’ispirazione lirica non viene mai meno (Canzoniere e Comento rimangono interrotti per la morte dell’autore), a essa si affianca fin dall’inizio una vena bucolica volgare che si declina sia nei toni più controllati del Corinto (1464-1465 ca.), sia in quelli grotteschi della Nencia da Barberino.
Sempre alla vena burlesca appartengono opere come il Simposio (1469-1472), parodia in terzine della Commedia, che passa in rassegna i più valenti bevitori di Firenze, le novelle (Giacoppo, di ispirazione decameroniana e Ginevra, più vicina ai toni del Boccaccio minore), l’Uccellagione di starne (1473-1474), divertita descrizione di ottave di una battuta di caccia, le Sette allegrezze d’amore (1473-1478) e vari canti carnascialeschi e ballate legati a occasioni contingenti. Dalla prima metà degli anni Settanta si può notare in Lorenzo un progressivo abbandono del filone comico a favore di un’ispirazione più composta e almeno per un certo periodo influenzata dalle teorie neoplatonico-ficiniane. A questa fase risale la composizione del De summo bono, riflessione in terzine sulla felicità (1473), e di alcune laudi e capitoli di argomento religioso.
La terza e più ampia fase poetica si colloca negli anni Ottanta, dopo la battuta d’arresto rappresentata dalla congiura dei Pazzi, e vede il prevalere della lirica “alta”, sul modello di Poliziano e della più nobile tradizione toscana. Abbandonati i divertiti esperimenti municipali della giovinezza, Lorenzo vira verso uno stile più classicheggiante, guardando ai modelli più illustri della tradizione classica e volgare. A questo periodo appartengono l’Apollo e Pan (1480 ca.), composto da due capitoli in terza rima, la seconda redazione del finale del Corinto, sul modello del De rosis nascentibus dello Pseudo Ausonio, ma soprattutto le Selve e l’Ambra, poemetti in ottave ispirati al modello classico delle Silvae di Stazio (40-96): risalenti entrambi all’ultimo scorcio degli anni Ottanta, si caratterizzano per commistione di fonti e temi (tra il lirico-amoroso e il descrittivo) e per una forte tensione stilistica. Le ultime canzoni per il carnevale, tra cui la celeberrima Canzona di Bacco (“Quanto è bella giovinezza, / che si fugge tuttavia! / ”), le laudi religiose, riconducibili alla predicazione savonaroliana, e la Rappresentazione di san Giovanni e Paolo occupano gli ultimi anni di vita di Lorenzo, assieme al costante lavoro di revisione sul Comento.
Nella poliedrica e apparentemente disomogenea produzione di Lorenzo è possibile individuare alcune costanti, in particolare una consapevole e strenua volontà di arricchire la lingua volgare e farne uno strumento per l’affermazione di una supremazia, non solo letteraria.
Affacciandosi giovanissimo sulla scena culturale, Lorenzo si propone come poeta in volgare, esercitandosi in generi cari alla tradizione toscana; quest’ultimi erano sempre stati appannaggio dello schieramento oligarchico, in contrapposizione agli intellettuali medicei dell’età di Cosimo promotori di una cultura alta, di matrice filosofica, che si esprimeva per lo più in latino. Quella del giovane Lorenzo è una scelta rivoluzionaria nel suo ambito, che tende a riappropriarsi delle insegne culturali degli oppositori, in vetta alle quali spicca Dante.
Dal punto di vista teorico il manifesto più importante di questa concezione laurenziana è rappresentato dalla Raccolta Aragonese. La Raccolta, scortata da una lettera di accompagnamento a Federico d’Aragona, figlio del re di Napoli, probabilmente composta da Poliziano su commissione di Lorenzo, rappresenta un evento culturale fondamentale. La composizione della silloge, perduta e ricostruibile soltanto sugli apografi (cioè sui testimoni più tardi, derivati direttamente o indirettamente dal manoscritto originario), risale sicuramente al 1476-1477, essendo stata inviata in dono nel 1477. Nell’antologia sono raccolti i principali autori volgari dal Duecento fino a Lorenzo, col dichiarato intento di ricostruire una realtà storica di cui si era smarrita coscienza almeno da un secolo. In questo passaggio dalle classifiche e valutazioni alla documentazione della storia letteraria sta la differenza e lo scarto rispetto alle impostazioni precedenti, quelle di Giovanni Villani e di Cristoforo Landino.
Il canone proposto è ampio. Trovano così spazio poeti di cui si era persa la fama: oltre a quelli che ormai sono i classici della letteratura volgare (Dante con la Vita Nova, le canzoni e le Rime, Petrarca, del quale tuttavia non si parlerà, Boccaccio e Cavalcanti) sono infatti riproposti i siciliani (Giacomo da Lentini e Pier delle Vigne), il bolognese Guinizzelli, i toscani Guittone, Bonagiunta Orbicciani, Cino da Pistoia e Lapo Gianni, oltre a numerosi altri, per poi terminare con le poesie del Magnifico che, significativamente, chiudono la silloge. Vengono così riaffermate le radici sovracittadine e sovraregionali di una tradizione poi sviluppatasi tutta all’ombra di Firenze, ponendo la città alla guida di un fenomeno di portata molto più vasta, che investe l’intera tradizione italiana. In questo modo sono poste le basi per la rivendicazione dell’egemonia linguistica e letteraria su tutta la penisola e l’intento politico sotteso a questa operazione non può sfuggire (Proemio, par. 106: ““e [il volgare] potrebbe facilmente, nella iuventù e adulta età sua, venire ancora in maggiore perfezzione, e tanto più aggiugnendosi qualche prospero successo e augumento al fiorentino imperio: come si debbe non solamente sperare, ma con tutto l’ingegno e forze per li buoni cittadini aiutare””).
Grande rilievo, all’interno del quadro tracciato dalla Epistola proemiale, assumono in particolare gli stilnovisti di cui si loda soprattutto la soavità e il “peregrino stile”. Di Cino (1270 ca.- 1337 ca.) si dice addirittura che: ““tutto delicato e veramente amoroso, il quale primo, al mio parere, cominciò l’antico rozzore in tutto a schifare, dal quale né il divino Dante, per altro mirabilissimo, s’è potuto da ogni parte schermire””. Inizia dunque a emergere un nuovo criterio di eccellenza, basato sulla perfezione formale che in questo caso rimane ancora latente e, nonostante l’appunto, fa salva la preminenza dantesca, ma si svilupperà con altri esiti di lì a pochi anni proprio nel Landino dell’Apologia nella quale si difende Dante e Florenzia da’ falsi calunniatori.
Un’altra costante della produzione laurenziana, in particolare della fase più matura, consiste in quella che Tiziano Zanato ha efficacemente definito “oltranza stilistica”.
Si tratta di una tendenza del Magnifico a procedere intorno ad alcuni temi topici, continuamente variati, attraverso aggregazioni di fonti e ispirazioni diverse che ne rivelano la profonda cultura letteraria classica, oltre che volgare. Ne è un esempio significativo la chiusa del Corinto (nella seconda redazione), che risulta fedele traduzione di una parte dell’elegia pseudo-virgiliana De rosis nascentibus, ma accoglie suggestioni e interferenze coeve, in particolare polizianee (sia del commento universitario al carme, sia della ripresa poetica delle Stanze), all’interno di un “dialogo” poetico a distanza con i componenti della brigata laurenziana.
Girolamo Benivieni
Di formazione tutta fiorentina, Girolamo Benivieni studia latino e greco presso lo Studio fiorentino, ma fin dall’adolescenza si dedica anche alla letteratura volgare, entrando ben presto nelle grazie del circolo laurenziano anche per la sua capacità di vivace improvvisatore.
Discreto ed elegante verseggiatore, le sue composizioni giovanili si muovono sulla scia delle personalità più definite del Magnifico e, in particolare, di Poliziano, di cui Girolamo volgarizza la traduzione latina dell’Amore fuggitivo di Mosco. A questo periodo risale il poemetto allegorico in ottave Amore, indirizzato a Niccolò Visconti, signore di Correggio. L’Amore è composto da 118 ottave di chiara marca petrarchesca, fittamente intessute di echi polizianei, che sviluppano, con un andamento narrativo, il topico tema di marca neoplatonico-ficiniana del progressivo accostamento alla Bellezza divina. Al protagonista – sulla scorta del giovane Iulio delle Stanze – appare una meravigliosa donna assisa sul prato, intenta a intrecciarsi una corona di fiori. Da questo attacco topico prende il via la vicenda di smarrimento e conversione che declina l’evidente archetipo dantesco secondo il gusto neoplatonico allora dominante nel circolo laurenziano. Benivieni attinge all’intera tradizione volgare toscana, antica (Dante e Petrarca) e contemporanea (Poliziano), con un’operazione di grande interesse che, pur sfiorando a tratti il vero e proprio calco, non è priva di fascino.
Sempre a una produzione giovanile vanno ascritte le otto egloghe che Girolamo compone per la raccolta comunemente nota come Bucoliche elegantissime, pubblicata a Firenze, priva di frontespizio, nel febbraio del 1482 (1481 stile fiorentino) per i tipi di Antonio Miscomini. Questa stampa è particolarmente significativa in quanto rappresenta non soltanto un punto di riferimento obbligato nella storia della codificazione del genere bucolico in volgare, ma anche il primo esempio a stampa di volgarizzamento delle Bucoliche di Virgilio autore della trasposizione è Bernardo Pulci, fratello dei più noti Luca e Luigi e modesto verseggiatore.
Fondamentale nel percorso non solo poetico del Benivieni è però l’incontro con Pico della Mirandola con cui instaura un rapporto di devota amicizia. Ben presto all’ispirazione gaiamente cortigiana della prima giovinezza subentra una vena misticheggiante, profondamente influenzata oltre che da Pico, da Girolamo Savonarola che proprio in quegli anni si sta imponendo a Firenze. Durante la crisi del potere mediceo seguita alla morte di Lorenzo (1494), Benivieni si schiera con Savonarola, credendo entusiasticamente nel suo progetto di riforma morale e sociale. A questo periodo risalgono molte laudi e canzoni spirituali, di notevole successo, e alcune traduzioni di opere savonaroliane (come per esempio il trattato Della semplicità della vita cristiana). Dopo la fine dell’avventura della Repubblica piagnona, Benivieni, fedele alla memoria del frate domenicano, si ritira dalla vita attiva e attende alla risistemazione dei propri componimenti, rielaborandoli in senso spirituale e dotandoli di un apparato interpretativo sul modello di quello che Pico aveva apposto ai propri. Nel 1500 esce così a stampa il Commento di Hieronymo Benivieni sopra a più sue canzone et sonetti dello Amore e della Bellezza divina, con in appendice il poemetto Amore.
Una seconda edizione, molto più completa, delle opere di Benivieni esce nel 1519 presso i Giunti di Firenze: in questa l’autore inserisce anche la famosa Canzona dell’Amor celeste e divino corredata dal commento di Pico, risalente con ogni probabilità alla seconda metà degli anni Ottanta. Il resto della lunga vita di Benivieni è dedicato agli studi letterari, in particolare danteschi: al 1506 risale un’importante edizione della Commedia, corredata da un dialogo in cui vengono esposte le teorie di Antonio Manetti circa la forma e le misure dell’inferno dantesco.
Luigi Pulci
Di nobili origini, ma costretto dai dissesti familiari a una vita agitata, Luigi Pulci rappresenta l’elemento più autenticamente burlesco e scanzonato della brigata medicea, il più legato alla tradizione municipale toscana.
Dotato di una tradizionale educazione letteraria, il Pulci a partire dai primi anni Sessanta inizia a frequentare il palazzo dei Medici, per i quali svolge diverse mansioni. La sua fortuna è almeno fino all’inizio degli anni Settanta notevole: Lorenzo lo gratifica della propria amicizia e ne fa un compare della brigata che va radunando intorno a sé, apprezzandone la fresca vena di improvvisatore e il gusto aggressivo e vivace, che ben si accorda con le prime prove poetiche laurenziane (come la Nencia e il Simposio). La buona stella di Pulci tramonta piuttosto bruscamente, sia per l’aspra polemica ingaggiata contro Marsilio Ficino e Matteo Franco, sia per il sospetto di eterodossia religiosa che pesa su di lui. Del resto gli interessi poetici e culturali di Lorenzo lo portano verso modelli di ispirazione più composta e colta e finiscono per isolare l’antico sodale. Nella necessità di guadagnarsi da vivere Pulci passa al servizio di Roberto da Sanseverino e lascia Firenze. Muore a Padova, dove viene sepolto come eretico in terra sconsacrata.
Agli esordi della sua carriera risalgono i Sonetti, i cui divertiti giochi linguistici, che quasi fanno “esplodere” la materia realistica trattata devono molto alla lezione del Burchiello. Dello stesso tono anche le Lettere in prosa indirizzate per lo più al Magnifico e alcuni sonetti parodici in dialetti diversi (milanese, veneziano e napoletano). A un interesse linguistico di tipo parodico ed espressivistico va ricondotta anche la compilazione di due dizionarietti, il Vocabolista (sui latinismi) e il Vocabolarietto di lingua furbesca, a uso della cerchia medicea. Sempre del periodo giovanile è la Beca di Dicomano, risposta goliardica in rima alla più nota Nencia da Barberino del Magnifico.
Ma la fama del Pulci rimane senza dubbio legata al Morgante, poema eroico in ottave, tutto giocato in chiave burlesca. A stampa già nel 1478 in 23 cantari (cosiddetto Morgante minore), viene poi ampliato fino ad arrivare a 28 e pubblicato nel 1483 (Morgante maggiore). Il titolo (apposto, pare, a “furor di popolo”) rimanda a uno dei protagonisti, un gigante dallo straordinario appetito che, convertito da Orlando, affronta avventure di ogni genere armato di un battaglio di campana, fino a quando, dopo aver ucciso una balena, muore per il morso di un granchio.
Il rinnovato interesse per i cantari di materia carolingia – incentrati cioè sulle gesta di Carlo Magno e dei paladini franchi – è giustificato dalla minaccia dei Turchi che avevano già conquistato Costantinopoli nel 1453 e dal particolare interesse che a Firenze in quegli anni riveste la Francia per via del riavvicinamento diplomatico tra Lorenzo e la corte parigina. Pulci inizia la stesura del suo poema su insistenza di Lucrezia Tornabuoni, madre di Lorenzo a cui l’opera è dedicata. Il tema classico, lo scontro dei cavalieri cristiani al seguito di Carlo Magno con gli infedeli, è tratto dalla lunga tradizione dei cantari; in particolare, si è a lungo ritenuto che Pulci seguisse la falsariga di un anonimo cantare noto come Orlando, ritrovato da Pio Rajna nel XIX secolo. Gli studi di Paolo Orvieto, basandosi su considerazioni linguistiche e strutturali, portano invece a pensare che sia l’Orlando ad attingere al Morgante e non viceversa.
Gli episodi vedono come protagonisti gli eroi tradizionali della saga cristiana: Carlo Magno, i paladini Orlando e Rinaldo, il traditore Gano, il mago Malagigi, Ulivieri e Ricciardetto, ma a questi si aggiunge una serie di felici invenzioni pulciane quali Morgante stesso e il mezzo gigante Margutte, tutto dedito alla gola e agli imbrogli, che, paradossalmente, muore dalle risate.
Proprio il paradosso e il grottesco sono la cifra caratteristica del Morgante: Pulci tratta le vicende cavalleresche con un distacco ironico che le fa apparire un divertito fondale in cui inscenare la propria “commedia umana”: l’eroico rimane “inevaso” (Antonio Enzo Quaglio) perché a prevalere è il gusto per la celebrazione iperbolica della fisicità della vita. Celebri le abbuffate di Morgante e Margutte, in cui l’elencazione insistita delle pietanze divorate dai due compari rimanda alla poesia del Burchiello.