La ricezione dell'alchimia araba in Occidente
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Verso la metà del XII secolo iniziano a circolare in Occidente le prime traduzioni dei testi arabi di alchimia che suscitano da subito la curiosità degli studiosi latini per le innovazioni di carattere epistemologico e tecnologico introdotte da questa disciplina. Coniugando speculazione teoretica e operatività pratica, l’alchimia non riesce a trovare una collocazione nelle gerarchie del sapere tradizionale, che separa nettamente il lavoro manuale da quello intellettuale, rimanendo così un tipo di sapere controverso al centro di animati dibattiti nei quali si cerca di negarne la validità.
Generalmente la traduzione del Testamentum di Morienus eseguita da Roberto di Chester nel 1144 è considerata la prima opera d’alchimia introdotta in Occidente dall’islam. Prima di questa data i riferimenti a questa disciplina sono quasi inesistenti e di difficile interpretazione. Risale alla metà dell’XI secolo una testimonianza curiosa, riportata dal cronista Adamo di Brema, che narra la storia di un ebreo convertito al cristianesimo il quale, tornato ad Amburgo dopo un viaggio a Gerusalemme, prende a glorificarsi pubblicamente dicendosi capace di convertire il rame in oro. Il tono del cronista è sprezzante e sembra riferirsi all’ebreo come a un truffatore, precorrendo così un tipo di argomentazioni che, già presente nella corrente antitrasmutazionista araba di Avicenna, prende forza nel dibattito sull’alchimia che si svolge nel XIII secolo. È tuttavia significativo il fatto che il racconto di Adamo di Brema risalga a un periodo di rinnovato interesse verso le tecniche, durante il quale sono compilati importanti ricettari chimici e metallurgici che presentano tracce evidenti di un’influenza dell’alchimia araba e bizantina.
Nella Diversarum artium schedula di Teofilo, ad esempio, troviamo una ricetta per la produzione dell’oro spagnolo, con il quale, nei trattati alchemici arabo-ispanici, si indica l’oro artificiale. La ricetta, che prevede la combinazione di rame rosso, cenere di basilisco, sangue d’uomo dai capelli rossi e aceto, sembra trovare un corrispettivo in un manoscritto del corpus jabiriano. Anche se le modalità di penetrazione nel Nord Europa restano oscure, è presumibile che la sua diffusione sia avvenuta attraverso la rete delle abbazie dei Benedettini, ordine al quale apparteneva lo stesso Teofilo. Da questa tradizione sembrano provenire anche due ricette aggiunte da Adelardo di Bath alla Mappae Clavicula, un altro importante ricettario di origine bizantina risalente all’VIII secolo, nelle quali sono contenute alcune parole in arabo. Nelle ricette vi sono indicazioni per la lavorazione a niello, per la lavorazione dell’oro e per la saldatura che presentano alcune vaghe somiglianze con analoghe ricette contenute nel Liber sacerdotum di Giovanni di Alessandria. Inoltre, anche se la copia è andata perduta, grazie a un riferimento in un catalogo dei libri alchemici del XIII secolo presente nel convento di San Procolo a Bologna, si hanno notizie di un’edizione della Mappae Clavicula tradotta dall’arabo da un certo Roberto (Mappae clavicula per Robertum traslate de arabico on latinum qui incipit) che potrebbe essere identificato con il già citato traduttore Roberto di Chester, arcidiacono di Pamplona.
In generale, quindi, possiamo concludere che anche l’alchimia, come il resto delle scienze arabe, si diffonde in Europa attraverso quei centri di commistione e contaminazione culturale che sono la Sicilia e la Spagna. Per i secoli XI e XII, più che di un’assimilazione si deve parlare di una lenta preparazione del sostrato culturale a partire dal quale, nel secolo successivo, sono prodotte le prime opere originali di alchimisti latini; secondo la tradizione, l’opera più antica si deve a Michele Scoto, medico presso la corte di Federico II. Oltre alla realizzazione di importanti traduzioni dall’arabo, Scoto scrive un’Ars Alkimiae e uno dei vari Lumen luminum, un trattato alchemico noto anche con il titolo De perfecto magisterio. Compilato nella Spagna islamica, il trattato viene talvolta attribuito sia ad Aristotele che ad al-Razi. La fama di Michele Scoto come mago è tale che gli è valso un posto nell’ottavo cerchio dell’Inferno nella Divina Commedia di Dante Alighieri (Inf. XX, vv. 116-117).
Tra il 1140 e il 1150, nello stesso periodo in cui viene tradotto il Testamentum di Morienus, probabilmente durante un soggiorno a Tarazona, nella Spagna del Nord, Ugo di Santalla traduce il Kitab Sirr al-haliqua di Balinus (Apollonio di Tiana) con il titolo latino di Liber secretis naturae, nel quale è contenuta anche una versione della Tabula Smaragdina di Ermete Trismegisto. Uno dei traduttori più prolifici del XIII secolo, Gerardo da Cremona, – al quale sono attribuite non meno di 76 traduzioni, tra le quali anche il Canone di medicina di Avicenna –, traduce opere alchemiche come il Liber divinitatis de septuaginta (IX sec.) attribuito a Jabir, il Liber de aluminibus et salibus (X sec.) e il Lumen luminum attribuiti ad al-Razi. La maggior parte delle traduzioni di testi alchemici in nostro possesso è anonima ed è presumibile che gran parte dei testi degli alchimisti arabi sia stata tradotta entro la fine del XII secolo.
La diffusione in Occidente del Testamentum di Morienus offre prospettive epistemologiche inedite, che trascendono la dicotomia tra arti liberali e meccaniche solitamente attribuita alla produzione letteraria dei filosofi latini. Per Morienus l’alchimia si configura come una filosofia finalizzata alla produzione di un oggetto reale, la pietra filosofale, ma diversamente da quanto ci si aspetterebbe da un manuale tecnico che illustra un processo operativo, nel Testamentum le fasi pratiche per la realizzazione della grande opera sono inserite in un contesto teorico oscuro, dove l’oggetto che si intende produrre rimane avvolto in un’aura misteriosa ed enigmatica: infatti l’alchimia è un’arte che insegna a trasformare le sostanze naturali e l’artefice è visto come un creatore di sostanze che affida il proprio sapere ai libri, oscurandolo tuttavia con artifici linguistici accessibili soltanto agli iniziati.
Tra il X e il XII secolo la conoscenza del mondo naturale dipende essenzialmente da opere come la Naturalis Historia di Plinio, il De natura rerum di Isidoro di Siviglia e dagli erbari e i lapidari importati dall’area bizantina. Il carattere ibrido dell’alchimia, che spazia dal piano delle operazioni tecnico-pratiche a quello della teoria, sconfinando talvolta in concezioni di tipo esoterico e mistico, ne rende difficile l’assimilazione nelle gerarchie del sapere medievali, e proprio questa difficoltà a trovare una collocazione precisa tra le arti liberali porta l’alchimia a essere collocata tra le scienze della natura (Gundisalvi) o tra quelle astrologiche (Daniele di Morley).
Questa ambiguità epistemologica si complica ulteriormente per il fatto che l’alchimia non compare in nessuno scritto di Aristotele, il quale fa soltanto un accenno al tema dei metalli e della loro generazione in conclusione del terzo libro dei Meteorologica, ripromettendosi di tornare successivamente sull’argomento in un’opera interamente dedicata al mondo minerale, oggi perduta o mai compiuta. I primi tre libri dei Meteorologica sono tradotti in latino da Gerardo da Cremona (traslatio vetus), mentre il quarto libro, che si occupa della materia e delle sue trasformazioni, viene tradotto in latino e unito agli altri solo successivamente da Enrico Aristippo, arcidiacono di Catania. Alla fine del XII secolo l’inglese Alfredo di Sareshel (Alfredo Anglico), il primo commentatore dei Meteorologica, per colmare la lacuna sul mondo minerale presente nell’opera aristotelica, integra la traslatio vetus con un capitolo intitolato De mineralibus, che viene scambiato dai contemporanei per un’opera originale di Aristotele. In realtà si tratta del riassunto del Kitab al Shifa’ di Avicenna, noto in Occidente col titolo di De congelatione et conglutinatione lapidum, nel quale il medico persiano espone la sua mineralogia e le sue idee contrarie alla trasmutazione. Questo fraintendimento, che attribuisce ad Aristotele la posizione antitrasmutazionista di Avicenna, viene ulteriormente complicato dalla presenza anche di alcune opere alchemiche, come il De perfecto magisterio, ritenute come originali dello Stagirita.
Nel XII secolo fa la comparsa in Europa un trattato dal titolo Secreta Hermetis philosophi inventoris metallorum secundum mutacionis naturam nel quale vengono esposti in una forma rielaborata, che assume toni quasi profetici, i precetti teorico-pratici contenuti nella Tabula Smaragdina di Ermete Trismegisto. Il trattato si apre con l’illustrazione di un disegno cosmologico nel quale viene posta una stretta dipendenza tra le cose del mondo sublunare e le forze di natura celeste emanate dai pianeti. La corrispondenza tra i metalli e i pianeti (argento vivo-Mercurio; stagno-Giove; ferro-Marte; oro-Sole; argento-Luna; rame-Venere) costituisce la prima cosa da prendere in considerazione quando si tenta di attuare il processo di trasmutazione, perché è attraverso di essa che si possono conoscere le qualità elementari da cui dipendono le proprietà sensibili dei metalli. Il processo di trasmutazione consiste nel ripercorrere a ritroso gli stadi che determinano la generazione del metallo fino ad arrivare a uno stato indifferenziato della materia. Tale stato costituisce la radice comune di tutti i metalli e a partire da esso è poi possibile ripercorrere gli stadi della generazione naturale, cercando di controllare il processo di mistione degli elementi in modo che gli influssi astrali portino alla formazione delle qualità caratteristiche di un nuovo metallo.
Secondo le teorie ermetiche, le proprietà dei metalli dipendono da una gradazione delle qualità primarie intrinseche al metallo che determinano la generazione di quelle esterne e percepibili ai sensi. Questa teoria dei “gradi di qualità”, per la quale le differenze specifiche tra i metalli dipendono dal grado con cui le qualità primarie (caldo, freddo, secco e umido) agiscono sulla materia prima, viene accolta molto positivamente dagli alchimisti latini del XIII secolo. Secondo questa teoria ciascun corpo materiale è composto dai quattro elementi ma uno soltanto conferisce al corpo le sue qualità sensibili, mentre gli altri sono presenti con un grado di attuazione inferiore e la loro azione è occulta. Per questo motivo, ad esempio, il fuoco che noi tocchiamo non è l’elemento fuoco nel suo massimo grado di purezza ma una sostanza ignea dove questo elemento è predominante. Sulla base di questa idea gli alchimisti latini sviluppano una teoria secondo la quale i metalli, per essere trasmutati, devono essere prima scomposti nei loro costituenti primi e quindi miscelati nuovamente secondo una diversa proporzione, in modo da ottenere un metallo con un grado di perfezione superiore.
Nei Secreta Hermetis è presente anche uno dei primi tentativi di classificazione dei sali nel quale si individuano sette sostanze saline diverse, tre pure e quattro composte (sale armoniaco, sale comune, sal gemma, sal nitro, sale di talco, sale alkali e sale elembrot). Le diverse caratteristiche fisiche dei sali sono spiegate sulla base di una teoria dei gradi simile a quella dei metalli: proprietà come la porosità, la durezza e il colore possono essere in qualche modo quantificate sul modello dell’incidenza delle qualità primarie nella determinazione delle sostanze metalliche e, quindi, come un metallo può essere caratterizzato ad esempio da due gradi di freddo e tre di umidità, così un sale può essere poroso al quarto grado, duro al terzo e con un ’intensità di giallo al secondo.
Un’altra opera che condiziona notevolmente lo sviluppo dell’alchimia occidentale è il De perfecto magisterio che, attribuito ad Aristotele, si diffonde in Europa grazie alla traduzione di Gerardo da Cremona. Noto anche come Lumen luminum, esso raccoglie in realtà un certo numero di testi riconducibili a diverse linee dell’alchimia islamica risalenti a Balinus, Jabir e al-Razi. Il trattato è celebre perché in una copia del XIII secolo sono presenti i primi scritti attribuiti ad autori latini come Frate Elia e Michele Scoto.
L’argomento principale del De perfecto Magistero è la produzione dell’aqua vitae, una sostanza dalle proprietà speciali caratterizzata dallo splendore cristallino e da un alto grado di penetrazione che le conferisce virtù curative e rigeneratrici capaci di alterare i processi di corruzione e di generazione delle sostanze. Per quanto riguarda la trasmutazione dei metalli il De perfecto magisterio ripropone le teorie e le cosmologie di matrice ermetica, nelle quali i metalli sono presentati come sostanze dotate di proprietà manifeste o occulte, dalle cui azioni dipende la generazione della specie metallica. Anche in questo caso, come per i Secreta Ermetis, è possibile intervenire nel processo di generazione dei metalli attraverso l’applicazione di specifici elisir che, controllando la generazione delle proprietà fisico-chimiche, consentono di ottenere il grado di perfezione desiderato. La teoria dell’elisir esposta in questo trattato si basa sopra una dottrina dei quattro spiriti fondamentali dell’argento vivo, dello zolfo, dell’arsenico e del sale armonico che, nella tradizione alchemica araba, è sviluppata da Razi, il quale per primo ha introdotto il sale tra i principi primi alla base della generazione metallica (zolfo, mercurio, sale). Il De perfecto magistero inoltre contribuisce anche alla diffusione di idee cosmologiche e temi ermetici, come la dinamica occulto-manifesto delle qualità primarie e il tema del carattere femminile e maschile dei corpi, che sono concetti non appartenenti né all’opera di al-Razi né, tanto meno, a quella aristotelica. È per conferire autorità a tali teorie, frutto delle principali linee di ricerca arabe, che il De perfecto magistero viene attribuito ad Aristotele, massima autorità filosofica dell’epoca.