Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’invenzione della regia caratterizza il profondo mutamento del teatro nel Novecento, benché talvolta, volgendosi indietro, siano stati individuati precedenti storici dell’uno o dell’altro dei suoi aspetti. In Italia, si è sviluppata più lentamente rispetto al resto d’Europa, e si è affermata definitivamente solo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Può riferirsi alla regia tutto ciò che compete alla cura per l’insieme dello spettacolo. È quindi impossibile definirne il concetto in termini generali, senza rischiare di forzarne e limitarne la multiforme realtà. Comprende una gamma che va dal semplice coordinamento scenico alla creazione autonoma. Ma non va dimenticato che nel suo complesso la regia è stata il perno e la spinta per ogni mutamento profondo nel teatro del XX secolo.
Da Pirandello alla nascita della regia di Stanislavskij, Copeau, Artaud e Brecht
Eduardo De Filippo
Natale in casa Cupiello
CONCETTA (entra dalla destra con passo cauto; indossa una sottana di cotone bianco e ha sulle spalle uno scialletto di lana; ai piedi un paio di pantofole realizzate con un vecchio paio di scarpe del marito. Reca in una mano una fumante tazza di caffè, e nell’altra una brocca d’acqua. Mezza assonnata si avvicina al comò, posa la tazza, poi va a mettere la brocca accanto al lavabo; va al balcone e apre le imposte; torna al comò, prende la tazza e l’appoggia sul comodino. Con tono di voce monotono, abitudinario, cerca di svegliare il marito) Lucarie’, Lucarie’... scétate songh’ ’e nnove! (dopo una piccola pausa, torna alla carica) Lucarie’, Lucarie’... scétate songh’ ’e nnove. (Luca grugnisce e si rigira su se stesso, riprendendo sonno. La moglie insiste) Lucarie’, Lucarie’, scétate songh’ ’e nnove.
LUCA (svegliandosi di soprassalto) Ah! (farfuglia) Songh’ ’e nnove...
CONCETTA Pìgliate ’o ccafè.
Eduardo De Filippo, Natale in casa Cupiello, Torino, Einaudi, 1972
Nel teatro, la regia ha a che vedere con le attività e le conoscenze che riguardano il lavoro d’insieme dello spettacolo. Ma la regia è più di una pratica teatrale, e ben più di un mestiere: è stata la conquista del teatro del Novecento. Ne condensa l’essenza, l’immagine, l’ossatura, la propensione alla rivolta. È attraverso la regia, e in particolare attraverso la figura del regista, che le attività teatrali novecentesche hanno potuto ramificarsi in direzioni tanto diverse sia per quanto riguarda le tecniche che per quanto riguarda il senso, l’uso e il valore del teatro. Forse la regia non avrebbe potuto acquisire una importanza così grande se fin dai suoi inizi, al nascere del XX secolo, non avesse avuto confini labili, che hanno reso impossibile anche in seguito definire cosa possa e cosa non possa essere considerato attinente a essa. Almeno per quel che riguarda lo spettacolo del Novecento, può essere compresa nella nozione di regia ogni forma di direzione che sia inclusa tra i due estremi del più elementare lavoro di coordinamento, da una parte, e, dall’altra, di veri e propri prototipi di un teatro completamente rinnovato nella sua estetica e nelle sue pubbliche funzioni.
Quando la regia appare, è sentita come una novità rivoluzionaria e una necessità impellente, ma anche come una proposta non sempre precisata, ma multiforme, indeterminata nei confini, che spesso sembra coniugare una tendenza all’estremismo con l’accettazione indifferente al proprio interno di realtà disparate.
Con il termine "regia" ci si riferisce quindi a un nuovo modo di fare e di pensare il teatro nato nei primi anni del Novecento che implica, da una parte, una presenza creatrice dominante e maieutica e, dall’altra, unità e coerenza tra le diverse componenti della messinscena.
Prima lo spettacolo era altro. Si può immaginarlo come una scatola, fatta di spazio (lo spazio scenico), di tempo (la durata dello spettacolo) e di una storia, che dava una parvenza di unità a un contenuto composto da materiali non collegati tra loro, tra cui potevano essere comprese anche singole opere d’arte, dall’esibizione di un grande attore alla qualità di un testo letterario o di una scenografia. Per tutto il corso della storia del teatro si sono ripetute a più riprese le richieste e i tentativi di trasformare questo "contenitore" in una unione armonica tra più arti.
Ciò che caratterizza il nuovo spettacolo novecentesco "di regia" è, invece, il suo carattere di opera d’arte in sé compiuta e autonoma. Un elemento materiale determinante per questo salto di livello estetico è costituito dalle nuove possibilità illuminotecniche permesse dall’elettricità, che consente di scolpire lo spazio, di creare sfumature di colore e coloriture emotive. È determinante nel trasformare lo spettacolo in un’opera d’arte visiva. Ma l’elettricità pone anche le basi per un nuovo modo di lavorare sulle azioni degli attori, dando la possibilità, a differenza delle luci della ribalta, di sfruttare il palcoscenico in tutta la sua profondità, quindi di operare sulla simultaneità e su microrelazioni che possono dar vita a veri e propri nodi complessi di significato.
Nel passaggio dello spettacolo da "contenitore" a "opera", tra fine Ottocento e inizio Novecento, operano personalità e tendenze tra loro profondamente diverse. È una compresenza che spiega la multiformità di aspetti che prenderà la regia. Sembra determinante, ad esempio, il moltiplicarsi di "teatrini d’arte", teatri spesso minori, ma diretti da personalità culturalmente e artisticamente vivacissime, come è stato il caso della compagnia dei Meininger, di Otto Brahm, Aurélien Lugné-Poë o André Antoine, di Harley Granville-Barker, o di Luigi Pirandello e del suo Teatro d’Arte di Roma. Sono stati gli artefici di un miglioramento dello spettacolo dal punto di vista della coerenza letteraria, storica e visiva. Si è parlato, per essi, di "dimensione protoregistica".
Un vero filo di continuità tra il teatro del passato e il nuovo teatro è stato invece il lavoro di alcuni esponenti del vecchio capocomicato – come ad esempio il grande attore inglese Henry Irving o il capocomico italiano Virgilio Talli –, che, con la loro azione di armonizzazione dell’apparato visivo o del lavoro degli attori, hanno saputo farsi precoci interpreti dei desideri di cambiamento. Non va neppure sottovalutato, in particolare in Italia, il peso di alcuni direttori di nuovo tipo, come Ettore Giannini, attenti ai valori letterari del testo come all’importanza dell’insieme, che hanno però lavorato all’interno di compagnie d’attore ancora di tipo ottocentesco.
In quest’ottica viene ribadita o riscoperta l’importanza, nella storia, di alcuni precedenti storici di lavoro teatrale complessivamente condizionato da personalità eccezionali e dominanti, come Goethe a Weimar o Wagner a Bayreuth.
All’interno del complesso insieme di tendenze e desideri che si ramifica per circa cinquant’anni, dalla fine del XIX secolo alla prima metà del XX, un vero salto logico nel modo di pensare al teatro è però costituito dall’opera dei cosiddetti "padri" della regia teatrale: individualità fortemente anomale per la loro epoca, legate tra loro da relazioni personali talvolta difficili, ma forti, e da un bisogno estremo di trasformare il lavoro teatrale. Basterà ricordare i nomi di Konstantin Stanislavskij, Georg Fuchs, Adolphe Appia, Edward Gordon Craig, Vsevolod Mejerchol’d, Evgenij Vachtangov, Aleksandr Tairov, Jacques Copeau, Max Reinhardt Erwin Piscator, Antonin Artaud, e di Bertolt Brecht con il suo Berliner Ensemble. Pur venendo spesso dall’interno del teatro (in quanto attori, scenografi, letterati), hanno avuto la forza di concepire una visione teorica e una pratica integralmente nuove. Sono stati chiamati visionari e utopisti. Furono personalità d’eccezione, che determinarono una profonda frattura nella storia del teatro.
Il problema che il gruppo dei "padri" nel suo insieme si pone è sì quello di una nuova unità d’arte dello spettacolo, ma di una unità che tenga conto delle peculiarità del lavoro teatrale, e sia quindi organica, e non solo estetica. In quest’ottica lo spettacolo costituisce certo un’opera d’arte autonoma ma è insieme anche qualcosa di più complesso, è un cubo di vita nuova, un frammento di una nuova natura, artificiale, però inventata sulla base dello studio dei principi profondi e occulti della vita. Il teatro diventa "un’opera d’arte vivente", come l’ha chiamata Adolphe Appia, un atto di sfida e di ribellione estrema, esistenziale e tecnica, in cui trovano particolare attenzione il problema della manipolazione e della trasformazione dello spazio, del tempo e del corpo degli attori.
Un’arte delle relazioni
Costruire uno spettacolo non solo come un’opera ma come un organismo vivente, un lembo di natura differente, comporta in primo luogo un cambiamento tecnico: lo spostamento dell’interesse dall’elaborazione degli elementi base dello spettacolo (l’arte degli attori, il testo, le luci, le scene…) al lavoro sulle relazioni tra i diversi elementi scenici. Sia da un punto di vista teorico che pratico è il lavoro sulle relazioni e la ricerca di sistemi di relazioni meno ovvi di quelli tra testo, azione, interpretazione, a occupare lo spazio maggiore nell’opera dei grandi maestri della regia.
Proponendo nei loro libri una visione dello spettacolo del futuro, i padri della regia si concentrano sui problemi del ritmo, del rapporto tra il movimento degli attori e le scenografie, dei diversi tipi di movimento possibile, dei modi di creare un movimento dell’intero corpo scenico, e non solo dei singoli attori. Fondamentale nel loro lavoro è anche il rapporto con alcuni autori particolari, che costruiscono anch’essi degli universi teatrali labirintici, in primo luogo Shakespeare e Ibsen. Solo secondariamente, i "padri" si sono fermati sulla regia come mestiere e sulla pur evidente esigenza di un nuovo tipo di direttore scenico. Craig o Appia, Stanislavskij o Mejerchol’d, che hanno diffuso tanto del loro pensiero e della loro opera attraverso i libri, non sembrano particolarmente interessati a precisare cosa non possa essere definito come spettacolo di regia. Gran parte dell’essenza del loro lavoro è passata attraverso l’esempio e quasi il contagio diretto. Il caso, o catastrofi storiche come il nazismo e lo stalinismo, e le loro distruzioni culturali, hanno fatto sì che spesso la trasmissione di questa essenza risultasse interrotta, provocando, come mostra il caso italiano, discussioni e interrogativi.
L’Europa e l’Italia
In Europa, la regia, come teoria e come pratica, si è radicata in trent’anni. Data simbolica della sua nascita può essere considerata il 1898, l’anno in cui Stanislavskij e Nemirovic-Dancenko fondano il Teatro d’Arte di Mosca.
Seguiranno anni di libri fondamentali e di spettacoli memorabili. Ma a permettere la diffusione della regia è stata soprattutto la straordinaria stagione del teatro russo degli anni successivi alla Rivoluzione, segnata da una parte da uomini come Stanislavskij e Mejerchol’d, o Vachtangov, Tairov, Evreinov, e, dall’altra, da una capillare diffusione in tutta l’Unione Sovietica di un nuovo modo di fare e pensare teatro. Alla fine degli anni Quaranta, la regia è un dato acquisito ovunque.
Con l’eccezione dell’Italia. In Italia la grande stagione della prima regia venne a mancare completamente. Ci furono alcuni direttori impegnati a curare lo spettacolo nel suo complesso. Ci furono alcuni sperimentalismi, interessanti ma marginali – come quello di Anton Giulio Bragaglia o del teatro futurista. Ci fu il tentativo, troppo breve per lasciare tracce stabili, di Luigi Pirandello e del suo Teatro d’Arte di Roma (1925-1928). E ci fu, soprattutto, una grande discussione teorica, in gran parte a opera del critico e storico del teatro Silvio d’Amico, sulla necessità di un ammodernamento della scena italiana che prendesse atto della acquisizione, recente ma ormai diffusissima, del nuovo mestiere della regia. In particolare, nel 1934 il convegno Volta, organizzato da Silvio d’Amico, ospitò molti protagonisti della prima stagione europea. Nel 1935 venne inoltre fondata in Italia (sempre su sua sollecitazione) l’Accademia d’Arte Drammatica, una scuola di stato destinata a formare tanto attori quanto registi. Alcuni dei registi che hanno segnato il teatro italiano del secondo Novecento, da Giorgio de Lullo a Luca Ronconi, da Carmelo Bene a Carlo Cecchi, partiranno da una formazione d’attore all’interno dell’Accademia d’Arte Drammatica.
Una vera e propria data di inizio della regia italiana può essere fatta risalire solo al secondo dopoguerra, con due date simboliche importanti: il 1947, con la fondazione del Piccolo Teatro di Milano da parte di Giorgio Strehler e di Paolo Grassi, e, poco prima, gli spettacoli di Luchino Visconti, a partire da Parenti terribili del 1945.
I motivi della differenza italiana sono stati identificati soprattutto nella presenza di un teatro d’attore di stampo ottocentesco particolarmente forte e strutturato, che ha reso non solo meno possibile, ma forse anche meno impellente, la necessità di un cambiamento. In Italia sono rimaste assenti tutte e tre le caratteristiche che in altri Paesi hanno permesso o posto le basi alla nascita della regia, e cioè l’esistenza di spettacoli costruiti in maniera non transitoria, ma tale da durare per una o più stagioni (come accadeva in Inghilterra già a fine Ottocento, e come normalmente avveniva nel Teatro d’Opera); la nascita di un teatro stabilmente sovvenzionato (come in Russia dopo la rivoluzione); e soprattutto casi di presenze di lunga durata, quindi tali da permettere la nascita di una piccola tradizione (basti pensare all’importanza della durata nel lavoro del Teatro d’Arte a Mosca, o della multiforme attività di Copeau in Francia, non solo per i risultati artistici, ma anche per quel che riguarda le scuole, la pedagogia, gli imitatori). Certo è che in Italia, come ha sottolineato lo studioso Claudio Meldolesi, le pulsioni originarie dei primi registi si sono disperse in fenomeni più marginali. Il fascismo, da parte sua, pose le basi molto più per una normalizzazione anche burocratica e organizzativa del lavoro degli attori che per un teatro sovvenzionato. Per tutti questi motivi, la prima generazione di registi italiani nasce solo nel secondo dopoguerra, e nasce sotto il segno di una perdita, di una trasmissione interrotta: come se la pur ricca discussione teorica non avesse potuto trapiantare in Italia anche le pulsioni più complesse e profonde della prima stagione europea.
La prima generazione italiana: Strehler, Grassi, Costa e Visconti
In Italia la pratica della regia è il frutto dell’operato di un’unica generazione, costituita da persone nate negli anni Venti e cresciute durante il Fascismo: Giorgio Strehler, Paolo Grassi, Vito Pandolfi, Gerardo Guerrieri, Ruggero Jacobbi, Luciano Lucignani, Luigi Squarzina, Vittorio Gassman, Luciano Salce, Adolfo Celi. Nel dopoguerra hanno tutti meno di 30 anni.
Non alternativa, ma complementare rispetto alla prima generazione, è l’opera di Orazio Costa, e soprattutto quella di Luchino Visconti, che fu non solo un regista di grande raffinatezza intellettuale, ma forse anche il più interessato a un vero lavoro con gli attori, il più capace di leggere le loro potenzialità nascoste. Visconti era dotato di capacità tecniche inusuali, di una conoscenza musicale che lo avvicina ai grandi maestri della regia della Russia, a Mejerchol’d e a Stanislavskij, e di una cura ossessiva del dettaglio, non per gusto di lusso o di realismo, ma per lucida consapevolezza del peso determinante dei particolari nella costruzione della "vita scenica".
Il volto particolare della prima stagione della regia italiana nel suo complesso fu quello di una "regia critica", cioè di una mediazione rispetto al testo letterario. Si tratta di un tema che non è affatto estraneo alla grande regia europea, ma che in Italia lascia fuori gran parte della altrettanto fondamentale pulsione verso l’organicità, verso la creazione di uno spettacolo come unità organica, come costruzione di una differente natura, che aveva caratterizzato la nascita della regia in Europa nei primi anni del Novecento.
Ambiguità del concetto di regia
La regia, ha scritto Luigi Squarzina, è un romanzo con un albero genealogico complicato e discusso. Una ramificazione ininterrotta. Il nuovo spettacolo teatrale novecentesco è nato da un fascio di impulsi e di istanze diverse e persino contraddittorie, alcune delle quali integralmente nuove (come quella di un teatro come opera d’arte, sì, ma vivente), altre antiche, e costantemente ripetute, come la richiesta di una direzione più intellettuale, o la concezione dello spettacolo come armonica unione tra arti diverse.
Anche il tipo di lavoro messo a punto dai primi registi, il lavoro sulle relazioni, è per sua natura tale da non definire nettamente quali possano essere considerati i confini della regia. Infatti, si tratta di un tipo di lavoro che spazia dalla ricerca di una coerenza storica o letteraria o visiva (se ci si ferma alle relazioni più ovvie, tra testo e azioni, o tra un testo e il suo contesto storico), per arrivare fino a una tessitura di intrecci molto più complessi e sorprendenti, paradossali, minuti, imprevedibili.
In uno spettacolo "di regia" la qualità è data dal numero, dalla imprevedibilità e dalla fantasia delle gerarchie di relazioni messe in gioco, dalla loro moltiplicazione: possono essere relazioni tra le diverse parti dei corpi dei diversi attori; tra le scene e il soggetto; tra le scene e i costumi; tra il testo e le luci; tra significati occulti e significati palesi di un testo; tra le parole e le musiche; tra una parola e un gesto di un attore; tra la parola di un attore e il gesto di un altro; tra movimento e scenografia; tra tempo e movimento.
Il regista
Il nuovo mestiere del regista, a cui spesso ci si riferisce come al demiurgo o al nuovo "signore" delle scene, ha finito per diventare il simbolo del cambiamento novecentesco. Attraverso la presenza dei registi, creatori non solo di opere ma di sensi e di valori, nel teatro hanno potuto affluire anche problematiche connesse alla pedagogia, all’etica, alla spiritualità, alla tecnica, alla funzione sociale, ai bisogni e al senso del teatro. Le grandi visioni del teatro, nel Novecento, si materializzano nel lavoro e negli scritti dei registi non meno di quanto si manifestino nei testi drammatici di Cechov, di Pirandello, Brecht, Beckett o Genet.
Attraverso la figura del regista, quasi come allargamento dell’idea di creare uno spettacolo come un frammento di vita organica nuova, si manifesta anche la volontà di edificare teatri che si pongano come veri e propri mondi alternativi. Per tutto il XX secolo – dagli Studi dei grandi teatri sovietici degli anni Venti e Trenta ai numerosi Teatri-Laboratorio della seconda metà del Novecento – si snoda questo fiume problematico, parallelo rispetto alla questione della regia in senso stretto, ma con profonde ed evidenti conseguenze sul modo di concepire e di creare lo spettacolo.
Ramificazioni della regia: Grotowski, Brook, Wilson, Barba, Ronconi, Mnouchkine, Beck e Kantor
A partire dalla metà del XX secolo, e ancora di più dalla fine degli anni Sessanta, la moltiplicazione di modi diversi di fare e di pensare teatro fa emergere con particolare evidenza come per regia non sia possibile intendere un fenomeno unitario, e un solo modo di lavorare. È difficile immaginare che una sola categoria possa riunire arti così diverse tra loro come quelle di Strehler, di Peter Stein, di Jerzy Grotowski, di Luca Ronconi, di Peter Brook, di Robert Wilson, di Eugenio Barba, di Eduardo De Filippo, e non per differenze stilistiche ma per le modalità del processo di creazione degli spettacoli e per le ricadute politiche ed esistenziali del lavoro nel teatro.
Di particolare rilevanza è stato l’esempio di registi che si sono posti fuori dai confini del sistema teatrale, e che però hanno saputo mettere in atto un tipo di lavoro complesso e nuovo anche nella formazione degli attori e nell’organizzazione dell’ensemble, riagganciandosi al tempo stesso a problemi e tematiche proprie alla prima stagione della regia: basti pensare al lavoro del Living Theatre di Julian Beck e di Judith Malina, del Teatr Laboratorium di Grotowski, dell’Odin Teatret, di Ariane Mnouchkine e del suo Théâtre du Soleil, del Centre International de Créations Théâtrales di Brook o di Eimuntas Nekrosius. Oltre a questi esempi celebri, va considerata anche l’esistenza di numerosi gruppi e formazioni teatrali che si sono mossi sul loro esempio e sulle loro tracce in maniera più oscura ma capillare, e quindi altrettanto efficace.
Un modo di pensare alla regia molto lontano da questo può essere esemplificato da quei registi che hanno stabilito come radice prioritaria per lo spettacolo un rapporto preferenziale non con gli attori ma con gli autori che sceglievano di mettere in scena, con la loro poesia e i loro contesti storici – registi, per citare solo qualche nome, come Jean Vilar, Luchino Visconti, Kazimierz Dejmek, Orson Welles, Otomar Krejca, Ingmar Bergman, Peter Stein o Luca Ronconi –. Ma anche nel rapporto con la drammaturgia le tipologie di registi si moltiplicano: a volte il regista è colui che si fa anche autore della drammaturgia dello spettacolo (come il già citato Eugenio Barba) o che instaura un tipo di rapporto particolare, sul campo, con un drammaturgo (come ha fatto Brook).
Sempre di regia si parla anche per un tipo di lavoro completamente differente, com’è il caso di attori registi di se stessi, pur tra loro diversissimi, da Carmelo Bene a Eduardo De Filippo, o Dario Fo, o perfino di attori protagonisti il cui lavoro registico è in realtà più vicino al vecchio capocomicato che alla "regia".
Anche dal punto di vista del rapporto con gli attori, la funzione del regista può cambiare radicalmente natura. Gli esempi più estremi e forse più interessanti si hanno tra coloro che, come abbiamo visto, si sono posti volutamente fuori dalla "normalità" del teatro, ma non solo. Regista può essere dunque colui che crea un rapporto di lunga durata con un gruppo particolare di attori, a volte fondato su comuni esigenze più spirituali che artistiche (com’è stato il caso della seconda parte della vita tanto di Grotowski quanto di Brook). Oppure (come nel caso di Julian Beck, Judith Malina e del loro Living Theatre) si è tentata la strada di una regia collettiva. A volte, il regista di teatro si è posto in termini simili a quelli del regista cinematografico, capo di una provvisoria troupe che si riunisce per dar vita a uno spettacolo di cui egli è l’unico autore. A volte, invece, è stato il leader e il fondatore di un gruppo o di una istituzione teatrale, la cui vita acquisisce una importanza addirittura pari a quella degli spettacoli (come nel caso dei già citati Living Theatre, Teatr Laboratorium di Grotowski, Odin Teatret). A volte il fulcro del lavoro di regia (anche qui con evidente collegamento con il lavoro dei primi registi, molti dei quali sono stati scenografi) sembra partire da un impianto visivo – spesso con dei collegamenti tra tempi, ritmi e visione tanto complessi da riuscire a modificare la percezione stessa di chi guarda (come nel caso di Bob Wilson, o di Tadeusz Kantor) – o approfondendo l’indagine tra volumi architettonici e corpi degli attori, come nelle scenografie ma anche nelle messinscene di Josef Svoboda.
Si tratta di differenze che vanno molto al di là delle dissomiglianze stilistiche o del metodo di lavoro. Sono l’esempio della forza metamorfica della regia, una forza che permette di ridefinire continuamente cosa sia il teatro e di tenerlo in trasformazione.