Seppure in una campagna elettorale dominata dal tema delle tasse e dell’occupazione, la questione energetica ha segnato una delle più evidenti linee di demarcazione tra Barack Obama e Mitt Romney nella corsa alla presidenza. Durante il suo primo mandato, Obama si è dedicato in egual misura ad aumentare la produzione di combustibili fossili e a stimolare la crescita delle rinnovabili. Ha supportato infatti l’estrazione di shale gas (il gas intrappolato nelle rocce a grandi profondità) e avviato nuove trivellazioni nell’Artico. Ma ha anche pompato denaro del governo federale in aziende private che sviluppano tecnologia solare, come la californiana Solyndra (che non è andata bene, fallendo nonostante il sostegno presidenziale). Ha, insomma, evitato di scontentare le lobby del petrolio e del gas coltivando al tempo stesso quelle, più giovani ma che già si fanno sentire, delle rinnovabili. Romney, che da governatore del Massachusetts aveva varato provvedimenti per stimolare la transizione verso forme di energia pulita, ha fatto su queste visibili marce indietro durante la campagna presidenziale e, a differenza di Obama, si è sempre dichiarato contrario a ogni ipotesi di carbon tax (tassa sulle emissioni di anidride carbonica) così come di ‘cap and trade’ (limiti alle emissioni con la possibilità per le industrie di scambiare le quote, come avviene sul mercato europeo delle emissioni).
L’America che si affaccia al secondo mandato di Obama è sempre il paese con il maggior consumo pro capite di energia al mondo, ma può guardare al suo futuro energetico con rinnovato ottimismo. L’innovazione tecnologica ha messo infatti a disposizione del paese risorse energetiche in quantità, fino a poco tempo fa, insperate. Tanto che l’International Energy Agency (Iea) nell’ultima edizione del suo World Energy Outlook, pubblicata il 12 novembre 2012, ha disegnato un quadro a tinte rosee per il paese che ha appena rieletto Barack Obama alla presidenza. Secondo l’Iea, gli Usa si avviano a raggiungere in poco più di due decenni un obiettivo che inseguono più o meno dagli anni Settanta: quello dell’indipendenza dalle importazioni di petrolio.
A consentire questo risultato di enorme portata geopolitica non saranno però le fonti energetiche rinnovabili, come vorrebbero negli stessi States i gruppi ambientalisti, ma nuove tecniche di estrazione di combustibili fossili: petrolio e, soprattutto, gas naturale.
È dagli anni Cinquanta che gli Stati Uniti non estraggono più abbastanza petrolio o carbone per fare fronte alla propria vorace domanda interna di energia, alimentata dalla grande industria così come da un parco automobili che non ha eguali al mondo per voracità. Questo li ha costretti a dipendere sempre più da altri paesi, e non sempre amici: da quelli della Penisola araba ad alcune zone del Sudamerica; e la ricerca del controllo strategico delle estrazioni di petrolio è stata alla base di più di una guerra in cui gli Stati Uniti si sono trovati impegnati negli ultimi decenni. È almeno dagli anni Settanta che ogni presidente americano insegue il sogno della ‘liberazione’ dalle importazioni di petrolio dall’estero. Liberazione che, almeno a parole, Obama ha ricercato anche con gli investimenti nelle rinnovabili (a differenza del suo predecessore). Ma a cambiare le carte in tavola sono stati soprattutto i molti, nuovi giacimenti di petrolio sul territorio e lungo le coste Usa. Si tratta in alcuni casi di giacimenti scoperti grazie a nuove trivellazioni, in altri di riserve già note ma che ora possono essere sfruttate meglio utilizzando la tecnica dell’‘horizontal drilling’ (una perforazione che raggiunge il giacimento lateralmente anziché usando un pozzo verticale, arrivando anche alle riserve di petrolio posizionate in modo meno accessibile) o quella del ‘fracking’ (che libera riserve intrappolate nella rocce frantumando queste ultime con l’iniezione di acqua ad altissime pressioni). Quest’ultima tecnica, inoltre, ha portato a un vero e proprio boom delle estrazioni di ‘shale gas’: gas naturale intrappolato a grandi profondità nelle rocce. Il fracking ha moltiplicato esponenzialmente le riserve sfruttabili di gas naturale negli Stati Uniti, tanto che il peso percentuale di questa risorsa nel mix energetico Usa cresce costantemente, e in prospettiva è destinata a superare il petrolio. Dal 21,6% del 1997, il gas naturale pesa oggi quasi il 30% nella produzione statunitense di energia elettrica, e il dato è in continua crescita.
«Il rinascimento energetico negli Stati Uniti sta ridisegnando la mappa globale dell’energia, con implicazioni per i mercati dell’energia e per il commercio» scrive l’Iea. «Gli Usa, che al momento importano circa il 20% del loro fabbisogno energetico, diventeranno del tutto autosufficienti entro il 2035 grazie alla crescente produzione di petrolio, shale gas e bioenergia, e alla maggiore efficienza energetica dei trasporti. Gli Stati Uniti sono destinati a diventare il primo produttore mondiale di petrolio prima del 2020, superando l’Arabia Saudita fino alla metà degli anni Venti di questo secolo (quando gli arabi dovrebbero riprendere la testa della produzione, se il tasso di scoperta di nuovi giacimenti sarà quello previsto – n.d.r.). Allo stesso tempo, le misure per l’efficienza energetica nel trasporto abbasseranno la domanda domestica, al punto che il Nord America diventerà un esportatore netto di petrolio intorno al 2030» (Iea 2012).
Scenario invidiabile. Ma andrà davvero così? Certo l’improvvisa abbondanza di petrolio e gas ha messo molti di buon umore, ma qualche analista avanza dei dubbi. Secondo diversi esperti, le stime dell’Iea non sarebbero del tutto realistiche. C’è chi, per esempio, non vede come la produzione di petrolio che l’Iea prevede per gli Usa nei prossimi anni (10 milioni di barili al giorno nel 2015, 11,1 milioni nel 2020 che torneranno a scendere a 9,2 milioni nel 2035) possa mai soddisfare la domanda interna americana, che già oggi è di 19 milioni di barili al giorno. L’Iea potrebbe intendere che i barili mancanti arriveranno dal Canada, paese amico e confinante, e che a sua volta beneficia di una grande crescita della produzione petrolifera. Ma anche in questo caso i conti non tornano. Difficilmente il Canada arriverà a quelle quote di produzione, e in ogni caso nulla assicura che nel 2020 non preferisca esportare una parte della sua produzione di petrolio dall’altra parte dell’Atlantico, anziché venderla in via esclusiva agli Stati Uniti. Insomma, diventare per qualche tempo il primo produttore mondiale di petrolio è una cosa, ma essere ‘energeticamente indipendenti’ è tutt’altra, e forse l’Iea ha dato agli Stati Uniti qualche speranza di troppo.
Comunque vada, il boom dello shale gas sta davvero cambiando le regole del gioco nella strategia energetica statunitense. E anche se un combustibile fossile non può per definizione essere considerato ‘pulito’, un risultato già visibile è l’abbassamento delle emissioni di anidride carbonica, per lo meno quelle collegate alla produzione di energia elettrica. Il gas emette infatti meno CO2 rispetto al petrolio, e molta meno rispetto al carbone, che proprio in ragione della crescita del gas sta perdendo rapidamente importanza nel mix energetico statunitense: se nel 1997 la metà dell’energia elettrica nel paese veniva dal carbone, oggi la percentuale è al 36,7% e scende continuamente.
Inevitabilmente, il boom dei nuovi giacimenti di petrolio e gas sta mettendo in ombra la crescita del solare e dell’eolico negli Stati Uniti: una crescita importante, ma ancora fortemente dipendente dai generosi incentivi concessi dal governo federale a chi produce e installa impianti per tecnologie rinnovabili. Incentivi che ora, di fronte a un’improvvisa disponibilità di energia fossile a basso prezzo, molti chiedono a gran voce a Obama di revocare.