La memoria dei bombardamenti nelle regioni del Nord Italia
Recenti contributi storiografici hanno messo in luce la difficoltà incontrata da storici e da associazioni pubbliche nel discutere la guerra e i metodi con cui era avvenuta la liberazione alleata. Solo dagli anni Novanta è emerso un dibattito, spesso diversificato negli intenti e nei protagonisti, finalizzato a riconoscere il lutto collettivo delle comunità colpite dai bombardamenti alleati e a indagare le motivazioni dei bombardieri. In Gran Bretagna, la storia dei bombardamenti effettuati dalla forza aerea tedesca e della resistenza della popolazione civile è diventata parte dell’identità nazionale, grazie a letteratura, film, documentari e insegnamento nelle scuole. Anche se un numero molto maggiore di bombe fu sganciato sull’Italia e un numero simile di civili fu ucciso nei due Paesi, nel nostro Paese è mancata invece un’elaborazione pubblica della memoria dell’evento. Se i bombardamenti non sono stati dimenticati dalle comunità che li subirono, essi sono stati però marginalizzati dalla memoria ufficiale a livello nazionale. Episodi in cui i liberatori uccisero civili innocenti e gli occupanti tedeschi contribuirono a operazioni di salvataggio non si inseriscono facilmente nella narrativa nazionale e ufficiale della Seconda guerra mondiale. Con poche eccezioni, la maggioranza dei monumenti per ricordare le vittime delle incursioni aeree non accusa i bombardieri. Le stragi di civili provocate dal bombardamento strategico americano e britannico sono nella tradizione politica del secondo dopoguerra indicibili. L’antifascismo si trovò quindi spesso a dover ammettere, anche in conseguenza del proprio ruolo all’interno della guerra di liberazione, l’esistenza di una guerra giusta, la cui violenza divenne politicamente «orientabile» (Stragi tedesche e bombardamenti alleati, 2005, p. 9).
Pur in maniera indiretta, alcuni monumenti che ricordano i bombardamenti ne attribuiscono la responsabilità al regime fascista, che aveva portato l’Italia in guerra, o addirittura ai tedeschi. Prima di diventare vittime di pesanti bombardamenti angloamericani, gli italiani e il loro regime erano stati per anni coinvolti in guerre di aggressione, dalla ‘pacificazione’ della Libia all’invasione dell’Etiopia, dell’Albania, della Grecia e di parti della Yugoslavia. Fino al 1943, l’Italia aveva combattuto la stessa guerra della Germania nazista. Come scrive Alessandro Portelli, i bombardamenti alleati furono quindi una risposta all’aggressione italiana; le vittime però erano – personalmente – innocenti: colpevoli in quanto italiani, condannati a morte senza processo per i crimini del loro stato (So much depends on a red bus, or, innocent victims of the liberating gun, «Oral history», 34, 2, 2006, pp. 29-43).
Appena le sconfitte militari e i primi bombardamenti misero in evidenza l’impreparazione del Paese ad affrontare un lungo conflitto, gli italiani iniziarono a diffondere commenti negativi sul regime fascista e sull’alleanza con la Germania. Già dal gennaio 1941, con la caduta di Bardia, di Tobruk e della Cirenaica, nella ‘parte critica’ del Paese (le città industriali del Nord) la gente cominciò ad accusare direttamente Mussolini. Fu però soprattutto dall’autunno del 1942 che la popolazione civile prese le distanze dalla guerra fascista, attratta da una propaganda angloamericana tesa a insinuare fra gli italiani il senso di colpa per aver accettato il fascismo. Questi sentimenti sono oggi ancora vivi e hanno caratterizzato lo sviluppo della memoria dei bombardamenti fin dagli anni della guerra.
Questo contributo esaminerà la costruzione delle diverse memorie dei bombardamenti nelle regioni e in diverse città del Nord Italia, non solo a livello istituzionale ma anche da parte di gruppi interni alla società civile. Nella maggioranza dei casi, le istituzioni locali che si sono occupate di tramandare la memoria dei bombardamenti sono i comuni. Da un punto di vista meno istituzionale e più emotivo, la memoria individuale e collettiva ha teso a focalizzarsi su eventi accaduti in singoli quartieri o città; una memoria regionale dei bombardamenti sembra essersi sviluppata principalmente in Liguria, e, in misura minore, in Emilia-Romagna. Questo saggio indagherà le ragioni di tali differenze, del perché in alcuni casi il contesto sia regionale e in altri municipale. L’arco cronologico trattato va dall’immediato dopoguerra a oggi e le regioni analizzate sono Piemonte, Liguria, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia ed Emilia-Romagna. Il saggio riporterà esempi dalle città e zone industriali più pesantemente bombardate, ma anche da alcune aree non metropolitane (per es. la zona costiera della Liguria, o alcuni paesi lungo le principali linee ferroviarie o in zone di manovra militare).
Il Nord Italia non può in questo caso essere considerato una «macro-regione», ma un «arcipelago di territori, sistemi produttivi, forme del lavoro» (Mainardi 1998, p. 109). Le caratteristiche socio-economiche delle diverse regioni, come le diverse tradizioni politiche locali e i cambiamenti avvenuti dal dopoguerra a oggi, hanno influito sul modo in cui si sono costruite e modificate le memorie della guerra, della Resistenza e dei bombardamenti alleati. Da un punto di vista geografico ed economico anziché istituzionale, più che di regioni si dovrebbe discutere in questo caso di diverse aree del Nord Italia. Durante la Seconda guerra mondiale, la zona meno pesantemente bombardata è la periferia alpina, con le sue valli e le province di Aosta, Trento, Bolzano e Belluno, ora località turistiche prestigiose e luoghi di turismo di massa. Già durante i primi allarmi aerei del 1940, mentre da città come Torino o Milano la polizia politica fascista descriveva i rifugi come luoghi di ritrovo in cui si accusava Mussolini della rovina nazionale, a Trento si notava che, in un rifugio, la popolazione recitava il rosario perché il treno su cui doveva viaggiare il Duce non venisse colpito (Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, DGPS, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, DPP, Divisione Polizia Politica, b. 210, rapporto fiduciario da Trento, 19 giugno 1940). Mentre nelle città più bombardate il culto di Mussolini crollava sotto le incursioni, in quelle più periferiche e isolate al confine con l’Austria esso resisteva più a lungo. Nella Valle d’Aosta, risparmiata quasi completamente dalle bombe, e al confine con la Francia si sviluppò invece un diffuso e organizzato movimento di Resistenza.
La fascia prealpina fu pesantemente bombardata, per diversi motivi e per diversi periodi della guerra: le due città e province industriali di Milano e Torino; la Liguria con l’attività marittima e industriale; le zone montuose con presenza industriale fra Torino e Brescia. La Pianura Padana fu colpita soprattutto lungo la linea ferroviaria Verona-Vicenza-Padova-Mestre; Venezia, centro del turismo culturale internazionale e portatrice di un immaginario europeo ancor prima che veneto, subì un unico bombardamento nella zona del porto nel marzo 1945, mentre la vicina zona industriale di Porto Marghera fu obiettivo delle bombe angloamericane per tutto il periodo del conflitto. Le linee di comunicazione vennero bombardate anche lungo l’asse emiliano, da Bologna e Modena verso Verona-Brennero e verso Padova-Venezia. Lungi dal considerare questi bombardamenti come un episodio regionale, le diverse città del Veneto li ricordano come ferite inflitte alle, e sopportate dalle, singole città. Il bacino del Po, le pianure veneto-friulana ed emiliana (il Polesine e il Ferrarese), zone agricole e di minor interesse militare, subirono bombardamenti tattici in seguito alla rottura della Linea gotica. I bombardamenti delle linee di comunicazione arrivarono anche in Friuli, nelle provincie di Udine e di Trieste. Il centro di Treviso subì, a causa di mancanza di precisione dei piloti, uno dei bombardamenti più devastanti, soprattutto in proporzione al numero di abitanti, della guerra in Italia. Le esperienze all’interno di una stessa regione furono quindi diversificate: per es. i due quinti della popolazione del Piemonte risiedevano nell’area metropolitana industrializzata di Torino, al centro di una regione caratterizzata da grandi estensioni di montagna e collina; i bombardamenti hanno di conseguenza grande spazio nella memoria della guerra torinese, mentre per la regione in complesso si è sviluppata una memoria della Resistenza piemontese.
La frammentazione geografica, socio-economica e politica all’interno di alcune regioni aiuta a spiegare le diverse modalità con cui sono stati ricordati i bombardamenti a livello locale. Nel dopoguerra, la Democrazia cristiana (DC) aveva riempito il vuoto politico lasciato dal crollo del fascismo: il partito cattolico era solido in Veneto, nella Lombardia settentrionale e orientale, in Trentino e in Friuli. Non era così però in altre parti della Lombardia, in Piemonte, in Liguria e in Emilia-Romagna. Per es., mentre in diverse province della Lombardia e in Veneto lo sviluppo economico fu spesso guidato da sindaci-imprenditori democristiani in linea con gli orientamenti politici governativi, in Emilia-Romagna esso si attuò attraverso contrasti tra potere locale e centrale (e mediazioni tra la DC e il Partito Comunista). Questa ‘disomogeneità politica’ ha permesso alla regione di assumere un ruolo attivo nel sostenere l’economia locale: diversamente da alcune aree della Lombardia e dal Veneto, dove le iniziative a favore delle imprese sono di tipo municipale e il ruolo della regione è secondario, in Emilia-Romagna le iniziative economiche e culturali sono spesso promosse da enti regionali (Mainardi 1998, p. 199). Il crollo del sistema partitico della prima repubblica non ha modificato questa tendenza, per cui la disgregazione delle regioni in spazi differenziati rimane più evidente nel Nord-Est che nel Nord-Ovest e nell’Emilia:
In Lombardia camere di commercio e associazioni industriali […] svolgono da decenni un ruolo di coordinamento efficace, equivalente a quello svolto dalla regione in Emilia-Romagna. Nel Veneto e Friuli c’è un vuoto che alcuni propongono di riempire con un progetto, il movimento dei sindaci […]. Un coordinamento di amministrazioni urbane potrebbe tentare di mettere in relazione una economia forte con una società debole. [...] La competizione fra Verona, Padova e Venezia (il cui Comune tiene insieme a fatica la città storica lagunare e Mestre-Marghera) riduce a vuota aspirazione la ‘città regione’ (Mainardi 1998, p. 159).
Tra gli anni Ottanta e Novanta, la crisi istituzionale nella macroregione del Nord ha provocato una spaccatura fra ceti produttivi e classe politica; è venuto meno il sistema di mediazione democristiano prima che potesse profilarsi un modello alternativo (C. Bragaglio, Ragioni e regioni del Nord-Italia. La questione settentrionale tra localismo e federalismo, 2000, p. 139). È soprattutto in quegli anni che iniziarono a prendere vita iniziative pubbliche per ricordare i bombardamenti, con mostre, pubblicazioni locali, commemorazioni di targhe e monumenti. Furono anche gli anni del passaggio dalla centralità di fabbrica alla centralità dell’impresa, con l’aumento della precarietà lavorativa esclusa dalla tutela e dalla rappresentanza sindacale. Con la crisi della «Repubblica fondata sul lavoro» e sulla Resistenza, emerse quindi una memoria, quella dei bombardamenti, che era stata messa in silenzio per circa quarant’anni, e che si concentrò soprattutto in occasione degli anniversari.
In alcuni frangenti, questo comportò il tentativo di mettere in discussione i crimini di guerra compiuti dai vincitori; nella maggioranza dei casi prevalse invece l’idea che, pur indirettamente, i bombardamenti fossero colpa del fascismo. Questa memoria si basa su una percezione diffusa ai tempi della guerra stessa. La propaganda alleata, che accusava Mussolini di irresponsabilità criminale per aver appoggiato i bombardamenti sul Sud dell’Inghilterra nel 1940-41, riuscì a convincere parte dell’opinione pubblica italiana che le incursioni angloamericane fossero una ritorsione inevitabile. Queste argomentazioni, che giustificavano la guerra aerea, si insinuarono nella conversazione quotidiana degli italiani perfino all’interno dei rifugi, come riportavano gli informatori del regime (M. Fincardi, Anglo-American air attacks and the rebirth of public opinion in fascist Italy, in Bombing, states and peoples, 2011, pp. 241-55). Giacomo Retico, uno scrittore della provincia di Brescia, narrò a molti anni di distanza l’esperienza della sua famiglia che si era trasferita per motivi di lavoro nella Lunigiana dopo l’armistizio. Egli ricordò di aver viaggiato su un carro con un gruppo di ragazzi e con il prete del villaggio finché furono costretti a fermarsi a causa di un’incursione aerea. Il prete spiegò ai ragazzi che molti si domandavano perché «gli Alleati ci bombardano»: era perché, continuò, gli italiani stavano pagando per quello che avevano fatto all’Inghilterra nell’estate del 1940. Era inutile fingere, disse: «abbiamo una cattiva coscienza» (G.S. Retico, Paura oltre la Cisa, 2008, p. 127). Un’analisi dei testi apposti alle lapidi e ai monumenti per ricordare le vittime delle incursioni dimostra come questa percezione sia stata prevalente fino a oggi. A partire dagli anni Novanta, memorie di segno opposto apparse in siti web, pubblicazioni locali e iniziative pubbliche hanno però iniziato a complicare il quadro della memoria.
Con l’eccezione di Treviso, la memoria dei bombardamenti nelle città venete è di solito tramandata attraverso un linguaggio generico, che assembra nelle stesse commemorazioni gesta cittadine compiute durante il Risorgimento, la Resistenza e le incursioni aeree. Nella targa commemorativa realizzata dall’amministrazione civica di Verona nel 1995, in occasione del cinquantenario del 25 aprile 1945, la città è rappresentata come un’unica forza indomita che resistette a ogni forma di violenza militare e che fu capace a sua volta di grandi azioni militari. Le vittime dei bombardamenti sono accomunate a quelle dei campi di concentramento nazisti, agli internati militari, ai deportati per motivi politici e razziali; la Resistenza, secondo Risorgimento d’Italia, vide questa città e la sua popolazione protagoniste. L’unico nemico menzionato è il nazista, mentre gli «eserciti stranieri» sono indefiniti. Il rimando a momenti della lotta di liberazione e alle tradizioni risorgimentali implicitamente indica nel tedesco/austriaco l’unico responsabile delle tragedie e delle devastazioni:
Città di nobili tradizioni patriottiche dal Risorgimento alla Seconda Guerra Mondiale più volte vessata da operazioni/militari e da eserciti stranieri, Verona offrì alla resistenza l’olocausto del suo secondo comitato di liberazione nazionale che vi organizzò la guerriglia e venne sterminato nei campi nazisti; il sangue dei suoi concittadini del corpo italiano di liberazione e di quanti volontariamente combatterono lontani dalla patria; il sacrificio degli internati militari nel lager e quello dei deportati politici razziali. L’armistizio dell’8 settembre 1943 vi suscitò la strenua difesa di popolo e di militari dell’8° reggimento artiglieria: il 17 luglio 1944 vide l’audace assalto al carcere degli Scalzi; la notte del 26 aprile 1945 la solidarietà di popolo di Avesa nello sgombero dell’immensa polveriera tedesca, per la salvezza della città. Fedele custode delle sue glorie militari, espresse in numerose decorazioni al valore, non doma dai bombardamenti devastanti, dalle deportazioni, dalle insidie delle varie polizie, dalle repressioni, fucilazioni, distruzioni di intere contrade che colpirono la pianura e la montagna, fu degna protagonista del secondo Risorgimento d’Italia. Verona, settembre 1943-aprile 1945.
Come nel caso di Verona, gli episodi di eroismo della Resistenza a Vicenza sono affiancati (in una targa senza data ma successiva alla decisione del presidente della Repubblica Scalfaro nel 1994 di insignire la città della medaglia d’oro al valore militare per attività partigiana) al sacrificio della popolazione e della città (cittadini e monumenti storici insieme) sotto le bombe; una città che non si arrese «al terrore tedesco». L’unica conseguenza che si può trarre da questa lapide, per chi non conoscesse la storia, è che i bombardamenti, come tutte le altre tragedie dai tempi del Risorgimento in poi, furono opera dei tedeschi. Il riferimento al terrore tedesco segue inoltre immediatamente quello ai bombardamenti:
Comune di Vicenza. Già insignita della massima onorificenza al valor militare per la strenua difesa opposta agli austriaci nel maggio-giugno 1848, la città non smentì mai, nel corso di due guerre mondiali, le sue elevate tradizioni di virtù patriottiche, militari e civili nel periodo della lotta di liberazione. Occupata dalle truppe tedesche costituì subito, fra le sue mura,il primo comitato di resistenza della regione veneta, che irradiò poi, in tutta la provincia e oltre, quella trama di intese e di cospirazioni che furono le necessarie premesse di successive e brillanti operazioni militari. Le sue case, i suoi colli, le sue valli servirono allora da rifugio ai suoi figli migliori che, braccati e decimati da feroci rappresaglie, sempre tornarono ad aggredire il nemico, arrecando ingenti danni alle sue essenziali vie di comunicazione e alla sua organizzazione, logistica e di comando. I primi nuclei partigiani e dei G.A.P. operanti in città, e, in seguito, le numerose brigate delle divisioni ‘Vicenza’, ‘Garemi’ e ‘Ortigara’ gareggiarono in audacia e valore, pagando un largo tributo di sangue alla causa della liberazione. Mentre gran parte della popolazione subiva minacce, deportazioni, torture e morte e centinaia di altri suoi concittadini in divisa combattevano all’estero, per la liberazione di altri paesi d’Europa, benché devastata dai bombardamenti aerei, che causarono oltre 500 vittime e che d’altrettante straziarono le carni, mutilata nei suoi insigni monumenti, offesa nei suoi sentimenti più nobili, la città mai si arrese al terrore tedesco, ma tenne sempre alta la fiaccola della fede nel destino di una patria finalmente redenta. 10 settembre 1943-28 aprile 1945.
Una lapide apposta nel 1988 a Padova ricorda invece i bombardamenti in modo generico, insieme ai caduti delle due guerre mondiali: «In questo tempio-ossario dedicato alla pace riposano i resti di 5401 caduti della 1a guerra mondiale e di 989 civili morti per i bombardamenti su Padova nella 2a guerra mondiale».
A Mestre, il comune inaugurò nel 1994 una mostra sul 1944, centrata sulla propaganda fascista, i bombardamenti alleati, l’occupazione nazista e la Resistenza. Il volume-catalogo riporta alcuni commenti per contestualizzare le immagini. La fotografia di una bambina seduta tra le macerie con in braccio una bambina più piccola, entrambe piangenti, è spiegata come «immagine simbolo che la propaganda fascista ha usato abbondantemente. Si tratta di una foto ‘costruita’, destinata a suscitare sdegno contro i ‘liberatori’» (Mestre 1944, a cura di S. Barizza, D. Resini, 1994, p. 22). «Ma se mutiamo il contesto – che le foto non ci restituiscono interamente – possiamo immaginare che quella bimba abbia patito una rappresaglia tedesca, e quelle ragazze piangano le vittime dei fascisti» (p. 22). Non si riporta alcuna prova di queste affermazioni, anche perché, si ammette, le informazioni fornite dall’immagine «sono incomplete ma essenziali: qui è la tragicità della guerra» (p. 22). La sezione più specifica sui bombardamenti alleati spiega le incursioni su Porto Marghera come pianificate «con estrema precisione» e le informazioni sugli operai morti sono affiancate a quelle sui danni subiti dalle industrie trainanti della zona industriale (p. 42). L’alleato angloamericano è quindi rappresentato come responsabile delle bombe, ma per inevitabili motivazioni militari.
Caso particolare in Italia per la gravità delle sue conseguenze è stato il bombardamento di Treviso. Il 7 aprile 1944 bombardieri americani si diressero a colpire la stazione ferroviaria di Treviso e il vicino snodo di Motta, parte dell’operazione Strangle sulla linea di comunicazione Udine-Bologna. Era il venerdì di Pasqua e la città era affollata da abitanti delle campagne in visita ai parenti. Al suono dell’allarme nessuno si preoccupò eccessivamente, nella convinzione che non potessero verificarsi incursioni durante il venerdì santo. Inoltre, i trevigiani erano persuasi che la loro città non fosse di interesse militare, come testimoniano interviste e memorie scritte (Testimoni loro malgrado, 2005, 20062). Invece, in quel giorno, malgrado la perfetta visibilità, solo poche bombe colpirono gli obiettivi e la maggioranza cadde sul centro cittadino distruggendo o danneggiando gravemente l’82,2 per cento degli edifici, inclusi vari rifugi antiaerei; interi quartieri furono rasi al suolo e circa 1600 persone furono uccise. Testimoni orali intervistati nel 2006 descrissero corpi buttati sui carri e coperti di giornali; la puzza delle bombe, della polvere, di fognature esplose e di esseri umani bruciati. La gente scavava tra le rovine con le mani nude, gridando e pregando. I corpi esplosero insieme ai laterizi delle strade e finirono, lacerati, in cima agli alberi, ai tetti delle case, o caddero sotto pile di mattoni. Ci vollero diversi giorni per ricomporre i corpi di fronte alle chiese e agli ospedali. I superstiti – donne, bambini, giovani e vecchi – silenziosamente, come se fosse stata loro «staccata la spina», riconobbero ciò che era rimasto dei morti in attesa del momento dell’identificazione ufficiale (cfr. Testimoni loro malgrado 2005, 2006; G. Berto, Il cielo è rosso, 1948).
Nel 1992, alle cerimonie per ricordare l’incursione, l’assessorato alla cultura del comune promosse la pubblicazione di un volume, a cura di tre storici locali, che indagava, attraverso una ricerca condotta anche negli archivi americani, le motivazioni del bombardamento da parte delle forze aeree americane. Il comune, asserì il sindaco democristiano Vittorino Pavan nella presentazione del libro, rivendicava il proprio ruolo di testimone della memoria dell’evento. «Mai come in questo momento», secondo lui, si era avvertita la necessità di meditare sulla tragedia. Seguì l’assessore alla cultura Gianpaolo Miotto, rilevando il bisogno di rispondere ai «perché» della cittadinanza, che da quasi cinquant’anni si chiedeva quali fossero le motivazioni della tragedia, «forse nel tentativo di trovare una giustificazione» (Obiettivo venerdì santo, 1992, pp. VII-VIII).
Secondo quella ricostruzione storica, obiettivi furono la stazione ferroviaria e lo scalo Motta di Treviso. La reazione della contraerea fu sostenuta, sia nei pressi della stazione sia a sud della città. Considerato il centro dei due obiettivi presi di mira dai bombardieri e l’area su cui caddero le bombe, si additava l’imprecisione quale motivazione principale della tragedia. Secondo un’analisi della media di precisione dei B-17 statunitensi, entro 300 m dall’obiettivo caddero il 10-15% delle bombe; entro 600 m, il 60-70%, e il rimanente entro 600-1000 metri – coprendo di conseguenza l’intero centro cittadino, visto che la parte più distante delle mura si trovava a poco meno di 1100 m dalla stazione.
Con una precisione del genere, il bombardamento cosiddetto selettivo degli americani diventava un puro eufemismo e spesso provocava più morti del bombardamento d’area, anche perché effettuato di giorno, così da sorprendere, oltre ai residenti, la popolazione proveniente da fuori città impegnata nelle varie attività lavorative e sociali (p. 78).
In conclusione, gli autori del volume ritennero importante chiarire che l’incursione non fu decisa per colpire alti gerarchi del regime, «su eventuale richiesta dei partigiani», né per altre ragioni «più o meno fantasiose». Le motivazioni del bombardamento erano forse più difficili da accettare: semplicemente, erano gli inesorabili meccanismi della guerra. Dal punto di vista delle conseguenze per gli abitanti, che persero la casa e i loro familiari e amici, che videro scomparire il proprio quartiere, non cambiava nulla forse sapere la verità; tuttavia, secondo gli autori, questa era importante soprattutto per le nuove generazioni, «perché si sappia quale sia la logica perversa della guerra che prevarica qualsiasi buon senso». I giovani dovevano conoscere la tragedia vissuta dai trevigiani di allora, anche per rendersi conto di come il centro cittadino fosse stato riportato, dopo la mutilazione guerra, allo «splendore di oggi» (pp. 80-81).
Nel 1999, all’interno delle commemorazioni del 55° anniversario del bombardamento, un gruppo di cittadini fondò l’associazione Treviso 7 aprile 1944, le cui finalità principali erano ricordare le vittime civili dei bombardamenti nella Seconda guerra mondiale, compiuti da qualsiasi nazione nel mondo attraverso la memoria dei testimoni, e la divulgazione dei fatti, «per dire mai più guerre». Un sito creato dal comune (www.marcatrevigiana.it ) descrive la celebrazione del 2012, dichiarando che la città era vicina ai suoi «caduti». Da quel sito si giunge ad altri collegamenti dell’estrema destra, come www.rivanonconforme.it, dove si paragona Treviso a Dresda, si sostiene la mancanza di obiettivi militari nell’incursione americana su Treviso e si suggerisce una cifra di quasi 4000 morti; o www.italia.rsi.org, che contiene una sezione dal titolo Alleati? Va bene, ma di chi?
Quest’ultima riprende le stesse argomentazioni sostenute dalla Repubblica sociale italiana (RSI) nel 1944, secondo cui gli Alleati bombardavano con l’intenzione precisa di uccidere donne e bambini e di distruggere le belle città italiane. Un altro sito raccomandato è www.calion.com, che ripropone stralci dalla stampa fascista dell’epoca contro la barbarie sistematica e organizzata degli Alleati: il loro unico fine, sosteneva l’articolo, era massacrare la popolazione per costringerla ad arrendersi al nemico. Come ricerche storiche recenti hanno dimostrato, il morale della popolazione civile fu effettivamente un obiettivo della strategia alleata tra l’autunno 1942 e l’estate 1943, ma non lo era più nel 1944, quando responsabili delle stragi di civili furono soprattutto errori militari e mancanza di precisione. La realizzazione di quel sito web fu possibile grazie a finanziamenti ricevuti dalla biblioteca civica di Paese, un paese del Trevigiano.
Il sito dei nostalgici della Repubblica sociale discute le possibili motivazioni del bombardamento, partendo dalla presenza di uffici del Ministero dell’Agricoltura della RSI e, in quei giorni, di Rodolfo Graziani, ma arrivando a una spiegazione più direttamente polemica: i «dannati bombardieri» arrivarono come «in spensierata vacanza»; volavano alto per evitare la contraerea, ma anche per la «noncuranza di ricercare gli obiettivi che potessero avere una certa importanza militare» (http://www.italia-rsi.org/alleatidichi/bombardamentitreviso.htm). Si riprende quindi la propaganda già affermatasi ai tempi della RSI, quando gli Alleati erano accusati di colpire le città, e in particolare chiese, ospedali e abitazioni civili per puro sadismo (Baldoli, Knapp 2012, pp. 125-27). Nel 2002 il presidente dell’associazione Treviso 7 aprile 1944 si recò a Dresda per portare al sindaco della città tedesca, completamente distrutta con quasi 25.000 dei sui abitanti uccisi nelle incursioni angloamericane del febbraio 1945, una targa di Treviso, donazione del sindaco leghista Giancarlo Gentilini, a ricordo delle due città martiri. Una fotografia lo ritrae di fronte alla chiesa della Frauenkirche. La questione di Dresda come crimine di guerra alleata paragonabile al genocidio degli ebrei, inizialmente proposta solo dall’estrema destra, era stata ripresa da ricerche storiche già dagli anni Novanta (D. Irving, The destruction of Dresden, 1965; per un’analisi comparata dell’olocausto e del bombardamento strategico si veda E. Markusen, D. Kopf, The holocaust and strategic bombing: genocide and total war in the twentieth century, 1995, pp. 183-209).
Anche la Chiesa cattolica ha dato il proprio contributo alla trasmissione della memoria del bombardamento. Lapidi in marmo con i nomi dei bambini uccisi furono poste nella chiesa della Madonnetta a Santa Maria del Rovere a Treviso. La presenza delle autorità ecclesiastiche, di solito il vescovo cittadino, è costante agli anniversari, caratterizzati fra l’altro dalla messa (per es. «La Tribuna di Treviso», 7 aprile 2010). L’associazione Treviso 7 aprile 1944 pubblica nel proprio sito una preghiera del 1970, approvata dalla gerarchia ecclesiastica e dedicata alle vittime civili di guerra. La preghiera viene letta durante alcuni degli anniversari del bombardamento di Treviso:
Signore Iddio, grande e potente, che doni la vita e la conservi, […]. Quante vite, dono del tuo amore, sono state crudelmente stroncate dal selvaggio irrompere di guerre fratricide! Quante case […] sono state abbattute e distrutte dalla potenza bruta di armi disumane! […] Pietà, Signore, di tutte le vittime della guerra; […]. Pietà di quegli stessi, che un cieco furore ha spinto a scatenare l’odio e la distruzione (http://www.treviso7aprile1944.eu/eventi.html).
L’unico caso nel Nord Italia comparabile, nella gestione della memoria, a quello di Treviso è rappresentato dal bombardamento americano sul quartiere milanese di Gorla, vicino all’area industriale di Sesto San Giovanni: anche lì le bombe caddero nel ‘posto sbagliato’ e, pur con un numero minore di morti, provocarono una tragedia che indignò parte dell’opinione pubblica contro gli Alleati, in quanto la maggioranza delle vittime furono bambini di una scuola elementare. La rabbia espressa nelle commemorazioni anche a settant’anni di distanza è simile a quella dimostrata a Treviso, e lo stesso si può dire per la strumentalizzazione politica operata dall’estrema destra. Quest’ultima infatti non si esprime in nessun altro caso tanto emotivamente quanto per Treviso e Gorla. Le associazioni civili delle due città si ricordano a vicenda pubblicamente, quasi a suggerire un gemellaggio fra città di due regioni e contesti socio-economici diversi.
Il 20 ottobre 1944 un’incursione americana con obiettivo la Breda e altre industrie militari a Milano fallì a causa di un errore di rotta. A quel punto, il carico di bombe avrebbe potuto esser scaricato nella zona meno densamente popolata della campagna cremonese, oppure nell’Adriatico, come era avvenuto altre volte. Gli ordigni furono invece riversati sui quartieri periferici e affollati vicino a Sesto San Giovanni, provocando 614 morti, tra i quali 184 bambini di una scuola, insieme ai loro insegnanti e ad alcuni genitori. Grazia Alfieri Tarentino, una giovane donna milanese al tempo dell’incursione, fu testimone della tragedia e del dolore per la morte di tanti bambini innocenti. Gran parte della cittadinanza partecipò ai funerali, con le donne vestite di nero dietro le piccole bare bianche. Sulla piazza della chiesa, ricordò la testimone anni dopo, tra la folla silenziosa, qualcuno osò dire che erano stati gli angloamericani, «assassini di bambini». La propaganda si era insinuata tra il dolore sincero e apparivano manifesti recanti le immagini di morte per ricordare, a tutti coloro che si rifiutavano di crederlo, che i cosiddetti liberatori erano il nemico. «Le idee», concludeva la testimone, «erano confuse» (G. Alfieri Tarentino, La festa di Muncalè. Storia minore della gente di Milano che qualcuno vorrebbe mettere nella zona grigia senza averne conosciuta la vera natura, 2005, p. 117 e p. 176).
Nel 2006 il comune di Milano inaugurò un memoriale al Parco Lambro, in cima a una collina costruita con le rovine dei bombardamenti della città. La targa sul memoriale riporta una frase di Carlo Delcroix: «La guerra è la lezione della storia che/i popoli non ricordano mai abbastanza». L’accenno ai mali delle guerre, nelle parole dell’interventista e mutilato del 1915-18, poi fascista durante il ventennio e monarchico nel dopoguerra, precede la frase: «A seguito dei bombardamenti anglo-americani/su Milano, qui furono portate le macerie delle/nostre case, in perenne memoria dei caduti civili/della 2a guerra mondiale». I discorsi delle autorità insistettero sulla necessità di tale commemorazione «soprattutto oggi che viviamo tempi di angoscia e insicurezza» (http://www.comune.milano.it/ dseserver/webcity/comunicati.nsf/weball]/D8C5E8A7B0E413DAC125713E003411CA). Le vittime del bombardamento di Gorla sono talvolta descritte come «martiri di Gorla». Il concetto di martire non è inteso in senso cristiano, come persona che professa la propria fede anche a costo della persecuzione, ma nel significato greco del termine, «testimone», poiché i bambini morirono a causa di un errore militare (20 ottobre 1944, 2002, p. 69). Il sito http://www.piccolimartiri.it/index2.htm, commentando l’inaugurazione della collina della memoria, sottolinea come essa fosse oltraggiata dalla presenza di immigrati che «degradavano» la zona: il flusso dal Sud Italia era infatti stato sostituito, a partire dagli anni Ottanta, da una nuova immigrazione extraeuropea, percepita come una minaccia all’identità locale dalle amministrazioni e dall’opinione pubblica di destra.
Come per il caso di Treviso, la destra milanese ricorda inoltre la criminalità degli Alleati: i piloti responsabili della tragedia di Gorla erano ragazzi di 18-20 anni, addestrati solo dal punto di vista tecnico e incuranti delle popolazioni civili, ai quali era stato detto che per sconfiggere il fascismo ogni mezzo era giustificato. Se questi fatti sono confermati da ricerche storiche in archivi italiani e statunitensi, altro materiale utilizzato dai siti di destra è preso da alcune ricerche compiute da Achille Rastelli; il linguaggio è tuttavia polemico e nostalgico e richiama quello del neofascismo nel dopoguerra: «Nessuno venne mai chiamato sul banco degli imputati, né a Norimberga né successivamente» (http://www.piccolimartiri.it/ index2.htm). Si suggerisce quindi implicitamente una comparazione fra i bombardamenti alleati e la Shoah, ripresa da storici revisionisti in tempi recenti. Nel 1995, Fulvio Farba espose la sua interpretazione dei fatti di Gorla in un articolo sulla rivista dei reduci della Repubblica sociale «Nuovo fronte»: «puro terrorismo, volontà di inserire [sic] su un popolo ormai in ginocchio, nonostante ancora oggi ci sia chi sostiene la tesi che le bombe erano destinate alla stazione ferroviaria di Greco». Il tema della contrapposizione della memoria locale alla politica nazionale è ripreso con l’osservazione che alle commemorazioni ogni anno erano presenti le autorità locali, «ma nessun papavero, sino ad oggi, è venuto mai da Roma, nessun politicante della prima repubblica». «Quei corpicini», conclude, «sono scomodi» in quanto «hanno avuto il grande torto di farsi assassinare dagli Alleati liberatori e non dai biechi oppressori nazifascisti!» (F. Farba, Ricordiamo i piccoli caduti di Gorla, «Nuovo fronte», ottobre 1995, 157). La rivista del Movimento nazionalpopolare «Orientamenti» dedicò un numero nel 2008 ai bombardamenti angloamericani in Italia, il cui editoriale sosteneva che i ‘liberatori’,
eccitati dalla loro onnipotenza, si accanivano con inaudita ferocia scendendo a bassa quota per mitragliare non solo i militari ma chiunque, uomo, donna o bambino che fosse, si trovasse a camminare per strada (N. Cospito, Perché un libro bianco? Libro bianco sui bombardamenti anglo-americani in Italia, «Orientamenti», 2008, 1-2, nr. monografico, p. 1)
Questi morti, conclude l’articolo, furono però coperti dal silenzio, a causa della politica filo-americana dei governi del dopoguerra, irrispettosi della verità storica. La scelta di riprendere la propaganda di Salò del 1943-45 ha risparmiato alla memorialistica di destra la necessità di compiere ricerche scientifiche sul tema. Sono recenti gli studi di Rastelli negli archivi italiani e alleati, che spiegano come la tragedia di Gorla, avvenuta dopo la fase dei bombardamenti a tappeto del 1942-43, fu causata da un errore militare unito a incuria e indifferenza dei piloti, non dal fatto che l’obiettivo (di per sé militare – le fabbriche della Breda) fossero i civili o dei bambini (20 ottobre 1944, 2002, p. 27 e p. 35; Rastelli 2000).
Graziella Ghisalberti, una delle maestre della scuola bombardata, scrisse una poesia nel maggio-giugno 2000:
Dicevano che la guerra era finita... invece si compì l’ultima tragica partita. I bambini vivaci e vocianti andarono a scuola, erano tanti... Oltre 200 scolari ignari, ma una bomba cattiva, quella splendida mattina, stroncò loro la vita, mutò il loro destino. Pochi a casa tornarono... gli altri 200, angeli diventarono. Noi superstiti, li ricordiamo, li invochiamo; perché possano portare la pace in ogni cuore e mai più tanto dolore. Bambini di ieri e di oggi, vittime innocenti di tante brutte genti (20 ottobre 1944, 2002, p. 60).
Nella poesia, come nel monumento eretto davanti all’ossario dove prima era la scuola, si indica il responsabile della tragedia nella guerra, nelle bombe, in un indefinito «tante brutte genti», e non si nominano i bombardieri americani. Come scrive Jonathan Sisco, «per il singolo individuo la storia collettiva è la sua storia»: la poesia agisce quindi da antidoto alla creazione di una memoria collettiva statale e nazionalizzata (2006, p. 142). Per questo motivo, le memorie di uno stesso quartiere sono frammentate e non conformi a un modello preciso. Il tema religioso associato alla pace è ripreso nella poesia, in cui i bambini diventati angeli potranno portare la pace nei cuori delle generazioni. La presenza religiosa nella memoria rende il nemico indefinito perché annulla il sentimento di vendetta, ma anche quello di richiesta di giustizia. Il Liber chronicus della parrocchia di Santa Teresa nel quartiere di Gorla, pubblicato nel 2010 da un’associazione locale di cittadini, sottolinea l’importanza del ruolo dei parroci e del vescovo della città nel portare aiuti e conforto, e non nomina alcun responsabile dell’incursione (E. Bricchetti, Il borgo di Gorla nella memoria delle cose e della sua gente, 2010, p. 135).
Graziella Ghisalberti scrisse anche una lettera al presidente della Repubblica Ciampi nell’ottobre 1999:
Sono fra i pochi superstiti dell’ultimo bombardamento alleato del 10 ottobre 1944 che provocò 650 morti. Il nostro rione, Gorla, venne duramente colpito ma la tragedia maggiore la causò la bomba che distrusse la scuola elementare uccidendo 184 scolari dai 6 agli 11 anni, tutti gli insegnanti, il personale scolastico, alcuni genitori e, oltre a tante vittime anche 20 piccoli morti nelle loro case. Mercoledì 20 celebreremo i 55 anni dal triste avvenimento con la partecipazione di autorità religiose, civili e militari. [...] vorrei che come giustamente sono ricordate le vittime delle Fosse Ardeatine, quelle di Marzabotto e quelle di altre regioni, venissero considerati maggiormente i nostri Piccoli Martiri. Già dall’altra parte di Milano non se ne sa niente (20 ottobre 1944, 2002, p. 72).
La lettera rimase senza risposta. L’unica risonanza fuori Milano venne nel dicembre 2000 dall’Associazione culturale Treviso 7 aprile 1944 che commemorò il 56° anniversario di Gorla. Il bombardamento di Gorla è rimasto un evento traumatico nella memoria locale, e gli abitanti del quartiere hanno accusato direttamente gli angloamericani, cosa che invece non è avvenuta in altre parti di Milano, perché fino a tempi recenti sembrava «politicamente scorretto» ricordare un massacro compiuto non dai nazifascisti ma dai «liberatori» (Rastelli 2000, p. 147).
Nel resto della Lombardia, la memoria dei bombardamenti è in genere municipale, limitata a monumenti e commemorazioni in paesi o città. Nella seconda città più colpita della regione, Brescia, il 21 gennaio 2011 l’amministrazione di centrodestra inaugurò un monumento dedicato alle vittime dei bombardamenti, con i nomi dei 430 «caduti», secondo la definizione data dall’Associazione dei paracadutisti presente alla cerimonia. Pur senza inveire contro i bombardieri, questa associazione tenne a ricordare che il suo rappresentante alla cerimonia, «all’epoca dei bombardamenti in questione, si trovava in un campo di prigionia inglese, dopo essere stato fatto prigioniero ad El Alamein» (http://www.paracadutistibrescia.com/ I%20;Reduci.htm). L’inaugurazione avvenne da parte di una giunta di centrodestra che al tempo stesso si adoperava per riportare in piazza Vittoria, costruita negli anni Trenta, una statua di epoca fascista – tentativo sventato in seguito a manifestazioni di protesta antifascista e alla sconfitta del centrodestra alle elezioni comunali del giugno 2013. La coincidenza dei due eventi non sfuggì a un lettore del principale quotidiano cittadino, che, dispiaciuto per la collocazione del monumento ai bombardamenti in posizione non centrale, suggerì di spostarlo in piazza Vittoria, anziché riesumare la statua fascista. In questo modo, vista la contiguità della piazza agli altri spazi del centro storico bresciano, si poteva completare «un percorso della memoria»: a pochi passi dai portici dedicati alle Dieci giornate antiaustriache del 1849 e di piazza della Loggia, dove una stele ricorda i caduti della strage per mano fascista del 1974 (R. Montagnoli, Quella statua sarebbe oggi fuori registro, «Giornale di Brescia», 24 dicembre 2012). Secondo questo suggerimento sarebbe stato così possibile tracciare un percorso unificante dei caduti cittadini, passando dal Risorgimento alle vittime dei bombardamenti e a quelle del (neo)fascismo. Il parente di una delle vittime dei bombardamenti si trovò invece in disaccordo con la decisione di erigere il monumento, opera secondo lui non indispensabile e che rivelava strumentalizzazioni politiche da parte del comune:
lasciamo in pace i nostri parenti vittime della follia nazifascista, smettiamola di incolpare solo ed esclusivamente gli anglo-americani e non dimentichiamo che, anche con scelte dolorose, ci hanno resi liberi da un ‘ventennio’ costellato da una folle dittatura fascista culminata con la dichiarazione di guerra (G. Marino, Bombardamenti, la memoria dei Caduti, «Giornale di Brescia», 29 gennaio 2011).
Egli si chiedeva inoltre le motivazioni della presenza di associazioni d’Arma (tra cui quella dei paracadutisti): «qui stiamo parlando di ‘vittime civili’» (G. Marino, cit.). Che la giunta volesse sfruttare l’evento a fini elettorali risultava evidente anche dalle dichiarazioni del vicesindaco leghista Fabio Rolfi, secondo cui commemorare le vittime delle incursioni aeree «significa sanare la ferita aperta da decenni di latitanza istituzionale e di oblio». Il Comune intendeva dare «finalmente giustizia a centinaia di bresciani, donne, anziani, bambini, incolpevoli delle vicende politiche e storiche del tempo» (F. Rolfi, M. Labolani, Bombardamenti: monumento alle vittime, «Giornale di Brescia», 8 marzo 2010). Ancora una volta si sottolineava l’estraneità delle vittime alle vicende politiche: non più accomunate quindi ai caduti della Resistenza, che invece, in quanto partecipi della lotta politica, non erano ‘innocenti’.
Unico caso nel Nord dell’Italia, in Liguria i monumenti per ricordare le vittime della guerra aerea si succedettero lungo l’intera costa, provocando così lo sviluppo di una memoria regionale dei bombardamenti, policentrica anziché concentrata sulle principali città portuali colpite come Genova e La Spezia.
Nel 2004 a Savona si pubblicò un libro ‘fotocronaca’ (Aiolfi, De Marco) dei bombardamenti sulla città e sulla provincia, in cui i morti erano ricordati come vittime del fascismo anziché degli Alleati, e accomunati ai caduti della Resistenza. Il sindaco democratico di Savona, Carlo Ruggeri, ricordò nella prefazione le «devastazioni materiali e morali provocate dalla scellerata scelta operata da Mussolini e dal regime fascista di trascinare l’Italia nella guerra» (p. 5). In contrapposizione all’opera di revisione nazionale prevalente sui media negli anni berlusconiani, egli sottolineava l’importanza di non «dimenticare, in un indistinto oblio in cui ogni comportamento e tutte le scelte tendono ad assumere lo stesso valore, le responsabilità di chi causò così gravi lutti al nostro Paese e alla nostra città» (p. 5). La responsabilità alleata nella scelta di bombardare una regione densamente popolata non è mai messa in discussione, in quanto provocata originariamente dall’ingresso in guerra dell’Italia fascista. Tre anni prima, un altro progetto di studio sui bombardamenti nella provincia di Savona aveva coinvolto gli alunni di una scuola di Pietra Ligure. Il volume che ne riporta i risultati, realizzato in collaborazione con l’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea della provincia, ricorda nuovamente l’innocenza delle popolazioni colpite a conseguenza «di una guerra di aggressione decisa non da un governo che aveva avuto la fiducia da un parlamento liberamente eletto dal popolo italiano, ma da un dittatore e da un regime» (Pietra Ligure in guerra. I bombardamenti sulla città e nei dintorni, 1940-1945, a cura di M.L. Paggi, 2001, pp. 9-10).
Anche quando si riconosce che gli angloamericani «scelsero la via del terrore diversificato», il loro fine, si sostiene, era «distogliere le azioni difensive nazifasciste»: le popolazioni civili erano vittime del fascismo, e di conseguenza dei bombardamenti. Nella risposta della popolazione alla tragedia, con la ricostruzione della città «umiliata dalle bombe», essa era accomunata a «tutti coloro che seppero resistere all’oppressione nazifascista» (p. 5 e p. 127). Savona fu infatti insignita della medaglia d’oro al valore militare per entrambi i motivi. Le vittime dei bombardamenti sono pure associate a vicende di eroismo in quanto, soprattutto le donne, gli anziani e i bambini, rimasero a «difendere le case» (p. 8). Le tragedie provocate dai bombardamenti sono narrate insieme alle stragi naziste e agli eccidi di partigiani, ai tempi in cui i fascisti della Repubblica sociale celebravano nelle piazze la giornata dell’amicizia italo-germanica (p. 109). Il volume ricorda anche che nel 1993 nel comune di Savona si tenne una mostra dedicata ai bombardamenti, non solo perché era il cinquantenario della Resistenza, ma anche perché il tema era tornato vivo a causa della guerra in Jugoslavia (p. 7).
Una rivista online dell’Unione regionale delle province liguri, «Le pietre e il mare», in una ricostruzione della storia dei bombardamenti aerei e navali nella regione compiuta nel 2011, suggerisce l’esistenza di diverse identità geografiche in relazione alla memoria storica. Il periodo dei bombardamenti navali, prima francesi e poi britannici del 1940-41 è descritto in relazione all’intera costa tra Sestri Ponente e Voltri, poi Imperia, Finale Ligure, Savona e Varazze, Albenga, Genova e La Spezia. A essere colpita è la regione più che una città in particolare: la costa con i suoi porti e le sue industrie. Durante la fase dei bombardamenti a tappeto dell’autunno 1942 l’identità cambia: Genova, capoluogo e città industriale principale, viene accomunata a Milano e Torino; prevale quindi una memoria cittadina e interregionale al tempo stesso, quella del triangolo industriale nel periodo dei bombardamenti terroristici, i cui obiettivi furono le industrie del Nord Italia e le popolazioni circostanti. Il «vero simbolo del martirio» è però identificato nella cittadina di Recco, interamente distrutta durante la fase seguente degli attacchi aerei sulla linea di comunicazione che attraversava la regione: la memoria è di nuovo comunale ma è simbolo di una fase che attraversò l’intera Liguria. A farne la regione che più di tutte ha sviluppato una memoria unitaria dei bombardamenti sono stati principalmente due aspetti: la struttura geografica, più omogenea rispetto a quella delle altre regioni, e la tipologia delle incursioni. Se infatti la città di Genova sostenne i danni più concentrati, tutta la Liguria subì danni ingenti a causa della densità di complessi industriali dislocati lungo la costa, l’importanza dei suoi porti e l’esistenza della base navale di La Spezia. In particolare tra l’autunno del 1943 e l’estate del 1944 i bombardamenti continuarono per colpire soprattutto nodi ferroviari, ferrovie e ponti per impedire i rifornimenti tedeschi, una situazione che continuò anche dopo la rottura della Linea gotica, fino alla liberazione del Nord. I grandi centri cittadini furono attaccati molto meno che negli anni precedenti, ma gli attacchi alle linee di comunicazione continuarono, con bombardamenti che si abbattevano sulle città minori nei dintorni.
Un’altra esperienza comune a tutta l’area regionale è quella dei rifugi nelle gallerie, presenti lungo la ferrovia che scorre nella zona costiera. Una testimonianza dalla provincia di Savona ricorda gli episodi di panico dovuti al tentativo della folla di recarsi all’uscita in seguito a un crollo; un’altra, nella stessa provincia, ricorda un allarme aereo in seguito al quale «il panico si impossessa della folla che vuole entrare nella galleria-rifugio» con la conseguente morte di una donna di 73 anni caduta e calpestata (Aiolfi, De Marco 2004, p. 58 e p. 80). Le ore notturne spese in galleria sono esperienza comune anche nei diari dell’epoca. Il sedicenne Franco Pogioli, ricordò come nel 1944 gli abitanti della costa ligure passassero molte notti in galleria (Archivio diaristico nazionale, DG/89, F. Pogioli, Il bidone in cima a un palo, diario inedito, p. 35; p. 38, 2 e 9 settembre 1944). Un fenomeno confermato dagli informatori fascisti da Genova sin dal 1942, preoccupati del fatto che le lunghe notti in gallerie affollate con condizioni igieniche precarie abbassassero il morale delle popolazioni (Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, DGPS, DPP, b. 211, fasc. 2, rapporto fiduciario da Genova, 2 dicembre 1942).
In molti paesi e città liguri si trovano monumenti alle vittime dei bombardamenti. A Varese Ligure, in una lapide senza data ma precedente al 2005, le vittime civili sono descritte con linguaggio militare utilizzando il termine «caduti», e ricordati dalla «comunità civica»: «Ai caduti civili deportati rastrellati morti per bombardamento vittime di altre azioni belliche della guerra mondiale 1940-1945 la civica comunità qui serba una pietra sacra per una memoria perenne». Nel 1993 il comune di Recco depose due targhe:
Nel 50° anniversario della distruzione bellica il capo dello stato a nome della nazione nell’auspicio che la memoria del lontano dramma valga d’incitamento a bandire guerre e barbarie che avvelenano il mondo e perseguire vie di pace e solidarietà rendendo omaggio alla memoria delle vittime insigniva la città di Recco della medaglia d’oro al merito civile conferita con la seguente motivazione: ‘Sottoposta, nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, a violenti e indiscriminati bombardamenti aerei, che causarono la morte di 127 civili e la distruzione dell’intero centro abitato, affrontava con fierezza le più dure sofferenze ed intraprendeva, poi, con grande coraggio e spirito di sacrificio, la difficile opera di ricostruzione’.
Per ripetute incursioni aeree della seconda guerra mondiale il sacro focolare divenne tomba a CXXV inermi cittadini. Il comune di Recco presente il capo dello Stato ricorda ai posteri il sacrificio dei suoi figli perché la morte degli innocenti susciti in essi ferma volontà di pace XXIV aprile MCMLV [segue una lista con i 125 nomi].
Le vittime dei bombardamenti furono ricordate dal comune di Recco, ma anche dallo Stato italiano: il presidente della Repubblica conferì nel 1955 la medaglia d’oro al merito civile a Recco e presenziò all’inaugurazione della lapide, che insiste sulla necessità di ricordare ai posteri il «sacrificio» dei figli di Recco perché la «morte degli innocenti» susciti volontà di pace. Mentre la prima targa, a «nome della nazione», auspica che siano bandite «guerra e barbarie» per perseguire «pace e solidarietà», la seconda ha il compito di ricordare il sacrificio degli innocenti, senza specificare però chi li uccise. A Recco si trova anche un Parco della Rimembranza, con un sacrario lungo la vecchia via Aurelia, dedicato ai caduti di guerra e alle vittime dei bombardamenti nella Seconda guerra mondiale. Nel 2008 il parco fu al centro di proteste per lo stato di abbandono in cui il comune lo aveva lasciato, come spiegò il quotidiano locale:
Circondato dall’erba alta, senza manutenzione e, secondo i firmatari di una petizione, senza molto rispetto per la sacralità del luogo. È in queste condizioni che si trova il parco della Rimembranza, sacrario […] dedicato ai caduti di guerra e alle vittime dei bombardamenti che nella seconda guerra mondiale distrussero Recco e che valsero alla città il riconoscimento della medaglia d’oro al valore civile. “[…] le tombe delle vittime dei bombardamenti sono sporche e non curate – è scritto in una lettera aperta di un gruppo di una quarantina recchesi […] – abbiamo fatto presente il problema allo stesso sindaco, Gianluca Buccilli, ma fino a oggi nulla è cambiato. Quei morti fanno parte della nostra storia e devono essere degnamente ricordati e l’immagine di Recco non è solo il mare e la spiaggia […]” […]. Anche le associazioni dei reduci, dei partigiani delle vittime di guerra, segnalano la stessa situazione di degrado, peraltro ben visibile a occhio nudo. Di qui la richiesta di un intervento, cui peraltro il sindaco ha garantito un interessamento (Il monumento di Recco. Degrado e proteste al sacrario, «Il Secolo XIX», 1 settembre 2008).
Più generica una targa posta nel centro di Rapallo nel 1981 e recante la frase: «A ricordo dei civili rapallesi caduti nei bombardamenti 1944-45». Ai fianchi altre due targhe, appostate nel 1994, elencano i nomi delle vittime. A Sestri Levante, una lapide posta dalla Confraternita ricorda nel 1994 la distruzione di un edificio storico e le vittime civili, insistendo sulla necessità di ricordare la follia della guerra e ispirare pensieri di pace, in questo caso in onore della santa patrona:
Questi nobili ruderi dell’oratorio di Santa Caterina V. M. monumento secolare distrutto nell’anno 1944 ricordino le vittime dei bombardamenti bellici/ammoniscano sulla follia della guerra/ispirino a tutti pensieri di pace/ in onore della santa patrona la confraternita pose la statua e la memoria/25 novembre 1994.
Nello stesso paese un’altra lapide, questa volta di natura apertamente antifascista, insiste sulla colpa degli italiani per aver plaudito la guerra nelle piazze durante il regime: «Mai più piazze plaudenti per la guerra. Mai più lacrime per i caduti. Si alzi forte una sola voce: PACE! In memoria dei caduti civili dei bombardamenti di Sestri Levante 1 dicembre 1943- 25 aprile 1945».
A Varazze una targa posta dal comune nel 1954 ha il fine di instillare il desiderio di pace tra la popolazione, ricordando l’atrocità della guerra che si era scatenata sulla città. Come a Sestri Levante, è presente anche qui l’aspetto religioso: gli uomini sono responsabili della sciagura per aver «lacerato» il cielo di Dio, e l’odio non ha responsabili precisi – una posizione, questa, che era stata sostenuta dalla Chiesa cattolica durante l’intero conflitto (Bombing, States and People in Western Europe, 1940-1945, pp. 136-53):
Sotto i nembi di morte l’atroce guerra scatenò su Varazze il cuore unanime della città sanguinò da settanta ferite accanto a ciascun dei suoi figli uccisi nelle sue contrade dal solco di tanto dolore la pietà qui fa grido che fugata la nube dell’odio il cielo di Dio non più lacerato dall’insania degli uomini illumini alfine la giusta pace tra i popoli. In memoria delle vittime dei cinque bombardamenti 10-X-1943, 13-VI-1944, 19-VII-1944, 22/23-III-1945. Il Comune pose 13 giugno 1954.
Interessante a Savona il riutilizzo di un monumento preesistente, esteso dal primo conflitto mondiale al secondo. Savona venne insignita dopo la Seconda guerra mondiale della medaglia d’oro al valore militare per il sacrificio compiuto dalla sua popolazione e della medaglia d’oro al merito civile per l’attività partigiana svolta.
Il monumento ai Caduti, denominato Rintocchi e memorie, fu realizzato nel 1923 dallo scultore sestrese Luigi Venzano, per essere poi allargato ai caduti di tutte le guerre; ogni giorno alle 18.00 suonano 21 rintocchi della campana, uno per ogni lettera dell’alfabeto italiano; è considerato un monumento alla pace. Un altro esempio di memoria che accomuna diverse guerre è quello di Toirano, dove nel 1969 vennero apposte due targhe, una piccola, generica, dedicata a tutti i caduti, civili e non, di entrambe le guerre mondiali: «Monumento alle vittime di tutte le guerre e ai caduti del bombardamento aereo di Toirano, 12 agosto 1944»; e una più grande: «Vittime del bombardamento del 12 agosto 1944, caduti combattendo 1940-45. Dispersi. Caduti. Caduti combattendo 1915-18. Morti per malattia». Per entrambi i conflitti sono ricordati i nomi delle vittime. A Oneglia nel 1974 si volle testimoniare l’esistenza di un lutto ancora vivo, che servisse come monito per le presenti generazioni a diffondere ideali di pace e fratellanza cristiana:
La città di Imperia segna qui le date 23 dicembre 1943 21 febbraio 1944 le giornate più tragiche del II conflitto mondiale che con bombardamenti aeronavali seminarono rovine e morte in Oneglia. Intende testimoniare quanto ancora sia viva nei cittadini la memoria delle sofferenze e dei lutti della guerra. Invita le presenti generazioni ad accogliere il monito della crudele esperienza del passato ad alimentare e diffondere con impegno costante gli ideali di fratellanza cristiana e di pace. Imperia 28 febbraio 1974.
A Sanremo, la Cooperativa sociale Strade Liguria da scoprire organizzò nel 2011 un’escursione sulle Alpi liguri con visita a fortificazioni sotterranee costruite in vista della Seconda guerra mondiale tra il 1938 e il 1940. La commemorazione era legata a un aspetto particolare dell’impatto della guerra aerea sulle popolazioni civili (i rifugi), esteso al paesaggio regionale più che a una singola realtà cittadina o provinciale.
Nel caso delle due regioni confinanti con la Francia, ricostruzioni storiche ed eventi pubblici hanno dato origine a una memoria regionale della Resistenza, mentre la memoria dei bombardamenti è rimasta legata a città o paesi, con la posizione predominante di Torino, una delle città più bombardate d’Italia. La ricostruzione degli eventi militari e degli aspetti organizzativi della Resistenza in Valle d’Aosta iniziò nel 1946, con la pubblicazione, da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri, della relazione di un locale comando partigiano. Il volume si apre con un messaggio del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, che esprimeva apprezzamento ai patrioti valdostani che avevano collaborato con le armi, insieme ai maquis francesi, all’«onore delle lotte partigiane». Questa ricostruzione storica si inserisce nella tradizione di ciò che potremmo definire i primati regionali: analogamente al caso dell’Emilia-Romagna, che, come si vedrà, reclamava di aver pagato il prezzo più alto per la liberazione dell’Italia, si sostiene qui che «nell’agosto del 1944 la Valle d’Aosta si poneva all’avanguardia del movimento di resistenza», impedendo ai tedeschi di poter contare «su di un fronte stabile e sicuro» e paralizzando le loro possibilità operative e la rete di comunicazione con il resto del paese (V. Ricci, Il contributo della Valle d’Aosta alla guerra di Liberazione. Relazione del Comando primo Settore Valle d’Aosta Seconda Zona C.V.L., 1946, pp. 44-46).
Come nel caso di Milano per la Lombardia, i bombardamenti in Piemonte sono ricordati principalmente per gli attacchi subiti da Torino, mentre una memoria più propriamente regionale è stata costruita in riferimento alla Resistenza e alla guerra sulle Alpi. Capoluogo industriale della regione, Torino fu attaccata fin dal 1940, e soggetta agli esperimenti di bombardamento a tappeto nel 1942-43 intesi a minare, con la produzione industriale, il morale delle popolazioni e soprattutto della classe operaia. Il mito di Torino operaia e antifascista, città dei primi scioperi contro il regime nel marzo 1943 e città della Resistenza al nazifascismo durante la Repubblica sociale, ha oscurato, come in altre parti d’Italia, l’esperienza dei bombardamenti angloamericani. La memorialistica di destra non ha però capitalizzato su di essi come ha fatto per Milano e Treviso. Nel caso di Torino, la storia dei bombardamenti è stata ricostruita dai giornali locali, da riviste culturali come «Museo Torino», o da iniziative dell’Istituto per la storia della Resistenza. Ricordi della vita sotto le bombe sono conservati grazie a un progetto dell’organizzazione noprofit Memoro (v. sitografia).
Qui la memoria della resistenza all’invasore tedesco e al suo alleato fascista era ricostruita dall’8 settembre 1943, o talvolta anticipata agli scioperi delle fabbriche nel marzo di quell’anno. Solo recentemente si è indagata l’esperienza dei bombardamenti a tappeto dell’autunno 1942, che misero in luce forme di resistenza non direttamente politiche da parte delle popolazioni urbane colpite. Come ha suggerito Giovanni De Luna, per capire l’impatto della guerra sulla società di Torino è necessario andare oltre la considerazione unilaterale della città da un punto di vista esclusivamente politico, e adottare invece un approccio che si concentri su categorie quali la struttura urbana e l’esistenza collettiva (De Luna 1991, pp. 886-89). In quest’ottica, anche gli scioperi non possono essere spiegati solo in termini economici o politici, ma vanno relazionati al contesto urbano in cui erano situate le industrie – un contesto che coinvolgeva l’intera società torinese. Dall’autunno del 1942, un’opinione pubblica più critica iniziò a emergere nelle città industriali, a causa sia dell’impatto dei bombardamenti sia della guerra psicologica scatenata dai britannici attraverso Radio Londra e i volantini lanciati dagli aerei. Gli scioperi segnarono quindi una cesura nel ‘consenso’ fascista, ma è importante determinare cosa li provocò. Uno dei primi a scrivere sul tema, il partigiano e storico Giorgio Vaccarino, ne enfatizzò l’origine politica per identificarli come il punto di partenza della Resistenza; in questa ricostruzione l’impatto della guerra e del bombardamento di Torino non assumevano particolare rilevanza (G. Vaccarino, Problemi della Resistenza italiana, 1966, pp. 147-71). In una delle ultime analisi pubblicate sugli scioperi del 1943, lo storico Tim Mason analizzò la protesta di fabbrica in relazione alla Resistenza, ma non al crollo del consenso sociale in seguito ai bombardamenti (T. Mason, The Turin strikes of March 1943, in Nazism, fascism and the working class, ed. J. Caplan, 1995, pp. 274-94). Studi recenti hanno invece dimostrato l’importanza di una resistenza ‘esistenziale’ oltre che politica, fatta anche di sentimenti contraddittori ed estesa perfino a coloro che avevano sostenuto il regime fino a poco prima (cfr. Baldoli, Knapp 2012, pp. 227-32).
Una delle incursioni rimaste più impresse nella memoria dei torinesi fu quella del quartiere operaio e contadino di Madonna di Campagna. La sera della festa dell’Immacolata, l’8 dicembre 1942, bombardieri britannici colpirono la zona circostante la parrocchia, in cui molti abitanti del quartiere assistevano alla cerimonia del Vespro in onore della Vergine, uccidendo 64 persone. Per il 60° anniversario, il giornalino della parrocchia pubblicò un racconto, letto in teatro e basato sulle testimonianze dei sopravvissuti. Al racconto delle tragedie ricordate dai superstiti, il sito della parrocchia aggiunge solo la considerazione che «quasi sempre i libri di storia sono scritti dai vincitori», suggerendo implicitamente che la realtà vissuta, poiché parte della storia di un popolo vinto, non aveva avuto riconoscimento. Si dovette infatti aspettare il 70° anniversario per l’inaugurazione di un memoriale ufficiale: il 6 dicembre 2012, un giardino del quartiere fu intitolato ai caduti del bombardamento di Madonna di Campagna, con la partecipazione del sindaco della coalizione del centrosinistra Piero Fassino e del presidente del consiglio comunale.
Le vittime dei bombardamenti sono ricordate anche in targhe apposte in alcuni paesi del Piemonte. A Dogliani in provincia di Cuneo una lapide senza data e generica non dà nome ai responsabili degli «assassinii». La memoria deve servire a opere di bene per il futuro, e il ricordo delle vittime si esprime con un linguaggio religioso:
Le innocenti vittime dei bombardamenti e degli incendi del 31-7 1-8-1944 e quelle di altri inconsulti assassinii per bellica ferocia i doglianesi ricorderanno commossi con perpetui suffragi ed opere di bene.
Il richiamo religioso (con la dicitura «R.I.P.») e la necessità di imparare dalla lezione della guerra per ricercare la pace sono presenti anche in un altro paese della provincia di Cuneo, Dronero. I bombardamenti sono visti come «prezzo della libertà»: non si nominano gli angloamericani, ma si enfatizza che fu necessario espiare una colpa per ritrovare la libertà:
In memoria delle vittime dei bombardamenti aerei del 12 febbraio 1945 […] Nel 2° anniversario in questa zona particolarmente colpita questa tenue memoria di tanti dolori perché tutti ricordino il prezzo della libertà e dalle rovine della discordia e dalla guerra imparino a cercare la concordia e la pace. Riposino in pace.
A Borgo Cittadella in provincia di Alessandria una grande targa apposta nel 1978 riporta un messaggio apolitico, religioso e umano, per ricordare con termini vivi la tragedia seguita al bombardamento che colpì un rifugio nel settembre 1944:
Cercavamo rifugio e trovammo la morte. Spose, mamme, bambini, mariti, padri, figli, fratelli, sorelle: un misto di carne e sangue. Oggi un solo spirito che grida a Dio per l’uomo: Pace! Borgo Cittadella alle vittime del rifugio 5 settembre 1944, 1978.
L’Emilia-Romagna non presenta una forte caratterizzazione metropolitana: la città capoluogo, Bologna, non ha un ruolo paragonabile a quello di Milano in Lombardia o di Torino in Piemonte, e la regione è organizzata in modo più policentrico. Il suo sviluppo economico è arrivato in ritardo rispetto a quello di Lombardia, Piemonte e Liguria, mancando alla regione le risorse idriche delle Alpi o porti importanti. La crescita del turismo balneare ebbe però effetti anche sulle città e sul terziario dalla prima metà del Novecento in poi, quando iniziò a svilupparsi anche un’agricoltura ad alta produttività che rese l’Emilia la prima regione italiana in quel settore con oltre 12.000 cooperative, piccole e medie imprese (Mainardi 1998, pp.189-93).
La storia della Seconda guerra mondiale è ricordata come un’esperienza regionale soprattutto in riferimento alla Resistenza. Nel caso dell’Emilia-Romagna questo avviene non solo come percezione di una resistenza regionale al nazifascismo, ma anche in termini di partecipazione della regione in quanto ente istituzionale. In particolare può essere interessante esaminare la commemorazione del trentennale della Liberazione a Bologna, con un convegno di studi promosso dall’Istituto nazionale per la lotta di liberazione in Italia e patrocinato da regione, provincia e comune. La partecipazione di storici, autorità civili e militari nazionali e locali, rappresentanti di confessioni religiose, ex-partigiani e rappresentanti delle Forze alleate testimonia un’interpretazione della Resistenza come evento unificante della storia d’Italia e principalmente come guerra di liberazione antitedesca. Il primo volume degli atti, dedicato alla lotta armata, è presentato dal presidente della Deputazione Emilia-Romagna per la storia della Resistenza e della guerra, che ricorda il sostegno «non solo politico ma morale» offerto all’evento dagli enti locali di regione, comune e provincia (G. Vicchi, Presentazione, in L’Emilia Romagna nella guerra di liberazione, 1975, p. XI). Il discorso del sindaco Renato Zangheri insiste sul carattere regionale dell’adesione alla lotta di liberazione, una resistenza di massa che coinvolse città e campagne, ceti operai e rurali, cattolici, comunisti e socialisti. La retorica della Resistenza di massa da cui nascono l’Italia repubblicana e la democrazia dei partiti è attraversata da accenti che richiamano l’esistenza di un carattere «profondamente emiliano» (R. Zangheri, Saluto ai partecipanti al convegno, in L’Emilia Romagna nella guerra di liberazione, 1975, p. XV). L’apporto emiliano alla guerra di liberazione nazionale diventa «peculiare» anche nelle parole del presidente della Giunta regionale Emilia-Romagna, il cui discorso aveva aperto il convegno sottolineando come il programma biennale di iniziative per il trentennale della Resistenza fosse sostenuto dalla regione, che ne aveva istituito il comitato civico. La nuova democrazia era nata «dalla via Emilia», grazie all’apporto «delle nostre genti», con al centro Bologna città medaglia d’oro per la Resistenza. L’intera regione, democratica e antifascista, era baluardo ai pericolosi tentativi reazionari in corso in quegli anni nel paese (G. Fanti, Discorso di apertura, in L’Emilia Romagna nella guerra di liberazione, 1975, pp. XIX-XXII). Il primato della regione, aggiunse nel suo intervento lo storico Luciano Bergonzini, era anche primato di dolore: «spaccata in due dalla Linea gotica nell’autunno-inverno 1944 l’Emilia Romagna pagherà, fra le regioni italiane, il prezzo più alto». Seguiva un elenco numerico di morti e feriti durante la guerra partigiana e per i massacri tedeschi (L. Bergonzini, La lotta armata, in L’Emilia Romagna nella guerra di liberazione, 1975, pp. 14-15).
In un volume di catalogazione di circa 300 monumenti alla Resistenza italiana costruiti tra il 1945 e il 1985 citato da Patrizia Dogliani (in Bologna in guerra, 1995), si nota un rapporto di corrispondenza fra i monumenti nelle diverse regioni e l’apporto dato da ogni regione alla lotta partigiana: in testa alla graduatoria risultavano l’Emilia-Romagna e il Friuli Venezia Giulia (in proporzione al numero di abitanti), mentre al Sud la memoria era quasi assente. Anche le diverse fasi dello sviluppo democratico del Paese influenzarono la costruzione della memoria della Resistenza. Tra il 1949 e il 1963 per es. furono eretti solo 24 monumenti, la maggioranza dei quali dedicati alla memoria delle vittime della guerra in generale, o addirittura delle due guerre insieme. Solo in città con tradizioni locali di sinistra si esaltavano le imprese dei partigiani. Negli anni del centrosinistra, tra il 1963 e il 1968, si inaugurarono invece 49 monumenti, tendenza che salì all’avvicinarsi, nel 1975, del trentesimo anniversario della Liberazione (con, dal 1969 al 1975, 62 monumenti). Il tentativo di presentare la Resistenza come fatto nazionale e unificante, quasi un’altra guerra risorgimentale, ebbe però il risultato di tenere vivo «il rancore dei vinti» (Dogliani, in Bologna in guerra, 1995, pp. 464-67): il ricordo della parte sconfitta rimase clandestino, per riemergere nella crisi politica e istituzionale degli anni Novanta. È in questo contesto che si iniziarono a ricordare i bombardamenti.
A differenza della memoria dei bombardamenti, nel caso della Resistenza e dei massacri nazisti lo Stato prende spesso parte alle commemorazioni: «L’eccidio di Marzabotto e le rappresaglie nei comuni limitrofi di Grizzana e di Monzuno furono troppo sanguinosi e di massa perché lo Stato non si facesse carico di onorarli». Con il sacrario realizzato nel 1961, lo Stato volle tramandare una versione della Resistenza che non si dissociasse dagli altri episodi bellici: i resti delle 782 vittime civili e partigiane erano «uniti spiritualmente alle donne, ai bambini e ai vecchi sacrificati nella stessa terribile guerra», come è stato ricordato da un opuscolo edito dal Ministero della Difesa (Dogliani, in Bologna in guerra, 1995, p. 475). Quando vengono ricordati, i bombardamenti sono infatti collegati ai caduti della Resistenza e delle stragi naziste. A Imola, nel quarantesimo anniversario della lotta di liberazione, fu inaugurata una targa che fornisce le motivazioni della medaglia d’oro consegnata alla città dal capo dello Stato, unendo ai combattenti della guerra partigiana le vittime del «martirio» dei bombardamenti. Entrambi gli eventi sono associati alla campagna angloamericana lungo la Linea gotica e alle rappresaglie nazifasciste:
Comune di Imola medaglia d’oro al valor militare per attività partigiana. Forte di tradizioni popolari e democratiche, dava vita, subito dopo l’8 settembre 1943, ad un attivo movimento di resistenza costituendo i primi nuclei partigiani di montagna. Nonostante perdite iniziali e dure rappresaglie nazifasciste, la popolazione dell’imolese continuava fieramente la lotta, rivendicando, con il sangue versato anche dalle sue indomite donne, pace e libertà e difendendo il patrimonio agricolo e industriale della propria terra. Reparti della 36a Brigata Garibaldi ‘A. Bianconcini’ costituirono una continua minaccia al le spalle del nemico e, durante l’offensiva anglo- americana contro la Linea gotica, cedettero agli Alleati importanti posizioni strategiche. Raggiunta dalla linea del fuoco, Imola subiva, durante cinque mesi, il martirio dei bombardamenti, aerei e terrestri, delle vessazioni nemiche, delle deportazioni e dei massacri. Il 14 aprile 1945, partigiani delle brigate G.A.P. e S.AP., presidiata la città, la consegnavano agli Alleati, mentre, combattendo nei gruppi di combattimento del nuovo esercito italiano ‘Cremona’ e ‘Folgore’, altri suoi figli continuavano la lotta fino alla liberazione dell’Italia settentrionale – Imola, 8 settembre 1943-14 aprile 1945. Decreto del presidente della Repubblica 12 giugno 1984.
A Vergato in provincia di Bologna, medaglia d’oro al valore civile per la Resistenza partigiana e per la resistenza ai bombardamenti, si sceglie nel 2004 di commemorare i resti di un edificio religioso e di ricordare la tenacia del paese nella ricostruzione:
Qui sorgeva l’antica chiesa dedicata a S. Maria visitante. Il 22 agosto 1944 venne distrutta da uno dei 23 bombardamenti aerei che portarono lutti e danni gravissimi al paese. Di quella chiesa è rimasto solo il piccolo bassorilievo marmoreo qui esposto. Il 22 agosto 1954, in un paese che tenacemente rinasceva, venne inaugurata la nuova parrocchiale. La Comunità vergatese 22 agosto 2004.
Le targhe commemorative delle vittime dei bombardamenti sono talvolta generiche, per ricordare «orrendi misfatti» compiuti non si dice da chi, come a Fornovo di Taro in provincia di Parma già nel 1961: «Qui il doloroso ricordo delle vittime delle 206 incursioni belliche trovi un conforto e una speranza che mai più siano compiuti così orrendi misfatti, 19-7-1961. L’amministrazione comunale».
La memoria della guerra in Emilia-Romagna è quindi legata principalmente alla lotta di liberazione e alla campagna alleata lungo la Linea gotica. Il comune di Argenta in provincia di Ferrara, per es., fu insignito della medaglia d’argento al valor militare con la motivazione:
Intrepida custode delle nobili tradizioni risorgimentali, Argenta, generoso centro della pianura ferrarese, subì, per lunghi mesi, le atroci e inenarrabili sofferenze della guerra che vide i suoi edifizi, i suoi casolari, i campi fecondi, trasformati dalla furia e dall’odio dell’invasore in fortilizi e trincee nell’estremo tentativo di impedire l’inevitabile disfatta. Sottoposta a massicci bombardamenti che provocarono nell’intero territorio del Comune numerosissime vittime nonché la completa o parziale distruzione di quindicimila vani, la popolazione sopportò ancora l’atroce rappresaglia dell’oppressore, che invano tentò di annullare l’indomita resistenza dei suoi figli consacrati […] alla lotta armata.
Argenta fu inoltre insignita della medaglia d’oro al valore civile perché
sopportava, con fierissimo e dignitoso contegno, spaventosi bombardamenti aerei e terrestri, subendo la distruzione della maggior parte del centro abitato e offrendo alla causa della patria e della libertà il sacrificio eroico di numerosissimi suoi figli.
La popolazione eroica perché sopporta i bombardamenti rientra in entrambe le motivazioni, militare e civile, ed è ancora una volta accomunata alla resistenza al tedesco oppressore e alla lotta armata di liberazione (http://www.radiocorriere.tv/emilia_romagna/Argenta_fe.html). All’inizio del 2013, l’amministrazione comunale realizzò un museo all’aperto della Linea gotica, raccogliendo fra l’altro resti di palazzi storici bombardati, fino ad allora rimasti in magazzini comunali (Argenta e la memoria. Museo all’aperto sulla Linea gotica, «La Nuova Ferrara», 13 gennaio 2013). Il riemergere della memoria dei bombardamenti, seppure in chiave politicizzata e polemica, è inevitabile se si pensa al divario che era prevalso per decenni fra memoria negata ed esperienza vissuta. Alle vittime delle stragi tedesche in Italia e all’estero, ai prigionieri di guerra e ai reduci, si affiancano sempre più spesso gli sfollati, i morti e i feriti per le incursioni aeree.
Il Tirolo si trova sulla linea di frattura tra mondo tedesco e mondo latino, quasi una regione transfrontaliera comprendente il Sud Tirolo e il Trentino. La regione sudtirolese passò da un’annessione all’Italia vista come ingiusta (1918-19) alla forzata italianizzazione fascista, fino all’espulsione delle minoranze non italiane in collaborazione con la Germania nazista (con lo spostamento della popolazione tedesca nel Reich) e alla persecuzione anti-italiana nel 1943-45. Durante questo periodo, però, e ancor più in seguito con l’autonomia regionale, la regione tentò un compromesso dialettico fra diversi modelli identitari, attraverso la coesistenza separata dei diversi gruppi linguistici con diverse nazioni di riferimento (Austria, Italia), ma anche promuovendo la costruzione di una Heimat multiculturale (cfr. Luverà in Altre Italie, 2003, pp. 23-24).
Da un’analisi delle memorie del dopoguerra, sembra che le popolazioni abbiano talvolta creduto in un trattamento diverso da parte dei bombardieri a seconda del loro atteggiamento verso il regime e verso i tedeschi. La memoria riflette le percezioni dell’epoca: Giacomo Guglielminetti, nato a Vercelli nel 1928 e cresciuto a Torino, ricordò nelle sue memorie del tempo di guerra come, dopo l’incursione del 18 novembre del 1942 su Torino, Radio Londra avesse annunciato l’arrivo di ulteriori bombardamenti, dando, secondo lui, alla popolazione, conosciuta per il suo antifascismo, il tempo di lasciare la città (Archivio diaristico nazionale, MG/02, G. Guglielminetti, Cronache di un’adolescenza di guerra, memoria inedita, p. 1). Al contrario, una donna del Sud Tirolo, regione in cui l’arrivo delle truppe germaniche il 4 settembre 1943 era stato accolto da manifestazioni di benvenuto, sostenne che quel giorno Radio Londra aveva avvertito che nuove incursioni avrebbero punito gli abitanti di Bolzano per tutti i fiori e le mele che le donne sudtirolesi offrivano all’invasore tedesco (Archivio diaristico nazionale, DG/06, A. Vita, Il mio segreto diario di guerra, diario inedito, p. 24, 4 settembre 1943). Il bombardamento, qui come in altre memorie della regione, diventa punizione per una colpa collettiva (cfr. Pedron, Pontalti 2001).
Nel caso del Friuli Venezia Giulia il contesto è diverso da quello nazionale, dove l’unità antifascista dura più a lungo (cfr. A. Cattunar, Le ‘memorie lunghe’ della guerra sul confine italo-jugoslavo. Narrazioni individuali, pubbliche, politiche, cap. 3, § 19 ). Qui sono la memoria della Shoah e quella delle foibe a permeare il discorso pubblico e la battaglia della memoria, assai più che i bombardamenti alleati. Le due memorie sono talvolta unificate in tentativi di pacificazione, che vedono lo Stato partecipe insieme alla regione. Per es., nel 2000 il presidente della Repubblica Ciampi si recò in pellegrinaggio alla Risiera di San Sabba, alla foiba di Basovizza e al campo di internamento degli sloveni a Gonars (nel Friuli orientale).
Questo formarsi di memoria collettiva, che riconosce dignità di pari presenza a quelle che sono state le memorie divise e contrapposte, ha un substrato comune: il riconoscimento che la società triestina è stata nel suo complesso vittima dei totalitarismi che vi si sono abbattuti (Valdevit, in Altre Italie, 2003, p. 48).
Nel Friuli, quando si tengono commemorazioni dei bombardamenti, non vi sono recriminazioni né attribuzioni di colpa, ma semplicemente si ricordano le vittime nei luoghi in cui vi sono stati dei morti. A Latisana in provincia di Udine per es. si ricordano nel maggio 2013 i bombardamenti del paese, con messa in suffragio per le vittime. L’evento si conclude con il suono della sirena di preallarme e la sera si forma un corteo che si reca a San Michele al Tagliamento, dove si mette in scena una rievocazione storica della vita civile sotto le incursioni. Sono associazioni del territorio che organizzano questi eventi, alla presenza anche di associazioni dell’Arma.
Come si è visto da memorie, articoli sui giornali e altre pubblicazioni locali, poesie, monumenti e commemorazioni pubbliche, in tutte le regioni del Nord l’articolarsi della memoria dei bombardamenti è stato caratterizzato da difficoltà, conflitti, rimozioni e zone d’oblio. La leggenda più diffusa che accomuna tutte le regioni del Nord Italia, quella del piccolo aeroplano denominato Pippo, è stata recentemente interpretata come un tentativo, spesso inconscio, di risolvere le ambiguità intrinseche al difficile rapporto tra le popolazioni civili e i bombardieri alleati (cfr. C. Baldoli, M. Fincardi, Italian society under Anglo-American bombs: propaganda, experience, and legend, 1940-1945, «The historical journal», 2009, 4, pp. 1017-38). Diffusa principalmente durante l’occupazione tedesca e la Repubblica sociale, la leggenda, tramandata fino a oggi da interviste, diari, memorie scritte e siti Internet, parla di un pilota solitario, quasi un velivolo antropomorfo, che sorvolava le case degli italiani controllandone il comportamento: infatti, esso fotografava o addirittura bombardava coloro che ignoravano le precauzioni della difesa antiaerea. Secondo la friulana Palmira Marchioli, per es., Pippo sorvegliava ogni notte l’intera provincia intorno a Monfalcone fotografando «tutto» (Archivio diaristico nazionale, A/Adn2, P. Marchioli, Ricordi, memoria inedita scritta nel 1970, p. 10). Due abitanti di Prevalle, in provincia di Brescia, raccontarono nel 2008 che quando arrivava Pippo era necessario affrettarsi a coprire le finestre con carta blu in modo che nessuna luce apparisse da fuori: altrimenti Pippo avrebbe bombardato (Ricordi Ninetta... Uomini e donne di Prevalle si raccontano, a cura del Comune di Prevalle, Brescia 2008, p. 55 e p. 71). Nella maggior parte dei racconti, Pippo era un pilota angloamericano. Riccarda Fedriga di Rovereto ricordò che Pippo volava sempre in isolamento e che lanciava bombe quando notava luci nelle case o di automobili. Da una parte, esso era meno minaccioso degli altri bombardieri, e lo si attendeva arrivare la sera; dall’altra, era però fastidioso, e non si riusciva a capire se fosse inglese o americano. Secondo Elettra Sarra, adolescente a Trento durante la guerra, Pippo era un aereo di ricognizione britannico rifornito di due piccole bombe, che il pilota sganciava appena scopriva delle luci o movimenti sospetti. La mattina, ella ricordò nelle sue memorie, le «passeggiate» di Pippo nel cielo erano l’argomento principale di conversazione del vicinato (Archivio diaristico nazionale, MG/03, E. Sarra, A ritroso nel tempo, memoria inedita scritta nel 2000-2002, p. 138). Altre testimonianze, tuttavia, non specificano alcuna precisa nazionalità, o ne attribuiscono a Pippo una ambigua: un italiano al servizio del nemico, o un aereo italiano o tedesco che spiava la popolazione. Simili percezioni si trovano in diari scritti in quegli anni. La giovane piemontese Paola Susini, da poco diplomata alle magistrali e sfollata in provicia di Asti, scrisse nel suo diario che Pippo era anche chiamato «il Badogliano, che quando vede la luce sgancia bombe a mano» (Archivio diaristico nazionale, DG/04, P. Susini, Diario agosto 1944-agosto 1946, diario inedito, 19 settembre 1944, p. 4). L’adolescente ligure Franco Pogioli raccontava, anch’egli nel 1944, che un aeroplano isolato era apparso nel cielo, lanciando volatini e identificandosi come aereo italiano nominato Pippo. In un’occasione, visto che Pippo non si era presentato per alcune notti di seguito, Franco decise di abbandonare la galleria-rifugio e di dormire finalmente in casa; l’immediato ritorno di Pippo lo costrinse però a tornare in galleria (Archivio diaristico nazionale, DG/89, F. Pogioli, Il bidone in cima a un palo, 2 e 9 settembre 1944, p. 35 e p. 38).
Come altre false notizie sui bombardamenti, Pippo impersonificava le difficoltà degli italiani nel loro tentativo di opporsi a un regime che avevano sostenuto, ma che aveva poi portato la guerra nelle loro case e imposto regole oppressive senza riuscire veramente a proteggerli. Il mito dell’improbabile pilota, avvistato al tempo stesso in tutte le regioni del Nord Italia, era il simbolo del difficile rapporto delle popolazioni civili con le forze aeree alleate, che mandavano messaggi amichevoli agli italiani attraverso i volantini, ma al tempo stesso li punivano con le bombe per il loro sostegno al regime fascista. Presente soprattutto nelle regioni del Nord del Paese, Pippo infine rappresentava la collaborazione complessa fra gli Alleati e coloro che resistevano all’occupazione tedesca. Diverse testimonianze raccontano infatti di come Pippo rifornisse i partigiani lanciando materiale con dei paracadute; anche in quel caso, le sue visite erano comunque preoccupanti, perché non era mai del tutto certo da che parte Pippo fosse. Malgrado ciò, alcuni testimoniarono, i partigiani utilizzavano la seta e il cotone dei paracadute di Pippo (cfr. M. Carazzolo, Più forte della paura. Diario di guerra e dopoguerra (1938–1947), 2007, p. 204 e pp. 250-51; Archivio diaristico nazionale, MG/Adn, I. Bresadola, I nostri verdi anni, memoria inedita scritta a Massa Carrara nel 1965, p. 96; Archivio diaristico nazionale, MG/04, A. Carrara, La mia guerra, memoria inedita scritta in provincia di Parma nel 1990, p. 17). Minaccia costante per alcuni, per altri Pippo era abile consigliere, in grado di avvertire di pericoli in arrivo. Questa contraddizione riflette il rapporto incerto ma intenso che emerse, soprattutto dopo l’armistizio e nelle regioni soggette alla Repubblica sociale, fra la nascita di un’opinione pubblica libera e la propagada alleata; ma anche l’ambivalenza politica con cui le popolazioni civili dell’Italia fascista, al tempo stesso vittima e aggressore nella guerra, percepivano i bombardamenti alleati. Complicazioni, come si è visto, a lungo ignorate nelle commemorazioni ufficiali in ricordo delle vittime delle incursioni.
In Liguria, ma anche – parzialmente, soprattutto quando i bombardamenti sono ricordati in relazione alla storia della Resistenza – in Piemonte e in Emilia, si è costruita una memoria non solo comunale ma anche regionale dei bombardamenti, in particolare all’interno di pubblicazioni e ricostruzioni storiche. Durante le commemorazioni pubbliche delle vittime a livello locale e nei testi delle lapidi e dei monumenti a esse dedicate, il riferimento alla regione tende invece a scomparire per lasciar posto a una narrativa municipale. Con poche eccezioni, sono le città le protagoniste della tragedia: testimoni di eroismo esemplare in una resistenza indifferenziata all’oppressione nazifascista e ai bombardamenti alleati – quasi mai però definiti tali. Sono le città antifasciste, vittimizzate dalla violenza e per questo insignite di medaglie d’oro, a ricordare le bombe insieme agli altri eposodi di quella e di altre guerre.
Le motivazioni della prevalenza di memorie comunali (e/o gestite dai comuni), anziché regionali (e/o gestite delle regioni), rispetto ai bombardamenti angloamericani nel Nord Italia, sono principalmente storiche. Di fronte alla crisi politica e allo stato di emergenza dell’immediato dopo-liberazione, furono i comuni a porsi come «cerniera di un nuovo dialogo tra istituzioni e società» (Paggi 2009, p. 10). Nelle memorie della guerra sono inoltre talvolta i quartieri ad assumere centralità ancor più che la città o la regione: «io, noi, il quartiere sono soggetti che si intersecano a costituire il puzzle di un’unica realtà: lì il mondo esterno non chiama direttamente in causa l’interiorità» (Mariani, in Bologna in guerra, 1995, p. 437).
Istituite le regioni nel 1970, si rileva già all’inizio degli anni Settanta come non vi fossero, nelle loro attribuzioni, chiare direttive sui temi relativi alla politica culturale. Nei piani delle regioni si trovano solo «indicazioni frammentarie, talvolta collegate al turismo talaltra all’istruzione, che non consentono di individuare né un discorso compiuto né una sensibilità al problema» (G. Bechelloni, Politica culturale e regioni. Intervento pubblico e sociologia del campo culturale, 1972, p. 75). Commemorazioni di eventi storici hanno quindi raramente riguardato le istituzioni regionali. Nella maggior parte dei casi sono stati i comuni a gestire la memoria storica, anche perché ne furono a lungo gli unici interpreti. È noto che, nella maggioranza della popolazione, si è fatta strada l’idea che l’efficacia amministrativa sia tanto più alta quanto più ci si allontani dal governo nazionale e quanto più ci si avvicini a quello locale – una percezione che ha fatto da sfondo allo sviluppo della Lega nord negli anni Novanta. Giuliano Amato rilevava già nel 1972 l’acrimonia antistatale degli enti locali ponendo la questione del ruolo della regione nel sistema di potere locale e nei confronti di quello centrale (La via italiana alle regioni, a cura di D. Serrani, 1972, p. 33). Sentimenti ancora vivi, come si è visto, durante alcune recenti commemorazioni delle vittime dei bombardamenti in città come Milano e Treviso.
Questo contributo ha cercato di esaminare le trasformazioni nel tempo della memoria regionale dei bombardamenti nel Nord Italia, esplorando diversi cicli di memorie in rapporto ai cambiamenti politici e al susseguirsi delle generazioni. Si è visto come una memoria dei bombardamenti si costruisca già durante la guerra, immediatamente in seguito alle incursioni, per poi modificarsi nel corso dei decenni. Come è emerso soprattutto negli ultimi vent’anni, non esiste una memoria condivisa; le memorie sono divise, ma anche frammentate, come lo erano state le esperienze stesse. Le vittime sono ricordate e descritte, a seconda delle volte, come popolazioni civili resistenti alla violenza di una guerra voluta dal fascismo e all’occupazione tedesca, o, al contrario, come innocenti e perfino martiri – cadute per il volere di un nemico che si presentava come alleato liberatore. Durante il periodo della guerra fredda prevalse la prima versione: come sostiene Leonardo Paggi,
la scomparsa dei bombardamenti angloamericani dalla memoria repubblicana interferisce quindi direttamente con il modo in cui si definisce la politica (e successivamente la tradizione) dell’antifascismo, che approda alla assoluta centralità della lotta armata antitedesca, come sostanzialmente unico criterio di misura dello sviluppo di una transizione democratica (2009, p. 146).
In seguito allo sgretolamento dei partiti ‘nati dalla Resistenza’ e al ritorno del (neo)fascismo al governo dal 1994, nelle regioni e nei comuni governati da maggioranze di centro-destra è riemersa la seconda versione, talvolta strumentalizzata dall’estrema destra in un recupero quasi pari passu della retorica della Repubblica sociale, con la riutilizzazione di materiale dell’epoca e la messa in discussione del termine Alleati. Questo tipo di condizionamento politico si è reso visibile soprattutto nei casi di un quartiere di Milano (Gorla) e di Treviso, mentre negli stessi anni, a Torino, dove la transizione fra ‘prima’ e ‘seconda’ repubblica fu meno traumatica, è stato possibile lo sviluppo di una ricostruzione storica meno infuocata dal clima politico. Mentre a Milano e Treviso la battaglia per la memoria, iniziata da gruppi di cittadini, fu impugnata dalle amministrazioni comunali, a Torino essa divenne parte di un discorso pubblico sulla storia della città avanzato da istituzioni culturali attraverso ricerche, mostre, musei e convegni scientifici. Ricerche storiche recenti hanno cercato di restituire alla storia dei bombardamenti la complessità con cui essa fu vissuta all’epoca dalle popolazioni civili. Secondo Gabriella Gribaudi, storici ortodossi e revisionisti sono stati a lungo uniti da un concetto ‘virile’ di patria, che ha privilegiato le ragioni dei combattenti, indicando il resto come zona grigia, e finendo quindi con l’ignorare l’esperienza di gran parte della popolazione (2005, p. 27). Questa visione della storia della Seconda guerra mondiale è prevalsa anche nell’elaborazione della memoria pubblica a livello nazionale, e spesso, con alcune eccezioni e soprattutto negli ultimi vent’anni, anche comunale e regionale.
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