di Alberto Melloni
Il posizionamento della Santa Sede sulla scena internazionale è questione che attraversa tutta la storia delle relazioni internazionali dell’Italia e dell’Europa, con una configurazione particolare dopo il 1870. L’antica ostilità sabauda alla presenza della chiesa cattolica ai tavoli internazionali voleva evitare la ‘internazionalizzazione’ della questione romana: ma non riuscì ad ottenere altro che risentimento e fu parte integrante sia del successo di Benedetto XV, la cui condanna della guerra mondiale come ‘inutile strage’ garantì al papato un rilievo inimmaginato sia della dilazione del trattato la cui stipula fu consegnata al fascismo con le note conseguenze. Dopo il 1929 e fino al termine della seconda guerra mondiale, la neutralità papale (al netto della diatriba postbellica sul ‘silenzio’ di Pio XII durante le persecuzioni razziali) e la presenza del papa in una Roma abbandonata dal potere regio guadagnò un protagonismo inatteso al cattolicesimo della ricostruzione italiana e non solo. Giacché il disegno europeo, pensato da tre statisti che parlavano in tedesco e pensavano in cattolico come Adenauer, De Gasperi e Schuman, che agli occhi papali implicava il sogno di una riconquista cristiana dell’Europa, decolla e si afferma con un protagonismo del cattolicesimo democratico al quale non è estranea la diplomazia vaticana e l’apprendistato multilaterali sta di un Roncalli. Più a valle nel secolo 20, dopo aver dato un contributo decisivo alla soluzione della crisi di Cuba e all’avvio della distensione, la Santa Sede costruisce, attorno alla figura di Agostino Casaroli e del suo articolato gruppo di lavoro, una vera Ostpolitk: fallisce nel tentativo di mediare in Vietnam, ma con la conferenza di Helsinki del 1975 rientra a pieno titolo sulla scena internazionale. Poi, col papato polacco che inizia perché di fatto è quella politica consente all’arcivescovo di Cracovia di venire al concave, la Santa Sede prende una dimensione di presenza immateriale globale che ha un ruolo non piccolo non tanto nella fine del sistema sovietico, ma nel carattere incruento del crollo dell’impero dell’URSS e in settori non meno cruciali, da quelli del Cono Sur a quelli delle guerre dell’area che ormai si estende dall’Afghanistan alla Siria.
Ciò nonostante la rilevanza delle dimensioni religiose nella politica internazionale continua ad essere sottostimata dagli esperti e sempre più spesso anche dagli addetti ai lavori. Essa viene guardata con sguardo superficiale sia per ciò che riguarda l’analisi dei grandi aggregati denominazionali, sia per ciò che concerne l’intelligenza delle movenze politiche di nicchie specifiche (wahhabiti, salafiti e alauiti nell’islam; evangelicali, chiese profetiche, movimenti, in ambito cristiano), sia per ciò che riguarda una grandi chiese dotata di una struttura di rappresentanza internazionale. Ragioni storiche e la più classica ‘ignoratio elenchii’ determinano dunque l’illusione che la politica della Santa Sede sia rilevante perché la diplomazia pontificia porta in giro per il mondo le idee di un monarca globale che fiuta e orienta i tempi. Così non è: la posizione politica della Santa Sede è di così grande impatto – basti pensare cosa sarebbe il mondo se davanti all’insorgenza quaedista il papato avesse assunto toni da crociata anziché farsi antenna di un pacifismo globale – perché raccoglie, filtra e valorizza un insieme di impulsi e voci altrimenti ignorate. Di queste voci e impulsi i suoi nunzi diventano la valvola e il papa l’amplificatore. L’elezione di Jorge Mario Bergoglio al papato nel 2013 segna da questo punto di vista una restaurazione una conferma e una prospettiva.
La restaurazione è quella che ha visto non solo tornare alla segreteria di stato un diplomatico di prima grandezza come Pietro Parolin: uscito di scena Tarcisio Bertone, che di Benedetto XVI era un confidente leale prima che un braccio politico, il sistema delle nunziature ha ritrovato accesso al papa e un dialogo con un superiore che parla la lingua della diplomazia con accento casaroliano.
Uomo dell’accordo col Vietnam, negoziatore discreto con la Cina, Parolin ritorna dall’America Latina dove si era sperato di esiliarlo, con una agenda che restituisce un ruolo al sistema che filtra la nomina dei vescovi e la politica vaticana. La conferma di un ruolo antico e nuovo dei nunzi (la crisi della chiesa non è solo una crisi nella qualità degli offiziali di curia, ma soprattutto una crisi nella qualità dei vescovi) dà il senso che la riforma del governo centrale, nel segno della collegialità e di un esercizio del potere papale spogliato delle costumanze principesche rinascimentali, non si accontenta di re-ingegnerizzare qualche dettaglio, ma sa guardare alla chiesa nel suo insieme.
La prospettiva nuova che papa Francesco porta è scritta nella sua biografia e dunque della sua mentalità. Scegliere un papa non europeo ha comportato l’ascesa al vertice di un realtà mondiale di un uomo che non ha la storia dell’Europa nella sua mentalità: non ha vissuto la catastrofe della Shoah, la rinascita della democrazia, la frattura fra est e ovest, la prossimità allo scacchiere mediorientale, e via dicendo. Dunque dopo il flebile antieuropeismo di Ratzinger, l’a-europeismo di Bergoglio cambia il quadro di un continente che, perfino nelle dimensioni polemiche, poteva sempre contare su Roma come riferimento di ispirazione o di antagonismo. Il Papa argentino, poi, ha in sé un atteggiamento completamente nuovo verso gli Stati Uniti: libero dal debito della seconda guerra mondiale, consapevole del prezzo pagato dal suo continente alla politica di sicurezza nazionale da Nixon a Reagan, ha mostrato da subito avere altri parametri e di considerare la nuova Russia un possibile partner per interventi decisi e spregiudicati, come quella che ha fermato l’attacco alla Siria.
Il papato di Francesco segna dunque una novità che non si esaurisce nello stile fraterno e modesto che il vescovo di Roma usa: è un cambio di paradigma che inciderà e ha già inciso sugli equilibri internazionali, anche se chi dovrebbe dare a questa componente del sistema delle relazioni internazionali il giusto peso – dopo una dozzina d’anni segnati prima dalla malattia di Wojtyła, poi dalla ritrosia di Ratzinger – rischia di aver perso gli strumenti per farlo. E di pagarne politicamente lo scotto.