La fortuna di Croce in Italia
L’apparizione dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale nel 1902, seguita l’anno successivo dall’avvio della «Critica», segna un momento decisivo per la ricezione del pensiero di Croce, che in breve tempo sarebbe diventato un maestro e un punto di riferimento per una generazione di giovani intellettuali. L’Estetica ebbe molti riconoscimenti e suscitò un dibattito teorico in cui tuttavia non mancarono le critiche: Giovanni Papini aveva scritto a Croce giudizi molto positivi sulla sua opera, letta e discussa con Diego Garoglio, mentre per i punti di dissenso rimandava all’articolo che quest’ultimo stava preparando (L’Estetica di Benedetto Croce, «Il Marzocco», 9 nov. 1902, pp. 1-2). Dopo aver ampiamente lodato l’Estetica, Garoglio rimproverava a Croce di aver combattuto validamente «l’intrusione della metafisica nell’estetica», ma senza esserne a sua volta immune, giacché il suo concetto «dell’io senza limiti, libero ecc. sa di assoluto lontano un miglio, e non è forse estraneo alla tradizione Hegeliana» (pp. 1, 2).
Nel 1904 Antonio Aliotta dedicava un saggio a La conoscenza intuitiva nell’Estetica del Croce, cui nello stesso anno seguirono su «Hermes» la risposta crociana Conoscenza intuitiva ed attività estetica (1, 3, pp. 142-46) e la replica di Aliotta Il presupposto metafisico dell’Estetica di B. Croce (1, 4, pp. 187-93). Per Aliotta l’estetica crociana può essere accettata solo accogliendo «la teoria metafisica che ne costituisce il fondamento» e secondo cui «lo spirito è la realtà assoluta» al di fuori del quale non esiste nulla; l’espressione va intesa come «lo spirito che si concreta» e ne rappresenta un primo momento cui segue «la conoscenza filosofica» (Il presupposto metafisico, cit., poi in L’Estetica del Croce e la crisi dell’idealismo italiano, 1920, p. 54). Il nucleo metafisico della filosofia crociana è ricondotto a un modello hegeliano, da cui Croce avrebbe tratto il suo «metodo aprioristico» (p. 54). Dopo la pubblicazione dei Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro (1905), anche Papini prese pubblicamente le distanze da Croce, definendolo, ancora una volta, se non hegeliano almeno «hegelianoide» (La Logica di B. Croce, «Leonardo», giugno-agosto 1905, p. 116).
In questi anni l’influenza crociana si sentì nettamente in ambito letterario, dove l’Estetica e i saggi della «Critica» riuscirono con relativa facilità a imporsi sia rispetto alla scuola storico-positivistica – che al rigore del lavoro preparatorio e dell’erudizione non faceva corrispondere un pari senso della poesia –, sia rispetto alle derive estetizzanti delle poetiche decadentistiche (cfr. Binni 1993, pp. 117-19). Fin dall’inizio del 1903, un giovane Giuseppe Antonio Borgese, che nel decennio successivo si sarebbe progressivamente allontanato da Croce, pubblica alcuni articoli sul «Leonardo» dove traspaiono istanze crociane: per il poeta la parola è «espressione di conoscenza, […] immagine», non lontana dunque dalla intuizione/ espressione crociana intesa come forma teoretica volta all’individuale (Parola e immagine, «Leonardo», 8 febbr. 1903, pp. 4-5; cfr. Orvieto 1988, pp. 16 e segg.). Per Borgese, in maniera non dissimile dal Croce della prima Estetica, la «parola critica […] vale giudizio estetico», e «bello significa qualcosa di diverso da morale, da utile, da conforme a un modello e così via» (Metodo storico e metodo estetico, «Leonardo», 8 marzo 1903, p. 3). Contro il positivismo della scuola storica Borgese si appellava all’autorità crociana per rivendicare l’importanza delle «prime impressioni libere, o se si vuole, antiscientifiche» (p. 4), e allo stesso modo negava l’importanza per il giudizio estetico di elementi esterni all’opera come la biografia dell’autore, sostenendo, piuttosto, che «la vita intima dell’artista si traduce nella sua opera, e la storia dell’arte non può fondarsi che su questa» (p. 5). Nonostante alcune riserve, Croce apprezzò gli scritti di Borgese, e nel 1905 decise di pubblicare la sua tesi di laurea sulla Storia della critica romantica in Italia – lavoro che segna il momento di maggior vicinanza tra i due.
Per alcuni anni la presenza di Croce si poté avvertire in maniera nitida nel gruppo legato alla «Voce»: alla rivista collaborarono importanti intellettuali in varia misura vicini a lui e ai suoi lavori, come Ardengo Soffici ed Emilio Cecchi, ma fu forse Renato Serra a dare uno dei contributi più interessanti alla storia della fortuna crociana. Negli anni in cui Croce aveva portato a compimento il suo sistema – con la Filosofia della pratica. Economica ed etica (1909) e le nuove edizioni dei Lineamenti (con il titolo Logica come scienza del concetto puro, 1909) e dell’Estetica (19083) –, Serra sottolineava il proprio fastidio per le «idee astratte» (Per un catalogo, in Scritti critici, 1910, p. 98) – alludeva con ogni probabilità ai distinti –, valorizzando invece la concretezza delle indagini particolari di Croce, riscontrabili in molti suoi saggi che «si direbbero scritti da uno che certo non ha letto l’Estetica» (Le lettere, 1914, p. 146). Attratto dall’uomo più che dalla pagina, Serra non poteva certo dirsi crociano: nel citato Per un catalogo egli istituiva una polarità tra le debolezze del proprio pensiero e la «forte natura» di Croce, per il quale aveva profonda ammirazione e stima, ma alla fine la sensazione provata era di «freddo» (in Scritti critici, cit., pp. 98, 100). In Le lettere diventa più complesso il ritratto di Croce, un pensatore inquieto, mai appagato delle soluzioni trovate: il problema della storia, cui Serra era particolarmente sensibile, aveva avuto nei suoi scritti una «risoluzione elegante e compiuta», ma Croce ancora ne era tormentato e non aveva esitato a riprenderlo e a rinnovarne la soluzione con le memorie confluite poi in Teoria e storia della storiografia (apparso in tedesco nel 1915 e in italiano nel 1917), che senza uscire «dall’ambito sistematico […] pur hanno posato il dito su una piaga più profonda», l’«antinomia del presente e del passato, dell’uno e dei molti, dell’identico e del distinto» (Le lettere, cit., pp. 144-45). L’universo crociano non sembra più così pacificamente intelligibile, e non così forte la sua natura: dietro «la bonomia tranquilla» del viso di Croce, «si rivela a tratti la maschera dura pesante tetra di un pensiero ignoto» (pp. 145-46; cfr. Ciliberto 2006, 2012, pp. 80-81).
Dalla fine del 1911 «La Voce» non ebbe più un’impronta prevalentemente crociana: è sintomatico che proprio sulle sue pagine si sia manifestato, alla fine del 1913, per la prima volta pubblicamente il dissidio fra Croce e Gentile. La rivista ospitò anche la polemica tra Giovanni Boine e Croce, che rappresentò nella maniera più evidente un momento di crisi nel rapporto di quest’ultimo con i ‘giovani’ nel primo decennio del secolo. Boine aveva pubblicato il saggio L’esperienza religiosa («L’anima», 1911, 10, pp. 291-319) dove era messo in luce il ruolo dirompente entro il sistema crociano della «vita», grazie a cui si dà il divenire, mentre le forme dello spirito sono «per sempre fissate» (in L’esperienza religiosa e altri scritti di filosofia e letteratura, a cura di G. Benvenuti, F. Curi, 1997, p. 124); con Un ignoto e L’estetica dell’ignoto, apparsi sulla «Voce» l’8 e il 29 febbraio 1912 (pp. 750-52 e 766), egli metteva in discussione la possibilità stessa di una critica puramente estetica perché essa muoverebbe da «un punto di vista astratto, irreale, comodo per schemi pratici, ma falso in concreto» (L’estetica dell’ignoto, cit., in L’esperienza religiosa e altri scritti, cit., p. 162). L’analisi estetica non può essere amorale (senza tuttavia dover essere moralistica), dunque la specificità del giudizio estetico crociano viene a cadere. Infine Boine attacca direttamente le tre opere del sistema crociano, affermando di preferire «un discorso un po’ oscuro in cui intraved[e] della polpa in fondo […] a un discorso troppo chiaro di insufficienti formule» (pp. 162-63). Croce rispose con durezza, accusandolo di misticismo – come avrebbe fatto dopo poco tempo con l’idealismo attuale –, e segnando in questo modo l’allontanamento di una generazione dal crocianesimo. Stava, ormai, iniziando un’altra storia.
Nel secondo decennio del Novecento, e in particolare con la grande guerra, il ruolo di Croce nel panorama culturale italiano muta profondamente: egli non è più il principale punto di riferimento per i giovani, ai quali appare piuttosto come un pensatore statico, incapace di comprendere le loro esigenze. Il suo atteggiamento verso il conflitto sarà ben diverso da quello di Gentile, il quale diverrà per qualche anno la guida filosofica e morale della nuova generazione. Croce entrava in una fase di solitudine filosofica e politica – appena alleviata negli anni del fascismo dalla ristretta cerchia di oppositori al regime radunati attorno a lui – dalla quale non sarebbe più pienamente uscito (cfr. Ciliberto 2012).
I primi allievi di Gentile formatisi a Palermo continuarono a tenere in gran conto la filosofia di Croce, ma essa fu spesso considerata come un momento preliminare rispetto all’attualismo. Vito Fazio-Allmayer distingueva nel 1912 la teoria crociana, per cui l’essere delle scienze è «atto pratico», da quella gentiliana, che considera le scienze «come atto teoretico»; tuttavia egli affermava che «l’azione appartiene alla vita dello spirito in quanto è conosciuta, cioè in quanto, essendo atto pratico, è nello stesso tempo atto teoretico» (Per il concetto moderno di scienza, «La Cultura», 33, 5, p. 144). Pur nel profondo rispetto per Croce, il ragionamento di Fazio-Allmayer considerava i distinti crociani completamente riassorbiti e superati nell’Atto puro gentiliano. Nello stesso anno Guido De Ruggiero giudicava «l’opera del Croce [...] lo sforzo più potente che il pensiero italiano abbia compiuto negli ultimi anni» (La filosofia contemporanea, 2° vol., La filosofia anglo-americana; la filosofia italiana, 19202, p. 166); tuttavia riteneva necessario dopo la Filosofia dello spirito «fondere di nuovo nell’unità le distinzioni del sistema crociano» senza dimenticare le giuste esigenze poste da esse, ma approfondendo prima di tutto «il concetto che realtà è attualità spirituale, cioè concretezza, o per dirla con le parole di Gentile, che la realtà è filosofia» (p. 167). La filosofia crociana appariva storicamente importante ma non più feconda, non da superare bensì già superata dall’idealismo attuale.
Negli anni della dittatura Croce fu oggetto di giudizi aspri nei toni, ma in alcuni casi non privi di penetrazione, in particolare da parte degli allievi romani di Gentile formatisi quando la «discussione tra filosofi amici» si era consumata da svariati anni e i due maestri avevano assunto posizioni precise e contrapposte, oltre che sul piano teorico anche su quello politico. Nel 1923 Ugo Spirito sottolineava da un lato l’influenza di Gentile sul pensiero di Croce; ma dall’altro sosteneva che la riflessione filosofica era giunta «a un livello speculativo superiore» rispetto alla Filosofia dello spirito (Benedetto Croce, in Il nuovo idealismo italiano, poi in L’idealismo italiano e i suoi critici, 1930, p. 30). Egli aveva preso in esame i tratti fondamentali della filosofia crociana cercando di mostrare «l’impossibilità di una distinzione filosofica dei gradi dello spirito» (p. 23) e l’inconcepibilità di una loro dialettica (cfr. p. 27), ma la critica forse più interessante riguarda il rapporto tra libertà e necessità. La volizione per Croce non nasce «nel vuoto, ma in una situazione determinata» da cui è «necessitata»; al contempo essa produce «qualcosa di nuovo, che prima non esisteva […]; ed è iniziativa, creazione, atto di libertà» (pp. 32-33). Nonostante Croce affermi il contrario, Spirito ritiene che tra i due termini, libertà e necessità, non vi sia sintesi ma semplice giustapposizione perché «l’atto umano creatore» opera in un «mondo presupposto, a cui esso aggiunge soltanto qualcosa» (p. 33). Croce ha negato «la risoluzione completa del fatto nelle sue cause» e superato «il determinismo assoluto del positivismo» (p. 33), ma Spirito gli contesta di aver sostituito la Natura dei positivisti con «lo Spirito in terza persona il quale trascende l’individuo […] e, trascendendolo, lo disindividualizza e lo nega» (p. 34). L’individuo diventa uno strumento dello Spirito, minando così alla base «il concetto tradizionale di responsabilità», che si converte nel suo opposto, l’«assoluta irresponsabilità individuale» (p. 35).
Nel 1930 Guido Calogero, assieme a un critico letterario vicino a Croce, Domenico Petrini, pubblicava il volume Studi crociani, in qualche modo contrapposto a Benedetto Croce (1929), una raccolta di saggi scritti da Spirito – fra i quali anche quello citato del 1923 – e da Arnaldo e Luigi Volpicelli, che appariva molto severa verso il filosofo abruzzese, e non mancò di suscitare vivaci polemiche. Allievo e collaboratore di Gentile, Calogero condivideva – con alcune riserve – il nucleo delle teorie attualiste, ma con Croce aveva un profondo legame culturale e filosofico, testimoniato dal carteggio iniziato sin dal 1926 (cfr. G. Sasso, Dalla biografia giovanile di Guido Calogero. La vicenda degli “Studi crociani”, «La Cultura», 1998, 1, pp. 5-42). Egli individuava l’aspetto più caratteristico del pensiero crociano nella «non definitività della filosofia», per cui non vi è una verità raggiungibile una volta e per sempre, ma un «eterno generarsi dei problemi», sintesi delle esperienze anteriori che, una volta risolti, diventano elementi per azioni ed esperienze future, ossia «ulteriori problemi» (Il carattere della filosofia crociana, in Studi crociani, cit., pp. 7-8). Già a questa data Calogero parla di «assoluto storicismo» (p. 9), anticipando di alcuni anni il saggio crociano Il concetto della filosofia come storicismo assoluto («La Critica», 1939, 37, pp. 253-68), posto poi all’inizio del Carattere della filosofia moderna (1941) – titolo che a sua volta sembra quasi richiamare il saggio di Calogero, dove «“visione crociana” e “visione moderna” del mondo» sono definite «convertibili» (Il carattere della filosofia crociana, cit., p. 19). La prospettiva crociana ha tuttavia un esito aporetico, perché «questo che proclama la morte dei sistemi e l’incessante vitalità delle “sistemazioni”, è pure un sistema» (p. 9). Non è questo infatti l’aspetto del pensiero di Croce di più «limpida e cristallina modernità», ma il suo «positivismo assoluto»: «l’accadere del mondo» è considerato «come totale effettualità storica, come puro fare», di fronte a cui tramonta «ogni astratta concezione ontologica e gnoseologica» (pp. 11-12). Croce polemizza contro l’attualismo, considerato una «filosofia teologizzante», ma la sua concezione per cui «ogni aspetto del mondo» si risolve «in una forma del fare umano» si comprende e si giustifica fino in fondo con «l’esclusione di ogni oggettivismo quale si realizza […] nell’assoluto soggettivismo idealistico dell’attualismo» (p. 14). La polemica crociana non è infondata per Calogero perché, nel combattere l’«astratto oggettivismo e gnoseologismo», l’attualismo è stato portato ad assumerne alcune forme; ma anche Croce rischia inconsapevolmente di rinnegare l’immanenza giacché la possiede «per innata disposizione di temperamento» e non per una travagliata lotta (pp. 16-17): il pensiero crociano e l’attualismo devono dunque collaborare per seguire con maggior coerenza le proprie istanze più profonde.
Uno degli eventi più significativi per la vita culturale italiana del dopoguerra è stata l’immissione nel dibattito pubblico, a un decennio dalla morte, dell’opera di Antonio Gramsci, con una selezione di Lettere dal carcere nel 1947 e dall’anno successivo con la pubblicazione dei quaderni carcerari ordinati tematicamente da Felice Platone (ma con la ‘regia’ di Palmiro Togliatti). Le Lettere furono recensite positivamente da Croce, che mostrò ammirazione per l’uomo e per il pensatore, mentre i quaderni – e in particolare la prima raccolta, dedicata specificamente a lui (Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, 1948) – furono liquidati come appunti incompiuti e perciò non giudicabili. Il confronto diretto con Croce emerge già nelle Lettere, dove Gramsci mette a fuoco le ragioni della grande fortuna della sua opera: da un lato, lo stile della sua prosa scientifica esprime con semplicità e nerbo una materia che in altri scrittori appare in genere oscura e prolissa, mentre, dall’altro, il suo pensiero «non si presenta come un sistema filosofico massiccio e di difficile assimilazione», ma anzi Croce è stato capace di «far circolare […] la sua concezione del mondo» in una serie di brevi scritti in cui «la filosofia si presenta immediatamente e viene assorbita come buon senso e senso comune» (Lettere dal carcere, cit., p. 183). Nei quaderni il pensiero di Croce e il suo ruolo nella cultura e nella società italiana sono affrontati in maniera analitica e sotto molteplici aspetti: interrogandosi sulle ragioni della fortuna crociana, Gramsci afferma che l’elemento più importante della sua popolarità è da ricercare nella «maggiore adesione alla vita» della sua filosofia rispetto a «qualsiasi altra filosofia speculativa» (Il materialismo storico, cit., p. 179). Croce non ricerca la sistematicità «in una esterna struttura architettonica ma nell’intima coerenza […] di ogni soluzione particolare» (p. 180). La critica al concetto di sistema si inserisce nel tentativo crociano di «espungere dalla sua filosofia ogni traccia e residuo di trascendenza e di teologia e quindi di metafisica» (p. 190): per quanto la sua lotta contro la trascendenza e la teologia «peculiari al pensiero religioso-confessionale» sia per Gramsci uno dei maggiori contributi di Croce allo sviluppo della scienza, la sua filosofia rimane «speculativa», appena liberata «dalla più grossolana scorza mitologica» (pp. 190-91). La critica gramsciana si articola lungo problemi positivi, quali, per es., la storia etico-politica di Croce o la sua considerazione della struttura economica come di un ‛dio ascoso’ o della sovrastruttura come di semplice apparenza, nella convinzione che la filosofia della prassi debba «venire alla resa dei conti, nel modo più ampio e approfondito possibile» con «la filosofia del Croce […], che rappresenta il momento mondiale odierno della filosofia classica tedesca» (p. 200). Per questo lavoro Gramsci ritiene che «varrebbe la pena che un intero gruppo di uomini ci dedicasse dieci anni di attività» (p. 200).
Negli anni del dopoguerra Croce era per i comunisti italiani innanzitutto il principale avversario in ambito culturale – e dai «Quaderni della “Critica”» egli non mancava di attaccare le loro posizioni. I tentativi per un confronto approfondito con l’opera crociana andarono spesso in parallelo con accuse e stroncature di ordine anche morale: basti pensare a un importante intervento di Togliatti del 3 aprile 1952, in cui, da un lato, presentava il crocianesimo come un indirizzo moderno rispetto, per es., alla neoscolastica, e che aveva dato un notevole contributo «per liberare la cultura italiana dalle volgarità positivistiche», mentre, dall’altro, non risparmiava un attacco alle «senili giaculatorie» di Croce sulla storiografia marxistica (Intervento alla commissione culturale, in Opere, 5° vol., 1944-1955, a cura di L. Gruppi, 1984, pp. 824, 827). Nella produzione crociana si tendeva talvolta a individuare una parte progressiva e una regressiva, legate a precise periodizzazioni. Carlo Salinari, allora responsabile culturale del Partito comunista, in un articolo di quello stesso 1952 (Benedetto Croce critico, «Rinascita», 10, pp. 621-25) affermava, in maniera non dissimile da Togliatti, che «la parte progressiva del pensiero e della critica crociana» andava cercata nella lotta d’inizio secolo «contro il positivismo in genere e la scuola storica in specie», con l’introduzione di Francesco De Sanctis, di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, del pensiero dialettico e della filosofia classica tedesca nella cultura italiana; la spinta progressiva cessa invece con la Prima guerra mondiale, e il suo pensiero con gli anni «s’involve rapidamente mettendo sempre più in risalto i suoi tratti conservatori e reazionari» (p. 621). Lo scritto di Salinari prosegue analizzando gli elementi salienti della critica crociana in rapporto alla sua filosofia, mettendone in evidenza i punti critici legati innanzitutto al carattere d’intuizione pura dell’arte: egli auspica una critica diversa che superi la «frattura fra poesia e storia, fra cultura e vita nazionale», che «concepisca l’arte come conoscenza della realtà nella sua complessità dialettica», una critica – conclude Salinari – che abbia il suo teorico in Gramsci e non più in Croce (p. 625).
L’influenza del giudizio gramsciano su Croce, e l’esigenza concreta di un «Anti-Croce» che sia anche un «Anti-Gentile», si può riscontrare nei lavori di Eugenio Garin, e in particolare nelle Cronache di filosofia italiana, 1900-1943 (1955). Garin non era un militante comunista, ma il suo lavoro andava nella direzione indicata da Togliatti di conquistare nuovi alleati tra gli intellettuali e di «lavorare a un fronte di cultura progressiva» che avesse come asse ideologico il marxismo, ma senza escludere elementi collaterali (Intervento, cit., p. 824) – in questo quadro Togliatti avrebbe recensito subito e in maniera positiva le Cronache. Garin condivide con Gramsci il giudizio storico sul ruolo di Croce come «leader della cultura liberale democratica» (Cronache, 19974, p. 171) e non esita a far propria l’idea che il materialismo storico sia stato per Croce un’ossessione, e che esso abbia esercitato «un’influenza sottile, di continuo presente», nonostante le polemiche e il tentativo di chiudere i suoi studi marxiani «come in una bara» (p. 206). Soprattutto Garin ritiene come Gramsci che «la vera forza di Croce fu tutta nel saggio, nell’articolo, nella nota» e che il suo capolavoro non vada cercato nei trattati ma nella «Critica», «ove l’unità di un’immensa ricerca non è un’architettura simmetrica, ma la coscienza di un metodo e la presenza di un uomo» (p. 234). Per Garin è questo l’elemento di maggior interesse della lettura gramsciana di Croce: le Cronache non si limitano ad accettare tale assunto, ma proseguono e approfondiscono concretamente la ricerca del pensatore comunista.
Nel 1950 Enzo Paci pubblica Esistenzialismo e storicismo, in cui si confronta con il problema della vitalità nella filosofia crociana, facendolo interagire con le istanze dell’esistenzialismo. La problematica non era nuova per Paci, e anzi il suo primo saggio, Il significato storico dell’esistenzialismo («Studi filosofici», 1941, 2, pp. 134-50), aveva suscitato anche una recensione di Croce benevola per quanto non pienamente concorde. Per l’esistenzialismo «ogni forma della vita spirituale trova la sua origine nell’esistenza», ogni valore trasforma il finito dell’esistenza, infondendogli «un carattere di infinità e di assolutezza, senza per questo negarlo come finito» (Esistenzialismo e storicismo, cit., pp. 28-29). Nella filosofia di Croce, afferma Paci, la funzione dell’esistenza come fondamento della vita dello spirito è «assegnata alla forma pratica ed economica», che in realtà non è forma ma pura materia, senza cui non sono possibili arte, vita morale e filosofia (p. 29). Croce accettava le osservazioni del giovane Paci, salvo però negare che l’economico – o utile o vitale – fosse pura materia, giacché ogni forma spirituale è, sì, materia per la successiva, ma solo in quanto è forma per la precedente. Paci, pur assumendo provvisoriamente l’obiezione crociana, negava che il vitale potesse essere una forma spirituale come le altre, giacché anche il loro rapporto di circolarità non si spiega se alla base «non si pone l’esistere, e non già come una forma tra le altre, ma come principio che rende possibile la distinzione dialettica delle forme stesse» (p. 137). Alcuni anni dopo Paci avrebbe assunto una posizione più netta, affermando che lo stesso Croce arriva ad «accettare, sia pure in forma non esplicita, che il vitale è qualcosa che non è spirito, e che condiziona in qualche modo le forme dello spirito» (La filosofia contemporanea, 1957, 19613, p. 66).
Nel 1953 Nicola Abbagnano (in L’ultimo Croce e il soggetto della storia, «Rivista di filosofia», 3, pp. 300-13) pone l’attenzione, da un lato, sulla categoria della vitalità e, dall’altro, sulla libertà dell’uomo inteso come singolo individuo empirico. In entrambi i casi, il suo interesse si concentra sul problema del limite e della finitezza. L’accentuazione nelle fasi più avanzate del pensiero crociano del ruolo della quarta categoria e la scelta del termine «vitalità» costituiscono il riflesso della tendenza di «tutta filosofia contemporanea, a sottolineare in ogni campo i limiti e le condizioni dell’attività umana» (p. 301). Croce arriva a parlare di «“peccato originale” dell’uomo», in cui «sonnecchia sempre il “selvaggio” cioè la forza vitale che può essere domata ma non distrutta» (p. 301). La vitalità sembrerebbe ridare «dignità filosofica» all’empiria, e porre dei limiti all’«attività produttrice del Bello, del Vero e del Bene»; quest’ultima a sua volta non può essere valutata «prescindendo dalle sue condizioni limitative» (p. 302). Croce non trae queste conclusioni, ma insegna che «ogni manifestazione di una forma spirituale va considerata assolutamente ed in sé, […] senza riferimenti ad altre forme» (p. 302): «la categoria della Vitalità non è valsa a modificare i quadri della filosofia dello spirito», ma ha spinto Croce a ribadire il postulato hegeliano della razionalità del reale (p. 303). Nell’ultima parte del saggio Abbagnano si sofferma sul ruolo dell’individuo nella storia: per Croce «l’individualità e la singolarità cui la conoscenza storica mette capo sono quelle dell’opera» (p. 308), che non è dei singoli ma del tutto. Il soggetto della storia è un principio infinito senza nulla fuori di sé, e perciò senza limiti alle sue realizzazioni – ossia le opere di cui gli individui o persone sono i simboli «cui si fa riferimento per comodità di linguaggio» (p. 309). Abbagnano osserva che «per sfuggire a un fatalismo radicale per il quale la libertà degli individui non esiste neppure come problema (dal momento che gli individui non esistono)», Croce è costretto a «ricorrere a confusioni verbali e ridare verbalmente una certa realtà a quegli individui» (p. 309).
Il problema dell’individuo e il nesso con la vitalità sono centrali in un pensatore di chiara ispirazione crociana come Carlo Antoni: nel Commento a Croce (1955) egli osserva che la sua filosofia «è tutta una celebrazione dell’individualità» giacché lo spirito universale «è reale solo in quanto si individua e si fa quindi soggetto di storia» (19642, p. 99). Nel lavoro di critico e storico della poesia Croce esalta l’individualità artistica – distinguendo però personalità artistica e biografica – analogamente la sua etica «esprime il senso drammatico dell’individuo davanti ai compiti e ai problemi, che la sua individuale situazione gli impone»; e tuttavia – osserva Antoni – la filosofia crociana nega l’individualità, che «riduce, nel migliore dei casi, a quella vitalità dei bisogni e degli impulsi» (pp. 99-100). Croce aveva distinto l’individuo empirico con un nome e cognome dalla persona ideale «che è nell’opera o di là di essa», ma secondo Antoni si dovrebbe «ammettere che il gruppo di abiti, contrassegnato da un nome, riesca, nell’opera, a costituirsi, idealmente, a persona» (p. 104). La prospettiva di Antoni resta assolutamente immanentistica, perché egli non ricerca l’individuo in sé, di là delle sue realizzazioni, ma come Croce lo cerca nelle opere, le quali però sono considerate in un senso molto più ampio, e al contempo unitario rispetto al loro artefice: «poiché l’individualità dell’autore non è separabile […] dall’individualità dell’opera, si ha un’unica individualità o personalità, empirica ed insieme ideale» (p. 108). Il pensiero crociano – afferma Antoni – «sembrava diretto in questo senso», ma alla fine è «sul piano della vitalità che ha dato una consistenza al “momento” dell’individualità» (p. 104). Si viene a creare così nella realtà una dicotomia tra i valori sopraindividuali «prodotti dallo Spirito universale, l’arte, il pensiero, la moralità» e «quelle passioni, quei dolori e quei piaceri, che appartengono alla chiusa cerchia dell’individuo»: in questo modo si pone a repentaglio anche la «“scoperta dell’Utile” crociana, cioè l’inserzione della categoria vitale-economica nel quadro della spiritualità» (p. 105).
Nel saggio Benedetto Croce e il liberalismo (in Politica e cultura, 1955, 19742, pp. 211-68), Norberto Bobbio prende in esame la prassi e la teoria politica di Croce, confrontandosi in particolare con il ruolo dell’individuo. La storia per Croce è storia della libertà, ma per libertà va intesa l’«attività creatrice dello Spirito», e non l’assenza di vincoli o impedimenti come nel linguaggio della dottrina liberale (cfr. Benedetto Croce e il liberalismo, cit., pp. 257-58). Tra la dottrina del liberalismo e la teoria della libertà dello Spirito non c’è passaggio: «se il soggetto della storia è lo Spirito (e non l’individuo singolo di cui si occupa il liberale) e questo Spirito è per essenza creatore e quindi libero», esso si può coerentemente servire «tanto dei regimi liberali quanto di quelli non liberali» (pp. 258-59). Nel commentare il discorso di Benjamin Constant De la liberté des Anciens comparée à celle des Modernes (1819), Croce «metteva in evidenza il concetto etico di libertà», ma al contempo «si sbarazzava […] della teoria dei limiti del potere, come di teoria giuridica, empirica, non speculativa» (p. 248). Chiosa Bobbio:
Dietro quell’indifferenza si celava una concezione non personalistica dell’individuo (l’individuo come particella dello Spirito universale) e una concezione universalistica dello stato (lo stato come totalità di cui l’individuo è parte) (p. 249).
Nel ricco e importante saggio del 1952 Croce storico («Rivista storica italiana», 4, pp. 473-530), Federico Chabod mostra come negli scritti storici ‘minori’ di Croce si manifesti un profondo «senso dell’umano, anzi del singolo uomo» (p. 483). Chabod si chiede come ciò si possa conciliare «con le ripetute affermazioni del Croce teorico contro il “biografismo”» (p. 483): egli ritiene legittima la polemica contro il deteriore biografismo, o contro le interpretazioni storiche astrattamente psicologiche, così come condivide l’identificazione dell’uomo con la sua opera, ma mostra perplessità verso la posizione per cui «la stessa “opera individua” ha nel singolo semplicemente “il rappresentante e il simbolo”» e che considera lo spirito del mondo come unico attore della storia (p. 486). Nei lavori storici di Croce, e non soltanto nei minori, «gli uomini appaiono, nelle loro opere, ben diversamente da semplici rappresentanti e simboli» (p. 487). Tra alcune affermazioni teoretiche di Croce, specie dell’ultimo periodo, e le sue opere concrete, Chabod individua «uno iato», che a sua volta riflette lo iato tra il «provvidenzialismo storicistico» e il suo «senso storico»: egli è uno «storico […] d’istinto assai prima che teorico della storia», e posto di fronte al problema concreto «vede e sente da storico, al quale riuscirebbe impossibile afferrare le ombre», gli individui intesi come meri simboli (p. 497).
Nel 1969 Giuseppe Galasso pubblica (in Croce, Gramsci e altri storici, pp. 9-93) una versione più lunga del saggio Croce storico (già comparso in «Cultura e scuola», 1967, 21, pp. 15-36), nella quale, a dispetto del titolo, si pone in una prospettiva profondamente diversa da quella di Chabod. Egli critica la convinzione che Croce abbia mostrato virtù di storico innanzitutto nei saggi minori, giacché da un lato «il pensiero storico e il modo di fare storia di Croce formano una unità che non è così artificiosamente e nettamente divisibile», e dall’altro è soprattutto «attraverso le sue opere “maggiori” che il Croce ha agito e resta vivo nella cultura storica» (in Croce, Gramsci e altri storici, cit., p. 79). Lo scopo che si prefigge Galasso è «tentare di ricostruire dall’interno la linea evolutiva dell’attività storiografica di Croce», nei suoi legami «con la vicenda […] parallela del Croce filosofo e del Croce pensatore politico» (pp. 13-14). Egli connette la diversa impostazione storiografica dei saggi successivi al 1910, in cui cambia «il modo stesso di considerare gli avvenimenti storici» – si dissolve «l’oggetto storico» come «complesso d’informazioni […] criticamente accertate» ed emerge «un profilo di elementi politici e sociali, morali e intellettuali» che si presentano «come forze e non come fatti» –, con le riflessioni di Teoria e storia della storiografia in cui la storia appare come «opera di quell’individuo veramente reale che è lo spirito eternamente individuantesi» (pp. 18-19). Molta parte della trattazione analizza il rapporto tra le opere storiografiche successive agli anni Venti e le riflessioni politiche di Croce, con lo spostamento di paradigma portato dall’affermarsi della storia etico-politica. Nelle ultime pagine Galasso ripensa il problema della vitalità, quel «fondo oscuro» su cui sorgono le altre categorie, e lo mette in rapporto con i saggi – tutti comparsi sui «Quaderni della “Critica”» – La fine della civiltà (1946, 6, pp. 1-7), L’anticristo che è in noi (1947, 8, pp. 66-70), Intorno al “magismo” come età storica (1948, 12, pp. 53-63) e Considerazioni sulla preistoria (1950, 17-18, pp. 22-28), dove «la storiografia crociana traboccava […] verso i limiti del conoscibile storico» (pp. 83-84).
L’esigenza di un’interpretazione unitaria del lavoro crociano era già stata posta con forza da Gennaro Sasso in un denso saggio dal sapore programmatico (Filosofia e storiografia in Benedetto Croce. Premesse per un’interpretazione, «La Cultura», 1963, 5, pp. 571-602, e 1964, 1, pp. 30-54, poi, con il titolo Per un’interpretazione di Croce, in Passato e presente nella storia della filosofia, 1967, pp. 69-151): Croce si considerava un «filosofo non sistematico nel senso pedantesco del termine», ma al contempo era «dominato dal problema […] dell’unità del sistema, dell’armonia tra le sue parti costitutive» (pp. 71-72). Croce ha sempre prestato attenzione «al “rigoroso accordo” dei concetti, alla perfetta coerenza della loro unitaria pensabilità» (p. 75), per questa ragione non è possibile affrontare i singoli problemi del suo pensiero nei vari campi in cui ha esercitato la sua attività senza «affrontare e cercar di capire la “totalità” crociana» (p. 71). La totalità può essere considerata innanzitutto come la struttura teorica data da Croce alla sua sistemazione, ossia lo spirito come «relazione di forme» e come «unità delle sue distinzioni»; in secondo luogo può essere intesa come lo «sforzo crociano di conferire un senso alle sue meditazioni», quel processo di «purificazione categoriale» cui incessantemente «sottopose il “sistema”»; infine, in un senso non esplicitato da Croce ma che in qualche modo sussume i primi due, come il mobile intrecciarsi delle sue teorizzazioni, e «il loro reciproco implicarsi e condizionarsi» nella logica come nell’arte, nell’economia come nell’etica (p. 136). Già in questo saggio «prevalentemente metodologico» Sasso propone alcune analisi concrete, in particolare dei problemi della dialettica e del vitale, ma dal carattere ancora sommario; sarà invece con il poderoso Benedetto Croce. La ricerca della dialettica (1975) che egli applicherà nella maniera più compiuta le sue proposte metodologiche. Non si tratta di una «monografia complessiva», ma di «un saggio» che si sofferma sull’«intreccio dei pensieri crociani nell’arco della loro lunga storia», cercando di coglierne il «significato ultimo in connessione con le “vicende […] dei tempi”» (p. 9): esso «ricostruisce alcuni aspetti fondamentali della filosofia crociana», lasciando da parte le questioni estetiche «specificamente considerate», ma includendo «i nodi essenziali della logica e della filosofia della prassi, il diritto e la politica, la teoria della volontà e dell’accadimento, dell’opposizione e della distinzione, della dialettica e della razionalità storica» (p. 19). Per ciascuna delle questioni affrontate, Sasso «cerca di cogliere la connessione strutturale con il fondamento, ossia con l’intreccio totale di tutte le questioni» (p. 19), soffermandosi non solo sui «nodi propriamente filosofici del pensiero di Croce», ma anche sulla «sua teoria politica», sulla «sua storiografia» e su «certe pagine di critica letteraria […] in una visione unitaria, inglobante e risolvente in sé […] quelle varie particolarità e specificità» (p. 9).
Per il suo lavoro del 1975 Sasso aveva potuto prender visione delle lettere tra Croce e Gentile nei loro rispettivi archivi, ma restava una gran quantità di pagine inedite – la maggior parte dei diari e dei carteggi – cui all’epoca non aveva ancora potuto accedere. La progressiva pubblicazione di questi materiali ha favorito, e in certi casi ha reso possibile, una lettura diversa – anche metodologicamente – della figura e dell’opera crociana, distante dalle immagini ‘classiche’ che Croce stesso aveva contribuito a formare.
Nel 1983 Michele Ciliberto, in Malattia/Sanità. Momenti della filosofia di Croce tra le due guerre («Il Centauro», settembre-dicembre, pp. 72-103, poi in Id., Figure in chiaroscuro. Filosofia e storiografia nel Novecento, 2001, pp. 243-83), prendeva in esame la produzione crociana negli anni del fascismo, ponendo particolare attenzione alla dimensione lessicale. Croce ambiva all’unità e alla coerenza, e al contempo tendeva «a ripensarsi cancellando le tracce dei propri spostamenti»: il suo lessico filosofico si presenta omogeneo e statico, «organico al carattere di una riflessione distinta dal rapido affiorare di cellule tematiche fondamentali»; esso tende a occultare e contenere, piuttosto che chiarire «i dati di novità», i quali si esprimono non attraverso «l’immissione di materiali inediti», ma con la «“concertazione” di cellule tematiche e di lemmi, dati, in gran parte, originariamente» (p. 249).
Ciliberto si sofferma sull’uso crociano di un lessico biologico e medico: esso «segnala un primato e una incidenza del modello della “vita”», che può essere distinta in due accezioni, «quella umanistico-goethiana e quella biologico-darwiniana», le quali a lungo si sono composte «spontaneamente nell’unità del circolo spirituale», ma «dalla metà degli anni Trenta, tendono irresistibilmente a configurarsi come poli antagonistici, attraverso l’aspirazione di ciascuna forma speciale a sopraffare le altre e determinarsi come totalità» (p. 252). La sanità, la concezione umanistico-goethiana della vita, costituisce per Croce un preciso dovere dell’uomo di studi, costantemente insidiato dall’urgere degli impulsi vitali e dalla tentazione di sorpassare «il limite entro cui occorre stare e lavorare» (p. 256). Negli anni Venti egli è consapevole della «dimensione politica della malattia in corso in Italia», ma essa «non trascorre, immediatamente, sul piano teorico, e non colpisce né intacca la struttura categoriale, il livello dei supremi principi del conoscere» (pp. 268-69). Nonostante la presenza di «inquietanti zone umbratili», la scoperta in quel periodo dell’etico-politico «configura un’esigenza di direzione politica nel quadro di una situazione ancora e strutturalmente sana», in cui, sebbene ripensata e non assunta in maniera lineare, domina «la visione umanistico-goethiana della vita» (pp. 269-70).
Con il volume La storia come pensiero e come azione (1938) il primato dell’etico-politico esprime la necessità di una «direzione universale del processo storico vitale», nel quadro di una situazione malata sia sul piano politico sia su quello teorico, «internamente corrosa dall’affiorare di impulsi reciprocamente distruttivi, da una lotta elementare di carattere biologico-darwiniano» (p. 270). Il primato della morale e della storiografia etico-politica scaturisce nella Storia dal ripensamento dei «rapporti tra prassi e teoria, pensiero e azione», e «dall’individuazione, in questo ambito problematico, di una crisi generale del mondo moderno-liberale nella sua complessità» (p. 270).
Uno dei contributi più interessanti a un rinnovato studio della figura di Croce è dato dal volume di Sasso dedicato ai Taccuini di lavoro redatti tra il 1906 e il 1949 (Per invigilare me stesso. I taccuini di lavoro di Benedetto Croce, 1989). Sasso illustra la struttura dei Taccuini, nella loro doppia o talvolta tripla redazione, presentandoli come una vera e propria «opera letteraria, e perciò (anche nella prima redazione) scrittura, espressione, elaborazione e rielaborazione», mentre solo in maniera molto impropria si potrà parlare di immediatezza (p. 35). Attraverso una serie di testi da lui scelti e analizzati, Sasso contribuisce a chiarire alcuni aspetti della biografia di Croce, ma soprattutto mette con forza in luce le sue inquietudini, la sua angoscia «proveniente dalla regione sommersa dell’irrazionale» (p. 27), la sua «accentuata disposizione a “vivere la sofferenza”», la disperazione che resisteva a ogni suo tentativo di «tenerla a freno, renderla quotidiana e domestica, vincerla nell’opera» (pp. 154-55).
Il ruolo dell’autobiografia in Croce, e il suo intrinseco rapporto con la filosofia, viene affrontato da Ciliberto nell’ambito di un convegno tenutosi a Orvieto nel novembre del 1991 su Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea. Le analisi di Ciliberto (Filosofia e autobiografia in Croce, «Studi storici», 1992, 4, pp. 693-712, poi in Figure in chiaroscuro, cit., pp. 219-42) fanno ampio uso di scritti non destinati alla pubblicazione – diari e soprattutto lettere personali – «che Croce avrebbe invitato a lasciar perdere» (p. 223): in una prospettiva crociana questi testi non servirebbero a capire la sua filosofia, ma Ciliberto «sul punto cruciale del rapporto tra opera e individuo» intende proprio mettere in discussione quell’orizzonte teorico (p. 226). Croce è autore di «un Contributo alla critica di me stesso, che ha fatto epoca nelle scritture autobiografiche del secolo», ma al contempo è stato «un critico feroce dell’individuo»: il soggetto del Contributo, così come di qualsiasi biografia, non è l’individuo empiricamente e astrattamente considerato, ma l’opera, che è assieme nostra e di tutti gli altri uomini perché è «opera del tutto» (pp. 219, 222). Il ‘disprezzo’ crociano per l’io, cui è legata la sua concezione dell’autobiografia, ha senza dubbio una «radice teorica precisa», ma da numerosi scritti di carattere privato si comprende che esso ha anche «radici in un terreno […] oscuro, al quale Croce guarda sempre con timore prendendone continuamente le distanze» (p. 223). Egli era dominato «da un rapporto assai complesso con la propria ‘empiricità’», insidiato «dalla paura della malattia» che è sempre «malattia nervosa» (p. 224), cui reagiva attraverso il lavoro metodico e programmatico: i piani di lavoro e gli scritti autobiografici si situano consapevolmente «in un processo di controllo e di difesa di una ‘identità’, di cui si avverte […] un’intima, e insuperabile, precarietà» (p. 225). Ciliberto mostra come nel Contributo l’individuo tenda a sparire: esso si configura come «una sorta di autobiografia senza soggetto», dove «è l’io trascendentale l’effettivo protagonista» (p. 227). Ad agire è «il modulo stilistico dell’individuo che è actus, non agens, essendo “strumento di qualcosa che lo supera”» (p. 228). Il motivo «actus, non agens» è invece assente dal Curriculum del 1902, anche in brani che saranno ripresi in maniera simile nel Contributo. Mettendo a confronto alcuni passaggi dei due testi, Ciliberto sottolinea «la variazione stilistica e concettuale che Croce opera nel Contributo rispetto al Curriculum del 1902», e il suo lavoro di «“riscrittura” programmatica, consapevole, fatta avendo sotto gli occhi il vecchio testo» (p. 229).
Tra gli anni Ottanta e Novanta del 20° sec. non sono mancati altri importanti contributi allo studio di Croce, basti pensare ai lavori di Emma Giammattei, al libro di Galasso Croce e lo spirito del suo tempo (1990) o ai suoi scritti che accompagnano le fortunate edizioni Adelphi, agli scritti di Michele Maggi o ai sei volumi di Filosofia e idealismo di Sasso (1994-2012), e si potrebbe continuare. L’iniziativa in grado di dare un contributo maggiore a un lavoro di storicizzazione della figura crociana è, però, da considerarsi l’Edizione nazionale delle sue opere.
Il progetto fu varato nel 1981 e il primo volume fu pubblicato nel 1991: l’edizione risponde all’esigenza di fedeltà alla volontà crociana, riproponendo nella prima sezione il Corpus disegnato dall’autore, che ricalca nella struttura la raccolta di Opere della Laterza, cui vanno aggiunte altre sezioni di scritti, di traduzioni, la bibliografia e l’indice analitico-sistematico. Il testo adottato è quello dell’ultima edizione curata dall’autore, ma l’apparato critico riporta le varianti evolutive del testo – sono spesso di notevole rilevanza anche teorica e talvolta investono la stessa struttura del volume –, permettendo allo studioso di seguire il filo del pensiero crociano lungo interi decenni (cfr. A. Savorelli, I primi sedici volumi dell’Edizione nazionale delle opere di Benedetto Croce, «Rivista di storia della filosofia», 2004, 2, pp. 541-44). Tra i volumi dell’Edizione nazionale va segnalata almeno l’Estetica, apparsa appena nel 2014 a cura di Felicita Audisio: l’edizione presenta due testi di riferimento – la seconda edizione (Sandron), del 1904, e la nona (Laterza), del 1950 – così diversi da renderne impraticabile una collazione, e per ciascuno dei quali è stato messo appunto un apparato di varianti. Essa permette allo studioso di esaminare nel suo sviluppo diacronico una delle più importanti opere filosofiche del Novecento non solo italiano, e di toccare con mano gli spostamenti teorici decisivi avvenuti nel pensiero crociano fin dal primo decennio del secolo.
V. Stella, Il giudizio su Croce. Momenti per una storia delle interpretazioni, Pescara 1971.
V. Stella, Benedetto Croce, in I classici italiani nella storia della critica, sotto la direzione di W. Binni, 3° vol., Da Fogazzaro a Moravia, Firenze 1977, pp. 313-88.
P. Bonetti, Introduzione a Croce, Roma-Bari 1984, pp. 155-91.
P. Colonnello, Croce e i vociani, Genova 1984.
E. Garin, Agonia e morte dell’idealismo italiano, in La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari 1985, pp. 1-29.
P. Orvieto, D’Annunzio o Croce. La critica in Italia dal 1900 al 1915, Roma 1988.
P. D’Angelo, Il ritorno dell’interesse per Croce (1980-1990), «Cultura e scuola», 1991, 117, pp. 142-51, e 118, pp. 193-202.
W. Binni, Croce nella critica letteraria del Novecento, conferenza letta al Terzo programma della Radiotelevisione italiana nel 1966 e poi pubblicata in Id., Poetica, critica e storia letteraria e altri scritti di metodologia, Firenze 1993, pp. 117-27.
M. Ciliberto, Croce e Gentile: elogio di un’amicizia, «Giornale critico della filosofia italiana», 2006, 26, 1, poi, con il titolo Croce, Gentile, l’amicizia, in Id., Italia laica. La costruzione delle libertà dei moderni, Roma 2012, pp. 67-94.
M. Mustè, La filosofia dell’idealismo italiano, Roma 2008.
M. Ciliberto, Idealismo e non idealismo, in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Ottava Appendice. Filosofia, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2012, pp. 547-56.