Negli ultimi due anni, la Russia è intervenuta prima in Ucraina, annettendo la Crimea e sostenendo le forze separatiste filorusse nel Donbass, e poi in Siria, lanciando nel settembre 2015 un’operazione militare a sostegno del Presidente Assad e contro l’Is. Per la politica estera russa post-sovietica si tratta di due scenari del tutto inediti.
Con l’annessione unilaterale della penisola crimeana, l’intero assetto europeo del dopo Guerra fredda - caratterizzato da una visione civica della cittadinanza e dall’integrazione progressiva dei paesi dell’Europa orientale nella Nato e nell’Eu – è stato messo radicalmente in discussione: la Russia ha agito in nome di un legame etno-linguistico con la popolazione della Crimea, e ha rivendicato fattivamente una legittimità storico-politica ad opporsi all’eccessiva ingerenza occidentale nel proprio ‘estero vicino’. Riguardo all’operazione in Siria, la Russia non era presente militarmente nel Grande Medio Oriente dal 1989, anno in cui si concluse il ritiro delle truppe dall’Afghanistan.
Nonostante i nuovi scenari, a prevalere sull’innovazione sono però, tuttora, i tratti di continuità che guidano la politica estera russa post-sovietica, in particolare quella putiniana.
L’obiettivo a lungo termine della Russia è uno, chiaro nella teoria, ma in pratica difficile da raggiungere a causa di alcune contraddittorietà: essere membro a tutti gli effetti della comunità internazionale, svolgere al suo interno un ruolo da grande potenza inter pares, fissare però le proprie regole per farne parte. Lo iato tra l’aspirazione al riconoscimento occidentale e il rifiuto di ‘appiattirsi’ su modelli di integrazione affermatisi dopo il 1991 è l’origine di tutte le tensioni con l’Occidente dall’arrivo di Putin a oggi.
Due sono in particolare le maggiori ragioni di scontro con gli Usa e l’Unione Europea. La prima è il contrasto tra come Mosca percepisce il sistema internazionale del dopo Guerra fredda e come invece vorrebbe che fosse. Quello che vede è un sistema che a seguito del crollo del socialismo è stato crescentemente dominato dagli Stati Uniti e ha ignorato ingiustificatamente il peso della Russia nel mondo. Quello a cui aspira è invece un equilibrio multipolare, in cui l’unica condizione per l’ordine globale è una spartizione di sfere di influenza tacitamente concordate tra le grandi potenze, Russia inclusa. La spartizione non ha il fine di dividere il mondo in blocchi impermeabili, ma è per Mosca il criterio che ancora prima dei princìpi definisce le posizioni di partenza, nonché la legittimità a partecipare, degli attori responsabili della gestione di crisi globali o governative nazionali. Concretamente, la Russia ritiene le Repubbliche post-sovietiche (tra tutte, l’Ucraina) degli stati con cui i paesi occidentali non possono relazionarsi senza considerare anche gli interessi e i legami storico-politici ed economici russi con quel paese, con quella élite o con quella comunità. In questo senso, pur nella sua specificità, il caso della Crimea ha la stessa origine delle reazioni russe alle Rivoluzioni colorate in Georgia nel 2003, in Ucraina nel 2004, all’intervento georgiano in Ossezia meridionale nel 2008.
In secondo luogo la Russia, come altri paesi sotto molti aspetti non democratici, ritiene la lotta contro lo status quo in nome della democrazia portato avanti dagli Stati Uniti, in misura minore dall’Europa, illegittimo, dannoso, inaccettabile. Le repliche russe erano state dure dopo l’intervento americano in Iraq nel 2003, il riconoscimento internazionale del Kosovo nel 2008, il sostegno occidentale alle primavera arabe nel 2011, ma non militari. In Medio Oriente oggi la Siria è l’ultima manifestazione della difesa russa dello status quo, con una novità però fondamentale: nessuno ha negato che l’intervento di Mosca, in funzione antiterroristica, fosse necessario. Nonostante l’isolamento internazionale della Russia dovuto alla crisi ucraina, l’Occidente ha bisogno di essere alleggerito del costo politico pagato con il caos in Libia del dopo Gheddafi, con la minaccia del terrorismo, con una guerra civile in Siria al suo quarto anno ancora priva di soluzione e con la conseguente emergenza rifugiati. Avendo come priorità assoluta quella di arginare l’influenza iraniana in Medio Oriente, l’Arabia Saudita da parte sua vede nell’intervento russo il male minore e l’unico argine rimasto dopo lo sfaldamento di credibilità delle iniziative occidentali nella regione. La lotta contro il terrorismo è un altro elemento fondamentale di continuità nella politica estera russa fin dal discorso di Putin al Millennium Summit dell’Un nel 2000, e il principale punto di contatto oggi con gli Stati Uniti e l’Europa. Nel suo essere una battaglia condivisa e sentita dall’intera comunità internazionale, la Russia sa di poter strumentalizzare il tema per intervenire in difesa dei propri interessi. Sebbene il terrorismo sia davvero una minaccia per il paese, è indubbio che l’intervento in Siria le consente di supportare militarmente le forze dell’alleato Assad, di difendere Tartus, sua unica base navale militare sul Mediterraneo, di distrarre l’opinione pubblica nazionale e la comunità internazionale dalla crisi ucraina. Compensando le carenze occidentali diplomatiche e sul terreno, la Russia vuole essere legittimo membro dell’apolitica comunità ‘della civiltà’ contro la barbarie. Di conseguenza, far notare che il modello liberaldemocratico occidentale non solo non è esportabile – lo dimostra la situazione in Medio Oriente - ma nemmeno funzionale. Come nel caso dei negoziati sul nucleare iraniano, infatti, anche in Siria Mosca ha, rispetto alle potenze occidentali, un vantaggio competitivo enorme: non dover rendere conto alla popolazione del proprio operato.