La fiducia in Italia
Il termine fiducia, al pari di buona parte dei termini chiave impiegati dagli scienziati sociali, è soggetto a uno dei principali problemi delle scienze umane: la polisemia. La fiducia è infatti un concetto multidisciplinare che la letteratura politologica, sociologica, economica e psicologica analizza seguendo approcci molto diversi tra loro. Il numero di definizioni attribuite al concetto scoraggia infatti una sua analisi sistematica, sia perché la fiducia è stata descritta in modo diverso in contesti disciplinari differenti sia perché spesso i suoi significati sono vaghi ed elusivi. La fiducia è stata definita di volta in volta come caratteristica psicologica, come valore sociale, come struttura sociale, come intenzione comportamentale. Essa ha costituito un importante oggetto di studio per gli analisti della scelta razionale (la fiducia è un elemento cruciale del ‘dilemma del prigioniero’), ma anche per la letteratura sociologica e politologica nata intorno alle grandi inchieste empiriche comparate, come gli studi sulla cultura politica, sul capitale sociale e sul senso civico.
Un elemento comune alla maggior parte delle definizioni di fiducia è comunque l’idea che si possa parlare di fiducia quando siamo in presenza di un’aspettativa positiva che un soggetto nutre nei confronti di comportamenti futuri di un altro soggetto. Aspettativa che può essere riposta in un soggetto individuale (fiducia negli altri) o collettivo (fiducia nelle istituzioni).
Ma qual è la natura dell’aspettativa fiduciaria? O meglio, quali sono le ragioni-motivazioni che stanno dietro a un comportamento affidabile o all’aspettativa di un comportamento affidabile?
Per sciogliere il nodo di significati che sta dietro al concetto di fiducia occorre focalizzare l’attenzione sul doppio binario attraverso il quale gli individui attribuiscono senso al mondo: i concetti e i valori.
Secondo Carlo Tullio-Altan (1995), concetti e valori costituiscono le due componenti del patrimonio culturale: i primi consentono all’uomo di conoscere, riconoscere e conferire senso al mondo allo scopo di utilizzarlo per raggiungere i propri fini; i valori invece definiscono le identità individuali e collettive e danno agli uomini un diverso ordine di motivazioni finalizzato all’azione. Tramite i concetti l’uomo attua una conoscenza di natura razionale mediante un processo di oggettivazione della realtà; mentre con l’esperienza simbolico-valoriale l’individuo definisce la propria identità morale, facendosi mezzo per raggiungere i valori con i quali si è identificato.
Questo doppio binario – questa contrapposizione tra concetti e valori – consente di distinguere in letteratura definizioni che sottolineano la dimensione strumentale della fiducia e altre che si fondano piuttosto sulla dimensione identificativo-valoriale. In termini più generali le diverse definizioni di fiducia possono essere lette attraverso i due approcci di analisi forse più distanti tra loro: in relazione agli schemi analitici tipici della rational choice o in base a quelli delle premesse di valore. Nel primo caso la fiducia è concepita come una risorsa strumentale, strettamente associata alla realizzazione di un evento e al concetto di rischio, quindi connessa a prevedibilità, calcolo e probabilità; nel secondo la fiducia è concepita in termini simbolico-valoriali, cioè in riferimento al senso di obbligazione morale, di identificazione, e di onore che lega gli individui. Nel primo caso si parlerà di fiducia ‘calcolata o strategica’, nel secondo di fiducia ‘identitaria’.
Con la fiducia calcolata o strategica siamo nel mondo delle scommesse, dell’inferenza statistica, del calcolo delle probabilità. È la fiducia che l’allibratore assegna – dopo accurata riflessione – al realizzarsi di un evento incerto e che quantifica nelle quote offerte (odds) agli scommettitori. Questa fiducia vede dunque, a un estremo, la certezza e, all’altro, l’ignoranza. Un’esperienza specifica permette di collocarsi tra questi estremi con un ‘ragionevole’ grado di fiducia. La non realizzazione dell’evento nel quale era riposto questo tipo di fiducia porta al disappunto, a una delusione che deriva da errori di valutazione, da mancanza di informazioni o da errori di calcolo. Alcuni autori arrivano a definire questo tipo di fiducia in termini tecnicamente probabilistici. Per Diego Gambetta, per es., fidarsi di qualcuno significa aver calcolato che la probabilità che questo qualcuno compia un’azione per noi benevola sia elevata, cioè al di sopra di una certa soglia: «è preferibile esprimere la fiducia come un valore di soglia localizzato su una distribuzione probabilistica, che può assumere valori sospesi tra la sfiducia completa (0) e la completa fiducia (1), con al centro un valore intermedio di incertezza (0,5)» (in Trust 1988, trad. it. 1989, p. 282).
La fiducia strategica presuppone sempre che il rapporto tra il fidente (colui che confida in qualcosa) e il fiduciario (colui che si dovrebbe dimostrare affidabile) sia esplicito e volontario (Uslaner 2002, p. 16). I due attori devono cioè conoscersi, anche se in modo indiretto. Il fiduciario deve essere consapevole della fiducia accordatagli e il fidente deve avere la possibilità di scegliere se fidarsi o meno. In altri termini si tratta di una promessa di collaborazione razionale, mirata, talvolta fondata su una relazione di lungo periodo, ma sicuramente basata su un calcolo del rischio tanto più sicuro quanto più accurate sono le informazioni acquisite (magari dalle precedenti esperienze). Essa ha sempre una natura interpersonale, anche quando si rivolge a un aggregato – sia esso un gruppo o un’istituzione. La logica che segue la fiducia strategica nelle istituzioni è atomista: la fiducia non è rivolta a un’istituzione in sé, ma agli individui che vi lavorano; l’istituzione è cioè percepita come la semplice somma delle sue singole componenti. La scelta di fidarsi o meno di un’istituzione nasce da una valutazione razionale e strumentale, dettata dalla percezione che si ha in termini di efficacia ed efficienza delle azioni svolte dalla somma dei membri dell’istituzione stessa. Il controllo della performance istituzionale è continuo e il fidente valuta a ogni occasione se ritirarsi o meno dalla scommessa fiduciaria.
Queste caratteristiche rendono la fiducia strategica molto fragile. In caso di tradimento, anche parziale, sarà molto difficile che il fiduciario riesca a riproporsi una seconda volta come affidabile agli occhi del fidente. La fiducia strategica dipende infatti fortemente dall’esperienza relazionale pregressa. Come sostiene Partha Dasgupta (in Trust, 1988), questa fiducia è molto difficile da costruire, ma è altrettanto facile da distruggere.
Sorgono però, a questo punto, due domande: che differenza è possibile individuare tra una classica decisione razionale in presenza di rischio e la fiducia strategica? Si può parlare di fiducia strategica in un rapporto con una persona che non si conosce?
Il confine tra decisioni in situazioni di rischio e fiducia strategica è in realtà molto labile. In entrambe le situazioni decisionali infatti il calcolo del rischio e l’analisi degli interessi in gioco è fondamentale. Oliver E. Williamson (1993) sul punto è drastico perché considera il concetto di fiducia strategica inutile, in quanto completamente assimilabile al concetto di rischio. Parlare di calculative trust è, per Williamson, fuorviante e costituisce una «contraddizione in termini» (1993, p. 485), visto che il termine fiducia dovrebbe essere riservato per descrivere la fiducia nelle istituzioni e nelle relazioni affettive e amicali.
In realtà la proposta di impiegare il concetto di fiducia solo per descrivere le relazioni di collaborazione che non presuppongono un calcolo strategico o solo per quelle che prevedono un ‘atto di fede’ è impossibile. Tra l’altro, le diverse declinazioni del concetto possono avere una loro specifica utilità euristica nello spiegare fenomeni sociali differenti, in ambiti disciplinari diversi.
La fiducia strategica è fondamentale per comprendere quella parte del comportamento umano che ha a che vedere con il principio dell’utilità, con la razionalità – per dirla con Max Weber – rispetto allo scopo, mentre il concetto di fiducia identitaria permette di approfondire le azioni connesse a una razionalità rispetto al valore. Si pensi, per es., all’utilità delle due declinazioni del concetto di fiducia per analizzare la tipologia degli elettori di Arturo M.L. Pasquino e Gianfranco Parisi (1977) – e dunque per analizzare le caratteristiche del voto di appartenenza, del voto di opinione e del voto di scambio. Il rapporto candidato-elettore nel voto di scambio può essere descritto come un rapporto di fiducia calcolata volto a soddisfare l’interesse personale dei due attori. Il voto espresso dall’elettore-fidente è strettamente ancorato agli specifici benefici particolaristici che potrà ottenere (e che gli sono stati promessi), ma prima di decidere di votare il candidato che gli ha richiesto il voto in cambio di benefici futuri, l’elettore-fidente valuterà con attenzione l’affidabilità del candidato-fiduciario, considerando la sua effettiva capacità di essere eletto, la sua capacità di controllare le risorse promesse, la sua reputazione nel mantenere le promesse fatte. Non a caso il voto di scambio dipende dalla soddisfazione degli accordi presi ed è per sua natura estremamente fluttuante. Sebbene fondato su principi differenti – cioè legato ai programmi proposti dai partiti in campagna elettorale – possiamo ipotizzare una fiducia di natura strategica anche nella relazione tra candidato ed elettore di opinione. Al contrario se parliamo di voto di appartenenza il rapporto di fiducia esula del tutto dal calcolo.
A differenza di quella calcolata, la fiducia identitaria attiene alla sfera dei valori. Questo tipo di fiducia si riflette nell’affidamento del fedele ed è ben espresso nel Vangelo di Luca (5, 1-11):
Quando ebbe finito disse a Simone: “prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca”. Simone rispose: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti”. Fecero così e presero una quantità enorme di pesci.
Il rapporto fedele-divinità emerge, per es., nell’Antico Testamento, dal passo 17, 5-7 di Geremia:
Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, che pone nella carne il suo sostegno e il cui cuore si allontana dal Signore. Egli sarà come un tamerisco nella steppa, quando viene il bene non lo vede; dimorerà in luoghi aridi nel deserto in una terra di salsedine dove nessuno può vivere. Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia.
La fiducia identitaria non è riconoscibile senza comprendere i valori e le motivazioni che guidano i soggetti coinvolti nella relazione fiduciaria. Questa fiducia si pone
al di là della conoscenza e dell’ignoranza… [È quella fiducia che] si chiama fede di un uomo in un altro… [che] non è mediata né da esperienze né da ipotesi, ma è un comportamento primario dell’anima in rapporto all’altro (Simmel 1908, trad. it. 1989, p. 299).
La fiducia identitaria fa riferimento dunque alla sfera valoriale di un individuo, al suo senso di appartenenza, alla sua identità. È una fiducia irrazionale, non calcolabile; è una forma di affidamento che non si può comprendere con la sfera razionale. Analizzare questo tipo di fiducia significa considerare un altro continuum che vede, a un estremo, la fede incondizionata e, all’estremo opposto, la diffidenza e il cinismo. Il tradimento di questo secondo tipo di fiducia, permeata e sostenuta da un processo di trasfigurazione simbolica, porta disorientamento e disillusione.
Prima di arrivare a questa disillusione non è però sufficiente un singolo tradimento. I tradimenti devono essere molti, continuativi e senza possibilità di giustificazione. Di fronte a una delusione la fiducia identitaria è orientata infatti alla voice (Hirschman 1970), cioè alla protesta, a differenza di quella strategica che tende all’exit (ovviamente se si hanno alternative più convenienti e affidabili). La fiducia identitaria è dunque ‘stabile’, resiste cioè ai momenti di crisi contingenti. Se però incontra il disincanto totale è difficile da ricostruire. Di fronte a una continua disillusione delle aspettative, la fiducia identitaria, ancora di più di quella morale, può portare a una crisi profonda.
Quando l’identificazione è autentica – e l’autenticità è dettata dall’assenza di calcolo del rischio – la fiducia identitaria è cieca, incondizionata, non dipende dalla posta in gioco. Un fidente identificato è disposto a rischiare i risparmi di una vita così come la sua vita stessa se il fiduciario, con cui si è identificato, glielo richiede. Si potrebbe dire che la posta in gioco che il fidente è disposto a rischiare dà la misura della sua identificazione.
La fiducia identitaria, nella sua connotazione idealtipica, spiega infatti quelle azioni che portano il fidente a trasformarsi in mezzo per raggiungere un fine che lo trascende: è per es. questo il caso del martire che sacrifica la sua vita per la causa di Dio. È la stessa fede che Abramo dimostra in Dio nel capitolo 22 della Genesi. In queste situazioni estreme la fiducia è totale, i fidenti non cercano neanche di capire la logica del ‘sacrificio’ che viene loro richiesto. Sul piano più ordinario questa fiducia si può rintracciare in un partigiano per la propria causa, in un militante per il proprio partito. È quella fiducia che porta una persona a continuare a fidarsi del leader politico o del partito da sempre votato nonostante gli scandali, o che porta un cittadino a identificarsi nel regime democratico, nella bandiera o nel Parlamento nonostante la pessima prova che la politica ha dato di sé negli anni.
Oggetti della fiducia identitaria possono essere un individuo, un insieme di individui, una comunità, un’istituzione, un’organizzazione. Quando si parla di fiducia identitaria istituzionale, per es., la fiducia è rivolta all’istituzione in sé, non ai membri che in un determinato momento ne costituiscono l’organico. Questo è possibile perché l’istituzione – percepita come un insieme dal peso specifico maggiore di quello della somma delle singoli parti che la compongono – è stata oggetto di trasfigurazione simbolica e si è fatta portatrice di valori con i quali il fidente si identifica (Cartocci 2002). La spinta a fidarsi non è dunque legata alla sua contingente efficienza istituzionale, ma al senso identitario che la sostiene. Va da sé, comunque, che il perdurare nel tempo del cattivo funzionamento istituzionale mette a repentaglio anche i legami identitari che i cittadini nutrono nei confronti delle istituzioni.
Se parliamo di fiducia identitaria interpersonale è analiticamente utile distinguere tra: 1) la fiducia rivolta a un altro individuo generalizzato e sconosciuto, 2) la fiducia rivolta a individui conosciuti (seppure indirettamente) in quanto appartenenti a un determinato gruppo di riferimento.
Nella prima situazione la letteratura parla di fiducia generalizzata, morale o sociale. La fiducia generalizzata si fonda sull’idea che le persone condividano gli stessi valori morali e che ciò li induca a non approfittarsi degli altri. È la fiducia che nasce dalla percezione di condividere un destino comune al di là delle diverse credenze politiche o religiose (Uslaner 2002, pp. 3-4). È quella fiducia che, al pari di altre risorse morali, cresce con l’uso e deperisce con il disuso (cfr. Hirschman 1970).
La fiducia generalizzata, rivolgendosi a persone sconosciute, rende tecnicamente impossibile il calcolo dell’affidabilità del fiduciario e risulta per questo non analizzabile secondo un approccio rational choice. Sul piano empirico è rilevabile attraverso domande quali: «In generale lei direbbe che la maggior parte della gente è degna di fiducia o che bisogna fare attenzione nel trattare con gli altri?» oppure «Nella maggior parte dei casi le persone cercano di rendersi utili oppure pensano solo a se stesse?», o ancora «Pensa che le persone cerchino perlopiù di approfittarsi di lei o provino a essere corrette?». Si tratta di domande formulate in modo molto simile in tutte le principali indagini statistiche comparate: dalla World values survey (WVS) all’European values study (EVS), dall’European social survey (ESS) all’Eurobarometro.
Quando la fiducia identitaria interpersonale è rivolta a individui conosciuti perché appartenenti a uno stesso gruppo di riferimento è necessario distinguere tra fiducia universalistica e particolaristica e introdurre il concetto di ‘raggio della fiducia’ (Fukuyama 1995).
La fiducia interpersonale identitaria può avere effetti politici e sociali diversi a seconda della capacità dei cittadini di identificarsi con una cerchia di persone più o meno ampia. Quando in una comunità la fiducia identitaria è rivolta principalmente ai soli membri della propria famiglia nucleare (è il caso dei familisti amorali descritti da Edward C. Banfield nel 1958) o al massimo agli amici, al clan e alla rete parentale, siamo di fronte a un raggio della fiducia corto, a una fiducia particolarista, poco propensa alle collaborazioni orizzontali. Se le cerchie di riferimento non si limitano a quelle di club, ma si estendono a gruppi ampi e meno coesi il raggio della fiducia è esteso e apre a un orizzonte universalista. Quando il raggio della fiducia ha un’estensione massima, cioè quando la fonte di identità è l’appartenenza al genere umano in generale, si può parlare propriamente di fiducia generalizzata.
Empiricamente è difficile capire se una relazione tra due individui che si conoscono (più o meno direttamente) abbia una natura strategica o identitaria. L’appartenenza a uno stesso gruppo di riferimento non genera necessariamente fiducia identitaria. A un gruppo si può appartenere anche per interesse o per nascita, senza avere attraversato nessun processo di identificazione. Le persone che appartengono a uno stesso gruppo possono dunque essere spinte a fidarsi l’una dell’altra semplicemente perché contano sulle capacità di controllo sociale del gruppo stesso e sulla sua capacità di sanzionare un comportamento scorretto. Un membro di un gruppo nutre una fiducia non calcolata nei confronti di un altro membro dello stesso gruppo solo se nei confronti di questo gruppo di riferimento ha attivato un processo di identificazione, con le conseguenti complicazioni in presenza di appartenenze multiple.
La fiducia identitaria si forma dunque all’interno di una comunità e si fonda su norme e valori sociali condivisi. Essa è, in buona misura, determinata da modelli culturali appresi dalle diverse agenzie di socializzazione, e ciò spiega perché alcune realtà sociali o territoriali sono più dotate di fiducia diffusa rispetto ad altre (cfr. Fukuyama 1995). Dal momento che presiede al grado di apertura verso gli altri e le istituzioni, i suoi effetti sono rilevabili in termini di coesione sociale, di senso di responsabilità morale nei confronti degli altri, di rendimento istituzionale. Aspetti questi direttamente connessi al concetto di capitale sociale.
Fiducia e capitale sociale sono legati da un lato da un rapporto di rappresentanza semantica – la fiducia è un classico indicatore di capitale sociale – e dall’altro dall’essere entrambi soggetti al problema della polisemia dei termini. Il capitale sociale può essere descritto sia come una risorsa individuale – riprendendo l’approccio di Pierre Bourdieu (1980) – sia come una risorsa morale collettiva – riprendendo i lavori di Robert D. Putnam (1993) e di Roberto Cartocci (2007).
Nel primo caso il capitale sociale è definibile come la rete di relazioni durevoli che gli individui sono in grado di attivare al fine di raggiungere i loro scopi (Bourdieu 1980, p. 2). Al pari di altre forme di capitale (culturale, economico e simbolico), il capitale sociale à la Bourdieu è una risorsa strumentale posseduta dagli individui, che cresce con l’estendersi (in termini qualitativi e quantitativi) del reticolo di relazioni in cui una persona è inserita. Il riferimento all’utilità fa pensare che la sopravvivenza di questo tipo di capitale sociale conti su una solida reciprocità simmetrica e dunque su una diffusa fiducia di natura strategica.
Il capitale sociale come risorsa collettiva è invece assimilabile al concetto di civicness. È la «fiducia diffusa, le norme che regolano la convivenza e le reti di associazionismo civico» di cui gode un certo contesto sociale (Putnam 1993, p. 196). È il senso di obbligazione morale nei confronti degli altri che deriva dalla condivisione di norme informali che incorporano valori (o disvalori) comuni (Cartocci 2007). È l’esistenza di un ethos condiviso – fondato su reciprocità generalizzata, onestà e fiducia – che abbassa i costi di transazione, migliora la qualità della vita, favorisce il rendimento istituzionale, la sicurezza, il benessere economico e l’integrazione sociale. La presenza di questo tipo di capitale sociale segnala in estrema sintesi l’esistenza di una comunità, che può essere più o meno estesa, più o meno inclusiva o esclusiva. Sulla base dell’ampiezza della comunità di appartenenza Putnam distingue infatti tra capitale sociale bridging – il capitale sociale delle comunità aperte, capaci di allargare i confini della solidarietà e dell’identità collettiva verso il diverso – e capitale sociale bonding – il capitale sociale ‘chiuso’ che ha esiti di intolleranza ed esclusione ed è alla base dei localismi e delle comunità ristrette.
Come sostiene Eric M. Uslaner (2002, p. 29), la differenza tra capitale sociale bridging e bonding è affine alla distinzione tra fiducia generalizzata e particolaristica. In entrambi i casi l’idea centrale è quella di individuare quanto sia inclusiva la comunità morale di riferimento. La fiducia generalizzata è infatti la fiducia nei confronti di chi non conosciamo e si fonda sulla convinzione di condividere un destino comune con gli altri, mentre la fiducia particolarista – è stato detto – si può sviluppare solo tra chi appartiene alla stessa cerchia di riferimento.
Ovviamente l’apertura o la chiusura verso gli altri ha conseguenze sociali importanti: fidarsi solo di chi condivide con noi la stessa ristretta appartenenza porta all’esclusione del diverso, a percepire gli estranei ai nostri gruppi come ‘nemici’. Fidarsi di chi non si conosce significa invece aprirsi alla socialità e ampliare la coesione sociale. Dunque via via che accorciamo il raggio della fiducia, passando dalla fiducia generalizzata (che ha sempre una conformazione bridging e costituisce la massima espressione della fiducia universalista) alla fiducia nei confronti di gruppi più ristretti, aumentiamo progressivamente il livello di particolarismo del nostro rapporto di fiducia e le corrispondenti caratteristiche bonding.
Sebbene risulti chiara la tendenziale natura non strategica del fidente bridging, meno evidente è il carattere fiduciario del fidente bonding. Quest’ultimo, in quanto particolarista, tenderà infatti a proporre rapporti di fiducia identitaria solo con gli appartenenti ai gruppi con i quali ha attivato un processo di identificazione, mentre avrà un atteggiamento ‘escludente’ e tendenzialmente basato su rapporti strategici con tutti coloro che non appartengono a questi gruppi (Uslaner 2002, pp. 27-29).
Ma quando deve essere esteso il gruppo di riferimento del fidente per poter parlare di fiducia universalista? In linea di massima si potrebbe dire che un fidente nutre una fiducia universalista (e bridging) quando non conosce né direttamente né indirettamente (cioè attraverso un conoscente comune) il proprio fiduciario. Si possono però trovare molte eccezioni a questa regola. La distinzione tra thick trust e thin trust permette di chiarire meglio quando parlare di fiducia particolaristica o universalistica (Putnam 2000).
La thick trust («fiducia densa») è quella fiducia che scorre nelle comunità ristrette e omogenee fondate su una solidarietà meccanica e su relazioni primarie. È una fiducia che si genera con il contatto quotidiano e approfondito con le persone. Nei nostri termini è una fiducia identitaria che spesso ha una natura ‘esclusiva’. Al contrario, la thin trust («fiducia leggera») è la fiducia nei conoscenti, nelle persone con cui non si ha un rapporto intenso. È una fiducia capace di estendere il suo raggio di azione anche oltre la conoscenza diretta ed è propria delle relazioni secondarie e delle società moderne, organiche e inclusive.
La relazione tra capitale sociale e fiducia è comunque complessa. Se nella letteratura pochi sono i dubbi sulla relazione che è possibile rintracciare tra chi si fida delle persone in generale e l’impegno civile (Putnam 1993; Uslaner 1998), meno uniformi sono le posizioni a proposito del legame circolare tra fiducia, partecipazione a network sociali e impegno civile. Una partecipazione alla vita associativa non si collega necessariamente a una crescita della fiducia generalizzata (Stolle 2001) e neanche a una crescita della fiducia nelle istituzioni (Newton, Norris 2000). Secondo Eric M. Uslaner, per es., la partecipazione sociale può stimolare fiducia generalizzata e impegno civile soprattutto quando si compie in organizzazioni orizzontali, democratiche, composte da membri che provengono da background culturali differenti e guidate da una proposta etica rivolta all’apertura nei confronti di una comunità morale ampia (Uslaner 2002, pp. 116-18). Altri autori ancora hanno evidenziato come anche l’appartenenza a più associazioni contemporaneamente sia un volano per lo sviluppo di una fiducia generalizzata (Sciolla 2004, pp. 81, 119).
Prima di passare all’analisi della fiducia identitaria in Italia è necessario soffermarsi brevemente sui limiti connessi alla rilevazione empirica del concetto. La fiducia è tradizionalmente rilevata con domande dirette e standardizzate, attraverso un questionario. Si chiede agli intervistati di valutare il proprio grado di fiducia nei confronti di specifiche istituzioni, di determinate persone o gruppi di riferimento. Se da un lato la fiducia generalizzata viene facilmente studiata domandando agli intervistati quanto si fidano delle persone in generale, più complessa (almeno con questi strumenti di rilevazione) è l’analisi delle altre forme di fiducia identitaria. Nel momento in cui l’intervistato ha la possibilità di identificare l’oggetto della fiducia, non è più possibile, attraverso un’intervista standardizzata, capire con certezza se la valutazione del suo grado di fiducia abbia una natura strumentale (magari legata alle sue contingenti esperienze personali) o valoriale. Questo problema si presenta sia indagando sul grado di fiducia nei confronti di un gruppo di riferimento specifico sia analizzando la fiducia istituzionale. Per ovviare a questi inconvenienti, nelle pagine che seguono si cercherà da un lato di concentrare l’analisi sulla fiducia generalizzata, dall’altro (quando possibile) di affiancare all’analisi della fiducia nelle istituzioni quella di indicatori di legittimità istituzionale.
Nel caso italiano l’analisi della fiducia identitaria non può essere affrontata senza trattare il tema dell’arretratezza socioculturale del Paese. Secondo Tullio-Altan (1986) questa sindrome di arretratezza che affligge l’Italia consiste nella sopravvivenza anacronistica di modelli culturali originati nei secoli passati, mantenuti in vita nonostante le profonde trasformazioni sociali, politiche e istituzionali che si sono susseguite nel corso dei decenni. Tre sono i tratti che caratterizzano questa arretratezza:
1) l’esaltazione della famiglia quale centro esclusivo di interessi e valori; il prevalere cioè di una socialità limitata alla propria famiglia di appartenenza, oltre la quale esiste la diffidenza e il sospetto. In termini di fiducia, si tratta della diffusione di una fiducia di natura particolarista dal raggio molto corto, che si accompagna a un sentimento di scarsa fiducia generalizzata;
2) una conseguente diffusa asocialità intesa come mancanza di solidarietà e di corresponsabilità sociale, che ha promosso una sorta di indifferenza al bene comune rispetto all’obiettivo di ottenere vantaggi di parte;
3) la tendenza alla subordinazione e all’immobilismo fatalistico inteso anche come sottomissione passiva al potere dominante, incarnato nelle istituzioni laiche ed ecclesiastiche.
Si tratta di caratteristiche peraltro rilevate dai molti studiosi che dalla metà del secolo scorso si sono interessati all’analisi della cultura politica del nostro Paese, in chiave più o meno comparata. Tra questi, è utile ricordare Banfield che, dopo aver trascorso nove mesi in un paese della Lucania – attraverso un’analisi ermeneutica fondata su interviste, dati censuari, fonti ufficiali, memoriali autobiografici e libri di conti che i contadini avevano compilato per lui –, mise a punto la nozione di ‘familismo amorale’. L’ethos del familismo amorale – cioè la tendenza a «massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare [e a] supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo» (1958, trad. it. 1976, p. 105) – è per Banfield un preciso modello culturale che coinvolge tutta la realtà del Mezzogiorno d’Italia e sottolinea una radicale sfiducia negli altri, nelle istituzioni e l’inammissibilità dell’azione collettiva. Secondo Banfield questa assenza di obbligazione morale, pur avendo origine da vicende storiche fatte di dure condizioni economiche o di dominazione straniera, presenta i caratteri di ogni modello culturale: resiste al cambiamento e trascende dalle condizioni che ne sono all’origine. Al di là delle critiche rivolte al lavoro di Banfield, il concetto di familismo amorale viene ancora oggi presentato – all’interno di un ipotetico continuum – come l’estremo opposto della fiducia generalizzata.
Ma l’esempio paradigmatico delle ricerche sulla cultura politica in Italia – dove, tra l’altro, è stata rilevata per la prima volta la fiducia generalizzata con le stesse modalità con cui si rileva oggi – è rappresentato dal saggio The civic culture (1963). Con questo lavoro Gabriel A. Almond e Sidney Verba si posero l’obiettivo di comparare cinque sistemi politici (Italia, Messico, Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna) per studiare il rapporto tra cultura politica e stabilità democratica. Per i due studiosi americani la cultura politica italiana alla fine degli anni Cinquanta era caratterizzata da apatia e alienazione politica, da isolamento politico e da una profonda e diffusa sfiducia. La tendenza degli italiani a vedere l’amministrazione e la politica come forze minacciose e imprevedibili, piuttosto che come istituzioni su cui poter incidere, indusse già allora i due politologi a considerare la cultura politica dell’Italia non adatta allo sviluppo di una democrazia, si direbbe oggi, di qualità (Morlino 2011).
Sulla tradizione di The civic culture si è poi sviluppata un’ampia produzione di ricerche comparate – si pensi alle già citate indagini dell’Eurobarometro, della European values study, della World values survey e della European social survey – che hanno permesso di continuare a descrivere i caratteri degli italiani in rapporto a quelli degli altri Paesi. Anche in anni recenti queste ricerche hanno evidenziato come le anomalie italiane in termini di sfiducia diffusa siano oggi sempre più attuali.
La tabella 1 mostra le percentuali medie di fiducia negli altri (dal 1990 al 2009) e nei connazionali (dal 1990 e il 1999) rilevate in Italia e negli altri Paesi dell’Europa dei 15 (i Paesi europei che sono entrati a far parte della UE prima del 2004). Si tratta, in entrambi i casi, di fiducia universalistica, il cui raggio di estensione è però diverso. I dati sono tratti dalle ultime tre ondate di indagini organizzate dalla European values study combinate alle quattro organizzate tra il 1990 e il 2009 dalla World values survey. La tabella riporta anche gli scarti percentuali di fiducia generalizzata tra l’ultima (2009) e la prima rilevazione considerata (1990) e, nell’ultima riga, la differenza tra l’Italia e la media europea. Due gli aspetti da considerare: il deficit di fiducia che gli italiani manifestano nei confronti delle persone che non conoscono e il progressivo aumento di questo deficit nel corso degli anni. In rapporto alla media europea lo scarto registrato dagli italiani per la fiducia negli altri è pari a −6,8% e supera il 21% per la fiducia nei connazionali. Si tratta di una sfiducia generalizzata aumentata nel tempo più di quanto sia avvenuto nel resto dell’Europa dei 15 (lo scarto registrato è pari al −6,7%). Non solo gli italiani si collocano tra i cinque Paesi europei che meno si fidano degli altri in generale (registrando una percentuale media di fiducia generalizzata di poco superiore al 30%), ma si caratterizzano anche per essere il Paese con le percentuali di fiducia nei confronti dei propri connazionali più basse (poco più del 42%, a fronte di una media europea pari al 64%). Dunque mentre Portogallo, Francia e Lussemburgo compensano la scarsa fiducia negli altri con un accentuato senso di identità nazionale, l’Italia fatica anche a confrontarsi come popolo, mostrando un grado di diffidenza ancora più profondo.
Questa mancanza di fiducia diffusa è alla base della difficoltà italiana nel promuovere solidarietà e corresponsabilità sociale e si affianca – come si può evincere dalla tabella 2 – a una scarsa fiducia nelle istituzioni democratiche.
Nella tabella 2 sono infatti riportate le percentuali di ‘molta e abbastanza’ fiducia nel Parlamento, nella pubblica amministrazione, nella Chiesa, nell’Esercito, nella Polizia e nel sistema giudiziario dei 15 Paesi europei analizzati: i dati sono ancora una volta tratti dalla World values survey e dalla European values study e riguardano tutte le indagini organizzate tra il 1990 e il 2009. Anche in questo caso la tabella riporta il valore percentuale medio europeo e lo scarto del campione italiano da questo valore.
L’Italia rispetto agli altri Paesi dell’Europa dei 15 si caratterizza per tre particolarità:
1) l’alta fiducia assegnata alla Chiesa, che registra una percentuale media (il 65,6% del campione si fida molto o abbastanza) inferiore solo al Portogallo (74,9%) e uno scarto rispetto all’insieme dei Paesi europei di quasi 20 punti percentuali. È una fiducia che nel caso italiano è così elevata da raddoppiare il credito raggiunto dal Parlamento;
2) la scarsa fiducia assegnata al Parlamento (32,9%), alla Pubblica amministrazione (33,9%) e al sistema giudiziario (37,7%), cioè, rispettivamente, alla principale istituzione della rappresentanza democratica, al più quotidiano mezzo di raccordo tra cittadini e istituzioni e alle istituzioni preposte a garantire un’equa giustizia a tutti i cittadini;
3) il divario di fiducia che separa il sistema giudiziario dalle altre due istituzioni che garantiscono l’ordine pubblico: l’esercito (59,8%) e la polizia (71,5%). Se il credito riscosso dall’esercito e dalla polizia è in linea con le medie europee, il sistema giudiziario italiano registra, rispetto alla media degli altri Paesi europei, uno scarto negativo pari a 18 punti percentuali.
La fiducia nelle istituzioni, pur partendo da una valutazione della prestazione di ogni singola istituzione, ha un’importante componente identitaria. Tanto che, secondo alcuni autori, nell’espressione di un giudizio di fiducia istituzionale, l’elemento identitario prevale nettamente su quello strumentale. Claus Offe (1999), in particolare, sostiene che quando si domanda a un individuo di esprimere il suo grado di fiducia in una istituzione gli si chiede in realtà di dare solo un’opinione di massima rispetto alla sua efficienza. Ci si aspetta dunque un giudizio soprattutto sulla capacità di quella istituzione di assolvere ai suoi compiti e di diffondere determinati valori. Questo significa che la fiducia nelle istituzioni è strettamente connessa alla loro legittimità, all’autorevolezza che sono in grado di esercitare e al sostegno diffuso che generano. Sul piano empirico la domanda più adatta a rilevare la legittimità delle istituzioni è quella riguardante la soddisfazione per il funzionamento della democrazia.
La figura 1 mostra le percentuali dei soddisfatti (molto o abbastanza) nella democrazia tra i cittadini dei Paesi europei più comparabili all’Italia per dimensioni e peso demografico: Francia, Spagna, Gran Bretagna e Germania. La fonte dei dati questa volta è l’Eurobaromentro e la figura riporta i dati raccolti tra il 1973 e il 2012.
L’ampiezza della serie storica ci permette di analizzare la soddisfazione nella democrazia andando oltre i mutamenti di percezione legati alle contingenze politiche che hanno caratterizzato la storia politica dei Paesi analizzati nel corso degli ultimi quarant’anni. A parte il generale declino della soddisfazione legato alla crisi economica che ha coinvolto l’intera Europa a partire dall’estate del 2007, è possibile individuare delle costanti specifiche per i Paesi analizzati. In Francia e in Gran Bretagna, le democrazie più solide e di antica costituzione, la soddisfazione democratica non ha mai registrato fluttuazioni importanti assestandosi quasi sempre intorno rispettivamente al 50% e al 60%. La Spagna, dopo la fine del franchismo, ha registrato percentuali di soddisfazione piuttosto elevate, pur riportando due importanti battute d’arresto tra il 1993 e il 1995 e dopo il 2010, con il protrarsi della crisi economica. La Germania invece, dopo l’unificazione, ha registrato ampie oscillazioni che però l’hanno condotta verso una costante crescita della soddisfazione per il funzionamento della democrazia, tanto che nel 2013 la quota di tedeschi soddisfatti rasentava il 70%. L’Italia si è sempre collocata, in termini di soddisfazione per la democrazia, al di sotto degli altri Paesi europei, registrando scarti negativi di oltre 30 punti percentuali. Anche se nel primo decennio degli anni Duemila sembrò emergere un cambiamento di rotta, dal 2011 le percentuali di insoddisfazione sono tornate oltre il 70%.
Questa insoddisfazione che si protrae in modo quasi costante nel tempo fa pensare a una mancata identificazione con la nostra architettura istituzionale, a una carenza di legittimità che si manifesta nella diffusa corruzione della politica, negli alti costi di transazione, e, in ultima analisi, nella prevalenza della diffidenza e dell’irresponsabilità sociale. Resta a questo punto da analizzare come questo tratto di sfiducia – che segna un visibile divario tra l’Italia e le altre nazioni europee – sia distribuita tra le diverse regioni del nostro Paese, così differenti dal punto di vista sociale ed economico.
Le prime indagini empiriche sulle differenze culturali in Italia risalgono agli anni Sessanta, quando l’Istituto Cattaneo di Bologna iniziò un ampio programma di ricerca teso ad analizzate i due maggiori partiti italiani del tempo: la Democrazia cristiana e il Partito comunista italiano. Sebbene gli obiettivi di queste ricerche non fossero esplicitamente diretti allo studio della fiducia diffusa e della cultura politica italiana, ma al funzionamento del sistema politico italiano nel suo complesso, l’approfondimento delle caratteristiche culturali del Paese non solo fu inevitabile, ma portò anche a risultanze fondamentali. Fu evidenziata per es. la presenza di due subculture politiche ben definite – ‘rossa’ e ‘bianca’ – radicate territorialmente (nell’Italia centrale e nell’Italia nord-orientale) e capaci di svolgere un’articolata azione di socializzazione politica. Parimenti fu evidenziata la debolezza e la marginalità nel panorama politico italiano di una subcultura politica laica, oltre che approfondita l’analisi delle differenze tra il Nord e il Mezzogiorno. Dieci anni dopo Arnaldo Bagnasco – partendo dal presupposto secondo cui «per comprendere il sistema italiano è essenziale comprendere l’articolazione territoriale e le sue funzioni economiche e politiche» (1977, p. 10) – descrisse le aree ‘rosse’ e ‘bianche’ come espressione di un’unica formazione sociale, economica e territoriale: la Terza Italia. Sul piano della cultura politica la Terza Italia si caratterizzava per l’alto livello di partecipazione politica e sociale, la fiducia interpersonale e istituzionale, la fedeltà di voto, la diffusa partecipazione politica, la forte etica del lavoro e la profonda identità locale.
Sebbene le trasformazioni sociali, politiche ed economiche degli ultimi vent’anni abbiano portato alla disarticolazione delle subculture politiche territoriali e a profondi mutamenti nella geografia economica e politica del Paese, gli studi sull’Italia plurale hanno da un lato permesso di approfondire il legame tra fiducia, capitale sociale, rendimento istituzionale e qualità della democrazia e dall’altro reso evidente la necessità di studiare l’Italia come un Paese diviso in macroregioni. Del resto l’Italia, non solo è un Paese giovane che ha conosciuto l’unificazione dopo secoli di divisioni politiche, ma si è costituito come Stato unitario con difficoltà e in presenza di complessi caratteri culturali e strutturali al suo interno: un processo di democratizzazione lento, la presenza della Chiesa cattolica, radicate identità locali capaci di sopravvivere nei secoli, profonde fratture ideologiche affiancate a orientamenti culturali familistici e particolaristici.
Molti sono stati i sociologi e i politologi che si sono cimentati negli anni a costruire tipologie adatte a suddividere l’Italia in aree omogenee. Al di là delle diverse posizioni sull’opportunità di mantenere i vincoli dell’indivisibilità delle regioni e della contiguità territoriale, i principali fundamenta divisionis presi in esame a tale scopo sono stati tre: la presenza di una rete organizzativa subculturale, la struttura economica diffusa, l’affiliazione partitica tradizionale. Attraverso questi criteri di demarcazione tutte le tipologie prodotte tra gli anni Sessanta e Ottanta hanno permesso di individuare almeno quattro aree differenti e una chiara linea di demarcazione tra il Centro-Nord e il Centro-Sud del Paese intorno al confine meridionale della Toscana, dell’Umbria e delle Marche (Cartocci 1990). In questa sezione, quando i dati sulla fiducia non sono disponibili a livello regionale, viene adottata la tipologia costruita dai ricercatori dell’Istituto Cattaneo degli anni Sessanta distinguendo però la fascia centrale (Lazio, Abruzzo e Sardegna). L’Italia viene così suddivisa in cinque aree: Nord-Ovest (Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia), Nord-Est (Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia), zona ‘rossa’ (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche), Centro-Sud (Lazio, Abruzzo e Sardegna) e Sud (Molise, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia). Sebbene oggi sia utile solo parzialmente per spiegare i comportamenti elettorali, questa tipologia mantiene una sua validità per cogliere le differenze, ma soprattutto i cambiamenti culturali attraversati dal Paese negli ultimi quattro lustri.
La tabella 3 mostra la distribuzione regionale della fiducia generalizzata e altri classici indicatori di partecipazione politica e sociale, come la lettura di giornali, le frequenza di discussioni politiche e la donazione di denaro ad associazioni di volontariato. I dati sono tratti dalle indagini Multiscopo sulle famiglie (Aspetti della vita quotidiana) organizzate dall’ISTAT tra il 2010 e il 2012 e prendono in considerazione oltre 142.000 intervistati. La domanda impiegata per rilevare la fiducia negli altri è simile a quella proposta dalla World value survey e dalla European value study, ma, vista l’ampiezza del campione (nella WVS e nella EVS vengono intervistate, per ogni ondata, dalle 1000 alle 2000 persone per Paese), le risultanze presentate sulla base dei dati ISTAT sono da considerarsi molto più solide.
Due gli aspetti da notare. Innanzitutto le modeste percentuali di fiducia generalizzata diffuse nel Paese, in secondo luogo il progressivo calo della fiducia negli altri che si rintraccia passando dal Nord al Sud. Se in Trentino-Alto Adige il 36% degli intervistati dichiara di potersi «fidare della maggior parte della gente» – registrando così un grado di fiducia generalizzata pari a quella rilevato dalla WVS e dalla EVS nei Paesi del Centro Europa – nelle restanti regioni del Nord e del Centro-Nord queste percentuali si aggirano intorno al 22-27%, mentre nel Sud non superano quasi mai il 16-17%. Si tratta di un punto di partenza importante per capire le differenze in termini di cultura politica tra le diverse regioni italiane. Come suggerisce anche Putnam (2000), la fiducia generalizzata condiziona infatti la partecipazione politica e sociale, la coesione sociale, l’interesse per la ‘cosa pubblica’, cioè tutti quei prerequisiti che i cittadini dovrebbero avere per cooperare tra loro e valutare in modo adeguato le scelte compiute dai governanti.
Da notare sono perciò le alte correlazioni tra chi si fida degli altri e gli indicatori di capitale sociale (à la Putnam) presentati nella tabella 3. Si registrano infatti forti correlazioni negative (r pari a −0,89) tra chi si fida della gente e coloro che non leggono i giornali o coloro che parlano poco di politica. Si rileva invece una elevata correlazione positiva (r pari a 0,86) tra chi si fida degli altri e chi versa soldi ad associazioni di volontariato. In questo quadro non sorprende che – parallelamente a ciò che è emerso analizzando la fiducia generalizzata – nelle regioni del Nord-Ovest e del Nord-Est circa il 70% dei residenti (in Trentino Alto-Adige circa l’80%) dichiari di leggere i quotidiani almeno una volta alla settimana e di discutere spesso di politica con altre persone e che queste percentuali scendono al 60-65% nel Centro del Paese e al 40-50% nel Sud. Anche le quote di coloro che versano soldi alle associazioni di volontariato si riducono progressivamente passando dalle regioni del Nord a quelle del Sud del Paese.
Sempre con l’intento di analizzare lo stock di fiducia distribuito nelle diverse regioni italiane, la tabella 4 riporta i valori medi – la scala di riferimento va da 0 a 10 – di fiducia registrati nei confronti del Parlamento (valori rilevati tra il 2011 e il 2013), del Sistema giudiziario (valori rilevati tra il 2011 e il 2013), dei partiti (valori rilevati tra il 2011 e il 2013), delle Forze dell’ordine e dei Vigili del fuoco (valori rilevati tra il 2012 e il 2013), delle istituzioni locali (valori rilevati tra il 2012 e il 2013). Anche questi dati provengono dalle indagini Multiscopo dell’ISTAT (Aspetti della vita quotidiana) e contano su un campione di oltre 140.000 individui per l’arco temporale 2011-2013 e su un campione di oltre 92.000 per gli anni 2012 e 2013.
Ancora una volta emerge con chiarezza come le uniche istituzioni che da Nord a Sud riescono a ottenere la fiducia dei cittadini siano le Forze dell’ordine e i Vigili del fuoco. Per il resto la fiducia nelle istituzioni della democrazia è ben al di sotto della sufficienza. È una sfiducia che oggi risulta uniforme in tutte le regioni del Paese – con una sottile eccezione per le istituzioni locali (intese come Comune, Provincia e Regione) – e che sembra colmare quel divario che da sempre divide il Nord dal Mezzogiorno d’Italia. Si potrebbe pensare che l’unità d’Italia alla fine si va costituendo sul mancato credito nelle istituzioni dello Stato.
La presenza di cittadini poco fiduciosi, poco cooperativi e poco informati produce ovvi effetti negativi al funzionamento delle istituzioni democratiche sia perché ostacola la formazione di domande politiche di ‘qualità’ sia perché non favorisce un adeguato controllo sull’operato dei governanti e in ultima istanza rende difficoltoso il miglioramento del rendimento istituzionale. Il legame tra fiducia negli altri e fiducia istituzionale, partecipazione politica ed efficienza delle istituzioni è infatti, in certe condizioni, molto forte e spesso circolare. Nel caso italiano, in passato, le aree del Paese che più di altre hanno conosciuto un circolo virtuoso basato su questi elementi sono state le regioni della Terza Italia (le aree ‘rosse’ e ‘bianche’).
Indipendentemente dalle loro contrapposizioni ideologiche le due subculture politiche territoriali avevano infatti garantito in queste aree un elevato grado di integrazione sociale, particolari relazioni fiduciarie a difesa della società locale, reti di solidarietà extraparentale allargate (legate alla presenza di una cornice di valori condivisi), una diffusa partecipazione politica e sociale, relazioni industriali non conflittuali (nonostante l’elevato grado di sindacalizzazione), istituzioni locali altamente legittimate. Una cultura politica dunque orientata all’interesse collettivo, alla fiducia negli altri e nel sistema politico locale. La disarticolazione delle subculture politiche territoriali ha radicalmente trasformato queste caratteristiche, aprendo la strada a una loro profonda e progressiva corrosione. L’analisi diacronica della fiducia istituzionale nelle diverse macroregioni italiane – come mostra il quadro empirico presentato qui di seguito – fa emergere con chiarezza come, con il nuovo secolo, le subculture politiche territoriali abbiano via via perso ogni loro peculiarità.
Le figure 2, 3 e 4, insieme alla tabella 5, presentano l’andamento dal 2001 al 2008 o al 2013 della fiducia nel Parlamento, nel presidente della Repubblica, nella Polizia e nei Carabinieri, nell’Esercito, nella Magistratura, nei partiti e nei sindacati all’interno delle cinque macroregioni italiane. I campioni analizzati sono stati raccolti dall’Associazione ITANES (Italian National Election Studies) e risalgono ai sondaggi postelettorali degli anni 2001, 2006, 2008 e 2013 (quando si è scritto il presente saggio quest’ultimo data-set era ancora in una sua versione provvisoria). L’ampiezza campionaria per ogni rilevazione è pari a 3209 casi nel 2001, a 2011 casi nel 2006, a 3000 casi nel 2008 e a 1508 casi nel 2013. Si tratta dunque di dati meno solidi rispetto a quelli delle indagini Multiscopo dell’ISTAT, ma utili perché consentono di osservare l’andamento temporale della decrescita della fiducia.
Le trasformazioni della fiducia nelle istituzioni in Italia dall’inizio del nuovo millennio possono essere così sintetizzate. 1) Il 2013 ha rappresentato l’anno della debacle della fiducia nelle istituzioni democratiche. Rispetto al 2001, la fiducia nel Parlamento, nel presidente della Repubblica e nei partiti è scesa, rispettivamente, di 27, di 5 e di 11 punti percentuali. Questo declino sembra essere solo parzialmente prodotto dalle contingenze della crisi economica; l’andamento negativo risulta infatti essere monotonico sin dal 2006 e riguarda, seppure con intensità diverse, tutte le macroregioni italiane.
2) Le uniche istituzioni che sono riuscite a mantenere salda, rispetto al passato, la loro capacità di ispirare fiducia risultano essere l’Esercito, la Polizia e i Carabinieri. Queste istituzioni registrano uno scarto positivo dal 2001 di oltre il 6% e percentuali di fiducia comprese tra il 78 e l’81%. L’altra istituzione d’ordine, la Magistratura, registra invece nel 2008 una percentuale di fiducia bassa (il 48,5%), anche se simile a quella del 2001 (perde però otto punti percentuali rispetto al 2006).
3) Analizzando le differenze tra le diverse macroregioni è da notare come siano soprattutto le regioni della Terza Italia ad aver perso maggiore credito. Nel Nord-Est, in particolare, il Parlamento, la Magistratura, il presidente della Repubblica e i sindacati registrano gli scarti negativi più bassi. Se all’inizio del 2000 il Triveneto registrava, insieme alla zona ‘rossa’, le percentuali di fiducia più elevate rispetto al resto del Paese (contando scarti positivi rispetto al Sud e al Centro-Sud anche di dieci punti percentuali), nel giro di una decina di anni questa superiorità di credito si è dispersa completamente allineandosi alla media nazionale. Si potrebbe dire che, in termini di fiducia istituzionale, in queste regioni si è osservato l’esaurimento dell’eredità accumulata ai tempi della subcultura politica ‘bianca’.
4) Non molto diverso sembra essere il destino della zona ‘rossa’, nonostante che i dati ITANES descrivano queste regioni come quelle dotate di percentuali di fiducia istituzionale più elevate. Guardando i trend negativi registrati dal 2001 è evidente che anche in queste aree l’eredità del passato si stia esaurendo. Nel 2013 le percentuali di molta e abbastanza fiducia nel Parlamento non raggiungevano il 28% (nel 2001 erano al 57%), quelle nei confronti dei partiti rasentavano il 15% (nel 2001 era al 25%) e quelle verso i sindacati si aggiravano (nel 2008) intorno al 32% (nel 2001 erano al 37% e nel 2006 al 46%).
Quest’analisi della fiducia in Italia non può che concludersi evidenziando lo scetticismo che sempre più si diffonde nel Paese. Da un lato sopravvivono le antiche differenze tra un Nord più aperto a dinamiche di fiducia generalizzata e un Mezzogiorno più chiuso, dall’altro si assiste a una progressiva decrescita della fiducia anche nelle aree che tradizionalmente si erano distinte per l’alto credito goduto dalle istituzioni della democrazia. È un quadro che rende sempre più urgente una riflessione sia da parte della rappresentanza politica sia da parte di coloro che si impegnano negli studi politici e sociali.
La sfiducia non è un dato genetico che si ripresenterà necessariamente nel tempo. La scarsa fiducia non è ineluttabile. In Italia si è perpetuata perché è sopravvissuta la presenza di reti clientelari, di favoritismi, di eventi sociali e politici in cui la fiducia (negli altri e nelle istituzioni) non poteva trovare un terreno adatto per crescere. Di fronte alla consapevolezza della profonda mancanza di corresponsabilità sociale e dell’incapacità delle istituzioni di frenare il particolarismo crescente, il comportamento strategico-clientelare e le aperture di credito a corto raggio diventano un esito vissuto come necessario, una sorta di scelta di sopravvivenza. Il senso di responsabilità morale nei confronti degli altri costituisce per molti un lusso che non ci si può permettere, per altri un’illusione infantile, nutrita a suo tempo da incrostazioni ideologiche ormai svanite. Il problema è che senza questo senso di coesione sociale, e una vita quotidiana improntata all’apertura e alla corresponsabilità verso gli altri, una democrazia di qualità non ha alcuna possibilità di imporsi. Una buona democrazia presuppone una fiducia interpersonale capace di estendersi al di là della ristretta cerchia di parenti, amici e clientele e una fiducia istituzionale in grado di garantire un sostegno diffuso al sistema, anche nei momenti difficili, crisi economica inclusa.
Nel caso italiano la crescita della fiducia ha bisogno di istituzioni capaci di garantire diritti e imporre doveri, di contrastare favoritismi, di promuovere l’eguaglianza tra i cittadini. Gli italiani devono poter percepire le istituzioni democratiche come vicine e affidabili; è compito della politica far sì che esse siano in grado di suscitare un sentimento di lealtà, di collaborazione e di rispetto – se non di identificazione. Ciò significa investire su politiche capaci di superare i caratteri dell’arretratezza socioculturale del Paese. Significa rifondare la cornice delle interazioni quotidiane tra lo Stato e i cittadini, nel segno della buona amministrazione, dell’etica pubblica e della partecipazione.
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