Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento in Gran Bretagna si sviluppa un dibattito tra i campioni dell’ortodossia religiosa e i deisti. Questi ultimi sostengono la necessità di depurare le religioni positive da tutte le assurdità che secoli di superstizione hanno depositato sul nucleo originario e razionale della religione naturale.
Premessa
Fino al Seicento la parola deismo, in quanto contrapposta ad ateismo, indica ancora la semplice credenza nell’esistenza di Dio. Blaise Pascal è tra i primi ad attribuire un significato più specifico a questo termine, che impiega in senso denigratorio, opponendo il deismo al vero cristianesimo. Con l’avvento dell’Illuminismo in Inghilterra, alcuni liberi pensatori fanno propria la definizione di deismo per diffondere una loro visione anticlericale e antidottrinaria della religione.
La diffusione del metodo di ricerca newtoniano nell’ambito delle scienze naturali fa emergere l’esigenza di estendere i principi dell’indagine empirica agli altri campi del sapere e in particolare alla morale e alla teologia. Sebbene Newton stesso sia ben lungi dal rifiutare la metafisica implicita nella religione rivelata, i deisti si avvalgono del suo impianto metodologico per minare i dogmi religiosi del cristianesimo, come di ogni altra religione positiva. Sulla scia di Herbert di Cherbury, per il quale al centro di tutte le religioni vi è un nocciolo razionale comune e intuitivo, i deisti propongono di circoscrivere la religione entro i limiti della ragione naturale, negando ogni valore alla rivelazione, ai dogmi, ai misteri e ai miracoli che non si accordano con il principio empiristico dell’uniformità del corso della natura. La religione naturale, portatrice di tolleranza e di equilibrio sociale, si riduce per i deisti a poche idee molto semplici: Dio esiste, ha creato il mondo e premia la buona condotta in una vita futura.
Religione naturale e religioni rivelate: Locke, Toland e Clarke
Uno dei problemi principali affrontati dai deisti è quello della rivelazione. Come spiegare il fatto che Dio abbia concesso a un solo popolo (quello ebraico) la salvezza eterna tramite la rivelazione biblica, mostrandosi indifferente nei confronti del resto dell’umanità? La questione è affrontata già da Locke, che nel suo Ragionevolezza del cristianesimo muove da intenti apologetici per approdare a una posizione di deismo moderato. Locke propone di separare la dottrina semplice e ragionevole ricavabile dai Vangeli dall’insieme di assurdità di cui si sono fatti portatori nel corso dei secoli i vari concili, in particolare quello di Nicea. Fiducioso nell’efficacia dell’indagine empirica anche in materia religiosa, Locke ritiene che la lettura delle Scritture possa essere affrontata individualmente, senza bisogno della mediazione di interpreti privilegiati che si facciano garanti della correttezza della lettura prescelta. Resta tuttavia da chiarire il motivo per cui Dio abbia escluso dalla rivelazione messianica popoli civilissimi come quello cinese. La spiegazione a cui giunge Locke è che, sebbene l’esistenza di Dio e la necessità del Messia siano verità che possono essere dimostrate con il ragionamento, la rivelazione è un aiuto pratico che Dio concede agli uomini intellettualmente meno dotati per assicurarsi che anch’essi possano raggiungere la salvezza eterna.
John Toland si aggancia alle dottrine di Locke sulla Ragionevolezza del cristianesimo per radicalizzare la critica da lui espressa nei confronti delle religioni positive. La polemica tolandiana nei confronti delle deviazioni del cristianesimo storico rispetto alla religione naturale rasenta l’ateismo, nonostante le sue professioni di fede. Toland difatti reputa necessario rifiutare non solo ciò che è contrario alla ragione, ma anche ciò che si ritiene esserle superiore. Nel Cristianesimo senza misteri, Toland sostiene che in ambito teologico, così come in quello scientifico, tutto ciò che appare contraddittorio o elusivo rispetto alla Ragione deve essere scartato, e a questo proposito egli avanza un’argomentazione divenuta famosa: “Una persona che avesse l’assoluta certezza che nella natura esiste un essere chiamato blictri, e nel contempo non sapesse che cosa sia questo blictri, potrebbe nutrire giustamente fiducia nella propria conoscenza?”.
Nei suoi scritti successivi Toland va oltre e afferma che tutte le religioni positive sono superstizioni sorte presso popoli barbari (Lettere a Serena) e che lo stesso diluvio universale è un’invenzione (Pantheisticon).
Le tesi di Toland scatenano fin dall’inizio l’indignazione dell’ortodossia anglicana, ma anche di quei teologi moderati che, come Samuel Clarke (amico e collaboratore di Newton), tentano di confutare la posizione deista proprio a partire dalle premesse empiristiche che costituiscono lo sfondo comune del dibattito teologico di questi anni. Nella Dimostrazione dell’esistenza e degli attributi di Dio, Clarke riprende l’argomento proposto da Locke circa l’utilità pratica della rivelazione in quanto dono, e non obbligo, divino. I bersagli di Clarke sono il materialismo di Hobbes, il panteismo di Spinoza e il deismo di Toland. Contro di essi Clarke intende dimostrare in modo geometrico e perciò irrefutabile l’esistenza di Dio avvalendosi di un complesso di dodici proposizioni logicamente interconnesse. La sua argomentazione segue il procedimento ontologico a priori che verrà confutato da Hume nei suoi Dialoghi sulla religione naturale: ogni essere è l’effetto di una causa; presi insieme, tutti gli esseri costituiscono una catena di cause ed effetti; questa catena deve a sua volta essere sorretta da una causa indipendente, cioè Dio. È interessante notare come Clarke si premuri di dimostrare rigorosamente ciò che nemmeno i deisti più radicali mettono apertamente in dubbio. Come osserverà ironicamente Anthony Collins, “nessuno dubitò dell’esistenza di Dio, finché Clarke non si prese la briga di dimostrarla”.
Tolleranza religiosa e libero pensiero: Collins e Tindal
Discepolo e amico di Locke, Anthony Collins interviene nel dibattito teologico in occasione di una disputa tra Clarke e Henry Dodwell a proposito dell’immortalità dell’anima.
Laddove Dodwell sostiene che l’anima umana è per sua natura mortale, e può raggiungere l’immortalità solo attraverso un atto di clemenza divina, Clarke cerca di far derivare l’immortalità dell’anima dalla sua immaterialità, la quale a sua volta sarebbe dimostrata dall’inimmaginabilità di una sostanza che sia al tempo stesso materiale e pensante. A prescindere dalla fragilità degli argomenti addotti da Dodwell a sostegno della propria tesi, Collins prende le sue parti per ciò che riguarda l’indimostrabilità dell’immortalità dell’anima, dando così il via a una controversia con Clarke.
Nel suo Saggio sull’uso della ragione, nelle proposizioni la cui evidenza dipende dalle testimonianze umane, Collins assume una posizione anticlericale, definendo i misteri della religione invenzioni escogitate dai preti per mantenere gli uomini sotto il giogo della superstizione. Collins deriva la propria istanza razionalistica dal latitudinarismo dei platonici di Cambridge e degli esponenti della “Chiesa larga” (Broad Church), quali Edward Stillingfleet e John Tillotson, dai quali trae inoltre la tendenza ad appianare le divergenze dottrinarie in omaggio al principio della tolleranza religiosa. Nella Difesa degli attributi divini Collins rivendica alla Ragione la possibilità di dimostrare gli attributi di Dio. Tuttavia, affinché la Ragione possa approdare a queste naturali conclusioni, è indispensabile che essa si liberi dai ceppi dell’autorità per vagliare da sé la validità di ogni asserzione. Così come nella scienza il progresso verso la perfezione richiede l’autonomia della ricerca, in teologia l’indipendenza di giudizio è la condizione indispensabile per intraprendere il cammino verso la verità. La necessità della libertà di opinione è la tesi di fondo del principale scritto di Collins, il Discorso sul libero pensiero, erroneamente attribuito a Toland all’indomani della sua pubblicazione anonima e destinato a diventare il manifesto del deismo. Nel Discorso il libero pensiero viene definito come “l’uso dell’intelligenza nel tentare di scoprire il significato di qualsivoglia asserzione, nell’esaminare la natura delle prove a suo favore o ad essa contrarie, e nel giudicarla in base alla forza o alla debolezza delle prove”. Allo scopo di ridicolizzare gli avversari del libero pensiero, Collins immagina l’esistenza di una setta di nemici del “libero vedere” per i quali non bisogna fidarsi dei propri occhi ma al contrario farsi guidare da un’autorità esterna prima di esprimere dei giudizi percettivi.
Quanto ai presunti effetti disgreganti del libero pensiero come anticamera dell’ateismo (denunciati anche da George Berkeley nei Dialoghi e nell’Alcifrone), Collins ribatte con un’affermazione che verrà fatta propria da Voltaire: tra il fanatismo e l’ateismo, il secondo è il male minore. Senza poi contare che, secondo Collins, è solo grazie al libero pensiero che gli uomini arrivano a comprendere che un Essere buono, saggio e onnipotente ha creato il mondo e lo sorregge.
Anche Matthew Tindal è convinto dell’azione benefica che l’esercizio del libero pensiero svolge sulla riflessione religiosa. Nel primo volume del Cristianesimo antico quanto la creazione (il secondo volume manoscritto verrà bruciato dalle autorità ecclesiastiche dopo la morte dell’autore) Tindal attacca la corruzione dei preti e riafferma il credo deista nella razionalità e nell’universalità della religione naturale, la quale non richiede alcuna forma di liturgia positiva. Tindal arriva addirittura a sostenere la superiorità del confucianesimo rispetto alle religioni cristiana, ebraica e maomettana.
Anthony Collins
Per dimostrare il diritto a pensare liberamente
Discorso sul libero pensiero
Per dimostrare il diritto a pensare liberamente faccio osservare:
I. Se la conoscenza di alcune verità è pretesa da Dio, se la conoscenza di altre è utile alla società, se di nessuna verità ci è proibita la conoscenza da Dio, né essa ci è di danno, allora abbiamo il diritto a conoscere, ossia possiamo legittimamente conoscere qualsiasi verità. E se abbiamo diritto a conoscere qualsiasi verità, allora abbiamo diritto a pensare liberamente, ossia ad usare la nostra intelligenza nel tentare di scoprire il significato di qualsivoglia asserzione, nell’esaminare le prove a suo favore o ad essa contrarie, e nel giudicarla in base alla forza o alla debolezza delle prove (...)
IV. Qualsivoglia limite imposto al pensiero è in sé contraddittorio. Non mi si possono imporre limiti al pensare, ma mi si possono suggerire pensieri, asserzioni, ragionamenti che mi dimostrino che non è legittimo pensare a certi temi che mi propongo. Come, ad esempio, io potrei avere l’intenzione di considerare se la religione cristiana si fondi veramente sulla rivelazione divina, ma mi è stato detto, oppure mi sono persuaso io, che c’è grave pericolo e peccaminosità nel pensare ad un tale argomento, per il rischio di farmi convincere da capziose dimostrazioni di increduli, e di essere poi dannato per l’eternità per la mia incredulità, mentre, rimanendo nella condizione di chi non fa esami, sono sulla via della salvezza, fuori da ogni pericolo, e che, perciò, sarebbe per me una colpa correre rischi per mettermi a pensare a quell’argomento.
È evidente che il ragionamento succitato, fatto per porre limiti al pensiero, deve essere ripensato liberamente, ossia deve essere esaminato, perché, se non lo esamino, non posso sapere quali limiti esso mi impone, e potrei dunque procedere nell’indagine che mi sono prefissa.
Esaminiamo allora il ragionamento fatto per porre dei limiti, e si vedrà che non ha alcuna forza per impormi dei limiti. Io non ho modo di distinguere il vero dal falso, né di sapere se mi trovo in pericolo o no, se non facendo uso dell’intelligenza e della ragione che Dio mi ha dato, e dovrei, invece, senza alcuna ragione, supporre di essere sulla retta via e in salvo. Insomma, mi si impedisce di usare il metodo migliore per prevenire errori pericolosi, per il timore di cadere in errori pericolosi, come se mi si impedisse di usare gli occhi, per timore di un uso scorretto di essi, ed io camminassi ad occhi chiusi per l’eventualità di sbagliare strada se camminassi ad occhi aperti. Perciò, il ragionamento fatto per porre dei limiti è contraddittorio in modo evidente ed è inefficace per distogliermi dal proseguire la mia indagine.
Anthony Collins, Discorso sul libero pensiero, a cura di I. Cappiello, Liberilibri, 1990
François-Marie Arouet de Voltaire
Pro e contro di Fanatismo e Ateismo
Dizionario filosofico, Ateo-Ateismo I
È indubbio che, in una città ben ordinata, è infinitamente più utile avere una religione anche cattiva, che non averne alcuna.
Sembra dunque che Bayle avrebbe dovuto piuttosto esaminare che cosa sia più pericoloso: il fanatismo o l’ateismo. Il fanatismo è certamente mille volte più funesto; perché l’ateismo non ispira passioni sanguinarie, ma il fanatismo ne ispira; l’ateismo non serve da freno ai delitti, ma il fanatismo spinge a commetterli. (...)
Gli atei sono per lo più studiosi audaci e fuorviati, che ragionano male e che, non potendo comprendere la creazione, l’origine del male e altre difficoltà, ricorrono all’ipotesi dell’eternità delle cose e della necessità. (...)
Io non vorrei avere a che fare con un principe ateo che giudicasse suo interesse farmi pestare in un mortaio: sono certo che sarei pestato. E neppure, se fossi un sovrano, vorrei avere a che fare con cortigiani atei che avessero interesse ad avvelenarmi: dovrei prendere a ogni buon conto del contravveleno tutti i giorni. È dunque assolutamente necessario, per i principi e per i popoli, che l’idea di un essere supremo, creatore, reggitore, remuneratore e vendicatore, sia profondamente radicata negli animi. (...)
Quale conclusione trarremo da tutto ciò? Che l’ateismo è un mostro assai pericoloso in coloro che governano; che lo è anche nelle persone di studio, anche se la loro vita è innocente, perché dal loro studio esso può arrivare fino a quelli che vivono in piazza; e che, se non è certo funesto quanto il fanatismo, è tuttavia quasi sempre fatale alla virtù.
Voltaire, Dizionario filosofico, Torino, Einaudi, 1995
L’interpretazione delle Scritture
Ripercorrendo la strada già battuta da Spinoza, Hobbes e Pierre Bayle, i deisti si interrogano su come giudicare le numerose inverosimiglianze riscontrabili nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Nel Dizionario storico-critico Bayle inaugurava l’applicazione di quel metodo storico-critico di controllo rigoroso delle fonti e dei fatti riportati nelle Scritture che verrà impiegato da autori come Toland, Collins e Woolston. Ma già prima di Bayle, Charles Blount (seguace di Herbert di Cherbury e di Hobbes) aveva pubblicato un’opera intitolata Oracoli della ragione, in cui sosteneva che i miracoli biblici sono un frutto della superstizione barbarica.
Contro il rifiuto di Blount verso tutto ciò che nelle Scritture si oppone all’uso della Ragione, Charles Leslie nel Metodo breve e facile contro i deisti suggerisce quattro regole per valutare l’attendibilità dei miracoli: che siano tali da poter essere percepiti dai sensi umani; che si siano verificati alla presenza di testimoni; che siano poi stati ricordati tramite ricorrenze pubbliche; che tali ricorrenze abbiano avuto inizio all’epoca stessa del miracolo. L’obiettivo di Leslie è quello di dimostrare la verità di tutti i miracoli biblici e la falsità di quelli coranici attraverso un metodo riconoscibilmente storico. Così facendo, Leslie ritiene di poter dimostrare che la negazione dell’attendibilità delle testimonianze bibliche equivale a negare la veridicità del De bello gallico.
Un importante contributo al dibattito sui miracoli viene fornito da Collins il quale, rifugiatosi in Olanda per sfuggire alle polemiche suscitate dai suoi primi scritti, studia la lingua ebraica e si familiarizza con la tradizione talmudica. Osservando come l’assenza di vocali e la variabilità della punteggiatura nell’antico ebraico diano adito a una pluralità di possibili interpretazioni del medesimo testo, Collins sostiene che le profezie e i miracoli biblici vadano letti in senso allegorico piuttosto che letterale.
Thomas Woolston riprende le argomentazioni proposte da Collins e nei Sei discorsi sui miracoli inscena una satira dei testi evangelici affermando che se i miracoli venissero presi alla lettera Gesù emergerebbe come un ciarlatano qualunque.
Dopo Collins e Woolston, la discussione sui miracoli verte prevalentemente sulla resurrezione: nell’Esame delle testimonianze sulla resurrezione di Gesù, Thomas Sherlock rappresenta un dibattito giudiziario tra chi, come i deisti, reputa che la resurrezione sia impossibile in quanto contravviene alle regole della natura e chi vede nel martirio degli apostoli la dimostrazione della veridicità delle loro testimonianze. Conyers Middleton, autore della Lettera da Roma e delle Riflessioni sulle variazioni o incongruenze, che si trovano fra i quattro Evangelisti assume una posizione intermedia in cui, pur riconoscendo l’eredità pagana di molti costumi ebraici e accettando la tesi dell’allegoricità della Bibbia, propone di considerare autentici i miracoli antecedenti al II secolo, mentre rifiuta come falsi tutti quelli successivi.
Morale e religione: Shaftesbury, Hutcheson, Smith
Il deismo svolge un ruolo rilevante nella secolarizzazione della cultura che culmina con l’Illuminismo europeo. Sul versante della morale, l’affrancamento dalla religione viene realizzato da Anthony Ashley Cooper, terzo conte di Shaftesbury, e da Francis Hutcheson i quali, pur non prendendo parte attiva al dibattito sulla religione, sembrano condividere implicitamente la condanna deista nei confronti del dogmatismo religioso.
Shaftesbury si esprime contro il fanatismo nella sua Lettera sull’entusiasmo, in cui suggerisce al primo ministro Lord Sommers, al quale è diretto lo scritto, di combattere l’estremismo religioso con l’irrisione e l’ironia, piuttosto che con la repressione fisica dei suoi istigatori. La moderazione del rimedio proposto da Shaftesbury contro gli eccessi dell’entusiasmo è indice della sua visione ottimistica della natura umana, che gli deriva alla Scuola dei platonici di Cambridge. Contro il pessimismo hobbesiano, Shaftesbury pensa che le inclinazioni egoistiche dell’uomo siano ampiamente controbilanciate dalla naturale tendenza alla simpatia (concetto poi ripreso da Hutcheson, Hume e Adam Smith) e alla collaborazione sociale. La simpatia istintiva di cui tutti gli uomini sono dotati sta alla base del senso morale, ovvero del sentimento del bene e del male, che secondo Shaftesbury rivela molte affinità con il senso estetico. Nei suoi scritti sulla morale naturale (raccolti in tre volumi nelle Caratteristiche di uomini, maniere, opinioni e tempi), Shaftesbury insiste sull’autonomia della morale rispetto alla religione, tema centrale nelle argomentazioni deistiche.
Per Shaftesbury la religione deve assecondare, e non asservire, la morale istintiva. Senza disconoscere il fondamento razionale assegnato dai deisti all’etica, egli abbraccia tuttavia una concezione panteistico-vitalistica della realtà basata sull’autonomia del sentimento rispetto alla Ragione. A questa concezione si riallaccia Francis Hutcheson nel Saggio sull’origine delle nostre idee della bellezza e della virtù e nelle successive opere di argomento morale, in cui ribadisce la tesi (ripresa anche da Hume) della naturale benevolenza dell’uomo, che si manifesta nella sua capacità di agire a favore del prossimo indipendentemente dal proprio tornaconto personale. L’originalità del pensiero etico di Hutcheson sta nelle conclusioni utilitaristiche che egli trae dalla morale sentimentale di Shaftesbury. Precorrendo l’aritmetica morale di Jeremy Bentham, Hutcheson afferma che la virtù coincide con “la maggiore felicità per il maggior numero di persone”.
In polemica con Shaftesbury, Bernard de Mandeville propone nella sua Favola delle api un originale sviluppo del pensiero hobbesiano: l’uomo è costitutivamente egoista, ma è proprio dai vizi individuali che deriva il benessere della collettività. Se tenute sotto controllo da un’autorità legislativa, le forme di competizione sociale si rivelano come il principio propulsivo del progresso umano, in quanto incanalano l’aggressività umana in una serie di attività utili allo Stato. Secondo Mandeville, in una società ben regolata l’uomo combatte non più per la distruzione dei propri simili, come accade nello stato di disordine primordiale, ma per suscitare l’invidia altrui. Nella Teoria dei sentimenti morali Adam Smith, allievo di Hutcheson, anche sulla scorta di Hume, elaborerà la dottrina della spontanea armonia degli interessi individuali e della natura sociale dell’agire umano. Fondatore dell’economia politica classica, Smith consegna la teorizzazione del liberismo economico alla sua Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni.
L’epistemologia di Thomas Reid
Thomas Reid mette a frutto le proprie conoscenze in matematica e nelle scienze naturali per elaborare una teoria della mente di impostazione naturalistica. Nel suo primo scritto, il Saggio sulla quantità, è critico nei confronti dell’aritmetica morale di Hutcheson e del suo uso delle equazioni algebriche al fine di calcolare la quantità di piacere e dolore (virtù e vizio) nelle azioni umane.
La psicologia delle facoltà è il risultato più interessante della sua critica all’ideal system: con i Saggi sui poteri intellettuali dell’uomo e i Saggi sui poteri attivi dell’uomo intende offrire un’analisi scientifica delle facoltà della mente umana che, dopo aver messo in discussione la teoria delle idee di Locke e soprattutto la sua definizione di “potere passivo”, sappia sottrarsi all’esito scettico della filosofia di Hume. Con il Trattato sulla natura umana di Hume, Reid si era misurato già nella Ricerca sulla mente umana secondo i principi del senso comune. Questa opera lo ha reso celebre nella storia della filosofia in quanto fondatore della scuola del “senso comune”, nozione che non solo è al centro del dibattito britannico di secondo Settecento, ma esercita una vasta influenza anche sul continente, prima sulla filosofia tedesca e poi su quella francese (a partire da Victor Cousin). La sua dottrina morale – attenta al ruolo delle passioni e fondata sul senso morale inteso come attiva consapevolezza dell’azione, da parte dell’uomo, dotato della libertà del volere – sarà discussa, e criticata, da Kant proprio per il ruolo giocato dal sentimento morale e sarà invece apprezzata da Jacobi, assertore della conoscenza intuitiva come fede.