La medicina mesopotamica: la filosofia, i medici e le pratiche
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La medicina mesopotamica è testimoniata da tavolette cuneiformi provenienti dalla Biblioteca di Assurbanipal e da altri siti archeologici, dal Codice di Hammurabi, da testi del periodo assiro medio e del medio babilonese. La malattia è, in queste fonti, intesa come causata dal dio in conseguenza di colpe commesse dal paziente, di sortilegi o della semplice volontà di uno spirito negativo. Il medico babilonese, forte di un sistema nosologico, che associa i sintomi del paziente alle divinità in grado di provocare tali sintomi, e di un sistema prognostico largamente fondato sulla pratica empirica, dispone di terapie magiche, spesso a base di erbe.
Le civiltà mesopotamiche, sviluppatesi nei territori tra i fiumi Tigri ed Eufrate per almeno 4000 anni, hanno probabilmente introdotto in modo stabile, anche grazie all’uso sistematico della scrittura, due importanti novità nel modo di concettualizzare la malattia, che pur rimane improntata dall’esperienza religiosa e mitopoietica: un sistema nosologico, basato sull’associazione tra configurazioni di sintomi localizzati a livello di diversi organi e i nomi degli dèi responsabili di provocarli, e una modalità di pronosticare l’evoluzione della malattia presagendo la sorte del paziente sulla base di segni ricavati anche dall’esperienza.
Alle prime dinastie di Ur (2563-2387 a.C. ca.) e Lagash (2494-2342 a.C. ca.) si fanno risalire i più antichi testi medici e le prime farmacopee, contenenti informazioni su preparati di origine essenzialmente vegetale, ma non esistono rappresentazioni figurative né studi di materiale scheletrico di qualche utilità per approfondire la tradizione medica evolutasi nel mondo mesopotamico; nonostante l’abbondanza di tavolette cuneiformi ritrovate, infatti, quelle di argomento medico sono solo 1000, all’incirca, di cui 660 provenienti dalla biblioteca di Assurbanipal e conservate al British Museum, e circa 420 provenienti da diversi siti, tra cui la casa privata di un medico pratico (un asipu) di Assur nell’età neoassira, e alcuni testi del periodo assiro medio e del medio babilonese.
La maggior parte delle tavolette riportano prescrizioni, mentre alcune contengono riferimenti incrociati e sembrano organizzate in “trattati”. Il più esteso di questi trattati consiste di 40 tavolette ed è stato raccolto e studiato da René Labat, che ne ha pubblicato la traduzione nel 1951 con il titolo di Trattato accadico di prognosi e diagnosi mediche. Anche se la copia più antica esistente di questo trattato è stata datata intorno al 1600 a.C., il testo consiste di una sintesi delle conoscenze mediche che hanno circolato nell’intero mondo mesopotamico. Il trattato è organizzato secondo un ordine che procede dalla testa ai piedi, con sottosezioni dedicate ai disturbi convulsivi, alla ginecologia e alla pediatria. Nonostante la traduzione riecheggi in qualche modo una sorta di formulario magico, in realtà le descrizioni rivelano una spiccata capacità di osservazione e propongono solitamente soluzioni astute dei problemi descritti. Quasi tutte le malattie che ci aspettiamo di trovare sono presenti nel trattato e la maggior parte dei trattamenti descritti nei testi sono sensati e razionali.
Sempre nel periodo delle prime dinastie sumeriche si costituisce una corporazione di asû, che sono allo stesso tempo guaritori e veggenti. Gli asû si vanno specializzando come medici dediti prevalentemente a una terapia positiva, sono poco numerosi e concentrati nelle coorti e nelle capitali. L’asû è considerato il medico vero e proprio, depositario del sapere empirico riguardo i trattamenti. Per esempio, nel trattare le ferite egli si basa sull’uso di tre tecniche fondamentali, descritte nel più antico documento medico conosciuto e datato intorno al 2100 a.C.: lavare la ferita, bendare e preparare impiastri medicamentosi. Per quanto riguarda la preparazione degli impastri, l’asû si basa su conoscenze tramandate e sull’esperienza diretta che permette di capire, per esempio, che riscaldando alcune resine vegetali o grassi animali con alcali (in questo caso di ricava il sapone che può evitare l’infezione batterica) si ottengono prodotti dotati di effetti benefici. Alcune tavolette descrivono delle procedure chirurgiche utilizzate dall’asû, come l’incisione del torace di un paziente per drenare il pus da una pleura e il raschiamento del cranio di un altro paziente; un’altra tavoletta suggerisce come effettuare la cura postoperatoria di una ferita chirurgica e raccomanda l’applicazione di una medicazione a base di olio di sesamo, che funziona, oggi sappiamo, come agente antibatterico.
All’asû si affianca un’altra figura, l’âshipu, cui spetta la pratica corrente e che utilizza prevalentemente ricette magiche o pratiche esorcistiche. Il ruolo principale dell’âshipu è quello di diagnosticare la natura del disturbo, e in particolare se l’origine sia dovuta a qualche trasgressione o peccato da parte del paziente. Non è ben chiaro quali siano i rapporti tra le due categorie di guaritori, âshipu e asû, ma probabilmente essi collaborano e condividono i pazienti, scambiandosi, in alcune occasioni, anche i ruoli.
Nel XVIII secolo a.C., il secolo di Hammurabi, a Nippur fiorisce un’importante scuola medica sotto gli auspici di una dea della salute, Gula. Dopo la conquista dell’impero creato da Hammurabi da parte degli Ittiti, avvenuta verso il 1600 a.C., l’antico sapere medico sumerico e accadico viene conservato nelle tavolette di argilla, scritte in caratteri cuneiformi e custodite nelle biblioteche, e così tramandato attraverso i secoli.
I Babilonesi designano le malattie con i nomi degli dèi, dato che gli dèi o gli spiriti sono le cause delle malattie stesse. Al letto del malato il medico proferisce l’invocazione “mano di …” Ishtar o Shamash o Ea o Sin ecc. per denunciare una specifica presenza occulta nel corpo del malato. Alcune malattie vengono comunque identificate semplicemente con nomi specifici: per esempio l’epilessia ricorrente è denominata bennu (termine che probabilmente indica i sintomi convulsivi dato che si trova associato anche con manifestazioni febbrili ricorrenti, caratteristiche verosimilmente di infezioni malariche). Le ragioni della condizione di sofferenza possono essere una colpa o peccato commesso dal malato (adulterio, incesto, sacrilegio ecc.), per cui la divinità si è adirata, oppure qualche sortilegio (filtro magico o formula malefica) di cui il malato è stato vittima. La malattia può anche essere dovuta alla natura malefica di qualche demone vagante e sempre in cerca di una preda (per esempio Lamashtu, che è un angelo caduto e divenuto insaziabile divoratore di bambini, o Lilith e Lilû, demoni assetati di sesso che cercano di abusare furtivamente di uomini e donne, o Kubû, feto abortito che vaga alla ricerca di un altro asilo uterino).
Il medico deve stabilire se è presente un demone e quale, interrogando il paziente per sapere se nel corso della sua vita e nella storia della sua famiglia sia stato commesso qualche crimine che possa essere all’origine della malattia/espiazione. Se viene scartata l’eventualità della possessione da parte di forze occulte, le cause a cui ci si rivolge sono il freddo, il secco, le polveri sollevate dai venti o i miasmi esalati dalle paludi. Le malformazioni congenite sono considerate tra le possibili cause, così come il “mal d’amore”. I medici del mondo mesopotamico sanno comunque benissimo che le malattie possono essere causate semplicemente dal malfunzionamento di diversi organi. Gli dèi possono essere chiamati in causa per tale malfunzionamento, ma si tratta di un modo di ricondurre il sintomo alla malattia.
Le piante usate nei trattamenti sono generalmente ritenute efficaci per la cura dei sintomi della malattia e non sono prodotti somministrati per scopi magici o per tenere sotto controllo qualche spirito. Probabilmente vengono fatte anche delle offerte alla divinità o allo spirito ritenuti responsabili della malattia, ma di queste pratiche religiose non si trova traccia nei testi medici.
Mentre le indagini del medico nelle società mesopotamiche vengono affiancate da quelle di sacerdoti che interpretano i sogni e praticano divinazioni, e si cominciano a stabilire associazioni tra i movimenti degli astri e i destini umani, nondimeno il medico stesso cerca di presagire la sorte del paziente, creando i presupposti per quella che diventerà la pratica principale della medicina ippocratica. Sono state stabilite importanti corrispondenze tra testi del Corpus hippocraticum, come il Pronostico e il Prorettico, e alcuni testi medici accadici. Le alternative prognostiche sono elementari: il paziente guarirà (iballut) o morirà (imât). Anche se talvolta le prognosi vengono fatte sulla base di osservazioni empiriche (il colore delle urine o la tipologia di febbre) o di indicatori numerici che anticipano la dottrina ippocratica dei giorni critici, in prevalenza sono dei presagi a influenzare la prognosi.
Tra i contributi della cultura civile mesopotamica troviamo, nel cosiddetto Codice di Hammurabi, la prima discussione legale sull’imputabilità dei medici che praticano la chirurgia. Di fatto, il chirurgo è ritenuto responsabile per gli errori e gli insuccessi. Dato che il codice riconduce l’imputabilità all’“uso del coltello”, si ritiene che gli errori o i fallimenti di natura non chirurgica nella cura delle malattie non siano penalmente perseguiti. In base alla legge cosiddetta di Hammurabi l’entità del compenso per il successo o della pena per l’errore dipende dallo status del paziente. Così, se il chirurgo opera e guarisce una persona di alto lignaggio, il paziente deve pagarlo 10 monete d’argento. Mentre per l’operazione e guarigione di uno schiavo egli riceve 2 monete. Allo stesso tempo se la persona di altro lignaggio muore come conseguenza dell’intervento chirurgico il medico può essere condannato all’amputazione della mano. Ma se a morire è uno schiavo, deve solo pagare il costo per rimpiazzarlo.