La civilta islamica: scienze della vita. Chirurgia
Chirurgia
Nel mondo islamico medievale, l'insegnamento della pratica chirurgica avveniva principalmente attraverso l'apprendistato, secondo un modo di trasmissione del sapere comune ad altre tecniche e scienze applicate. La chirurgia possedeva anche una propria letteratura, a volte molto estesa, come nel caso della chirurgia oftalmica, e in questo si distingueva dalla maggior parte delle altre tecniche e scienze applicate, delle quali ci è pervenuto un numero limitatissimo di trattati. Tuttavia, le dissertazioni formali in sé stesse non rappresentano necessariamente un criterio affidabile per conoscere quali procedure fossero effettivamente eseguite e certamente non possono essere considerate come prove dell'efficacia di una particolare pratica. Ancora nel XVII sec. lo storico e bibliografo ottomano Muṣṭafā ibn ῾Abd Allāh (Ḥāǧǧī Ḫalīfa) affermava che: "l'utilità della chirurgia (῾ilm al-ǧirāḥa) è grandissima, ma la pratica è più incerta della teoria" (Kašf al-ẓunūn, II, p. 589).
La pratica chirurgica includeva il salasso e la cauterizzazione, quest'ultima effettuata con l'impiego di sostanze cauterizzanti o con una barra di metallo arroventata usata per interrompere le emorragie ma anche come mezzo di cura a sé stante. Entrambe le procedure, quella del salasso e quella della cauterizzazione, erano tecniche terapeutiche antichissime, comuni sia al Medio Oriente preislamico, sia all'antica Grecia. Nel mondo islamico, queste pratiche erano eseguite nella maggior parte dei casi da barbieri, cerusici o da altre figure estranee all'ambiente dei medici colti, autori di trattati. Nel Medioevo, in ogni ḥammām, o 'bagno di vapore', erano a disposizione del pubblico un barbiere e un cerusico o un flebotomo, e molte volte il barbiere svolgeva le funzioni dell'uno e dell'altro. Il ḥammām aveva, infatti, un ruolo fondamentale nella conservazione della salute e dell'igiene pubbliche nelle società islamiche e ogni città ne possedeva almeno uno. Nonostante ciò, la letteratura medica fornisce pochissime notizie su questo aspetto della terapia.
Quasi tutti gli autori di medicina del mondo classico, dai compilatori dei trattati ippocratici fino ai primi medici del mondo bizantino, dedicavano, nelle loro opere, uno spazio considerevole alla descrizione delle procedure chirurgiche. Quando a Baghdad, nel corso del IX sec., la maggior parte dei trattati greci ‒ ma non quelli latini ‒ fu tradotta in arabo, furono gettate le basi del sapere chirurgico mediorientale di tutto il Medioevo. Tra gli altri, furono tradotti in arabo i trattati ippocratici sulle ferite alla testa, sulle fratture e sulle lussazioni, come pure la maggior parte dei voluminosi manuali medici di Galeno risalenti al II sec. d.C., fra i quali la Methodus medendi, che contiene un'intera parte dedicata a quelle pratiche chirurgiche considerate altrove soltanto in maniera sporadica. In arabo fu tradotto anche un opuscolo sulla chirurgia di Antillo, un autore del II sec. d.C., e uno scritto di un medico del periodo pre-galenico di nome Platone ‒ da non confondersi con l'omonimo filosofo ‒, specializzatosi nell'uso del ferro per cauterizzare. A esercitare, però, il maggiore influsso sul mondo islamico fu senza dubbio l'opera chirurgica di Paolo di Egina, un autore vissuto ad Alessandria nella prima metà del VII sec.; il Libro VI della sua enciclopedia medica, interamente dedicato alla chirurgia, divenne un modello per i trattati successivi riguardanti questa pratica.
Ogni enciclopedia medica araba aveva una sezione dedicata alla chirurgia generale. Al-Rāzī inserì un conciso capitolo sulla chirurgia nel Kitāb al-ṭibb al-manṣūrī (Libro di medicina dedicato ad al-Manṣūr), presentato nel 903 al governatore samanide di Rayy (vicino all'attuale Teheran) al-Manṣūr ibn Isḥāq; ma la maggior parte del materiale che, legato al nome di al-Rāzī, riguarda la chirurgia si trova nel Kitāb al-ḥĀwī fī 'l ṭibb (Libro comprensivo sulla medicina), noto come Continens, una raccolta di appunti di lavoro pubblicata postuma dai suoi allievi. Si tratta di un libro unico nella storia della medicina ampiamente utilizzato dai medici dei secoli successivi, a dispetto delle sue dimensioni, che dovevano rendere proibitivo il costo delle copie, e a dispetto della presentazione del materiale, assai meno ordinata rispetto alle altre enciclopedie medievali. Il prestigio di cui godeva non lo esentò dalle critiche; infatti ῾Alī ibn al-῾Abbās al-Maǧūsī, attivo a Shiraz, nella Persia occidentale, nel X sec., scrisse il Kitāb Kāmil al-ṣinā῾a al-ṭibbiyya (La summa dell'arte medica), in parte proprio per rimediare alla mancanza di ordine e all'insufficiente attenzione per l'anatomia e la chirurgia imputabili al Kitāb al-ḥĀwī.
Nella sua opera al-Maǧūsī dedica ampio spazio alla chirurgia, attingendo al materiale presente nell'enciclopedia di Paolo di Egina, disponibile nella traduzione araba. Un'altra enciclopedia medica, completata da un capitolo conclusivo sulla chirurgia, anch'esso basato in gran parte sul testo di Paolo di Egina, è il Kitāb al-Taṣrīf li-man ῾aǧiza ῾an al-ta᾽līf (Libro della disposizione [della scienza medica] per coloro che la ignorano) di Abū ᾽l-Qāsim al-Zahrāwī (Abulcasis), attivo a Cordova nel X secolo. Il capitolo dedicato alla chirurgia, caratterizzato da uno spiccato senso dell'esperienza personale e da numerose illustrazioni di strumenti chirurgici, circolava spesso separatamente dal resto dell'opera.
I compendi arabi e persiani dell'epoca successiva dedicano alla chirurgia uno spazio variabile. Essa, per esempio, è trattata molto rapidamente sia da Aḫawaynī Buḫārī, allievo di un discepolo di al-Rāzī, vissuto nella seconda metà del X sec. e autore del primo compendio di medicina in lingua persiana, sia nel Kitāb al-Mu῾ālaǧāt al-buqrāṭiyya (Libro dei trattamenti ippocratici), un manuale arabo di medicina generale scritto da Abū 'l-ḥasan al-Ṭabarī, medico di corte del sovrano Rukn al-Dawla (320-366/932-976). Tuttavia l'unico trattato medievale arabo dedicato interamente alla chirurgia è probabilmente il Kitāb al-῾Umda fī 'l-ǧirāḥa (Libro di base in chirurgia), composto nel XIII sec. dal medico damasceno Ibn al-Quff. Esso copre tutti gli aspetti della pratica chirurgica, con l'eccezione dell'oftalmologia che, ormai dotata di una propria letteratura tecnica, era considerata da Ibn al-Quff una specializzazione a parte.
Dall'esame della letteratura specialistica del Medioevo islamico risulta evidente la preferenza per un approccio cauto e moderato alla chirurgia. In tutti gli scritti, i medici dell'Islam, come del resto i loro predecessori greci e romani, esprimono la riluttanza a eseguire le operazioni più rischiose e dolorose, dando così prova di sensibilità e di umanità. In genere, infatti, si preferiva ricorrere alla terapia farmacologica e alla cauterizzazione piuttosto che al bisturi, il cui impiego era consigliato soltanto nei casi in cui tutti gli altri rimedi avessero fallito. È del resto opportuno notare che sia nel mondo greco-romano, sia in quello islamico gli scritti sulla chirurgia appaiono dotati, per molti aspetti, di una vita letteraria autonoma, separata da quella della pratica reale. Le descrizioni di alcune procedure più elaborate, riprese da fonti antiche, non ne permettevano una reale esecuzione, forse neppure nel caso degli scrittori greci che per primi le avevano annotate. Nei testi alcuni commenti evidenziano l'assenza di tentativi di applicazione delle procedure descritte; ma anche in mancanza di osservazioni esplicite di questo genere, il fatto stesso che un autore non fornisca esempi della loro esecuzione, o eviti di modificare anche lievemente la procedura o gli strumenti descritti nella fonte originale, avvalora l'ipotesi che molte delle tecniche in questione facessero parte di una tradizione letteraria non collegata con la pratica reale della chirurgia. Una parte considerevole della letteratura chirurgica può così essere considerata una sorta di 'sperimentazione teorica', il cui scopo era individuare le procedure alle quali si sarebbe potuto ricorrere nel caso si fossero verificate certe condizioni. In questi casi, essa non riflette l'esperienza reale, né tantomeno è un resoconto di interventi andati a buon fine.
Nei capitoli dedicati alla ginecologia, per esempio, è riservato ampio spazio ai metodi per estrarre un feto morto dal grembo della madre e, sia nella letteratura greca sia in quella islamica, sono descritti gli strumenti impiegati per tagliare il feto a pezzi, in modo da poterlo rimuovere più facilmente. Ci si è chiesti se questo genere di tecnica fosse effettivamente utilizzata. Una sorta di risposta viene dal commento di un oculista vissuto in Egitto nel XIV sec., Ṣadaqa ibn Ibrāhīm Šāḏilī:
Possediamo i resoconti scritti di varie procedure che attualmente non possono più essere messe in pratica, perché non c'è nessuno che le abbia mai viste eseguire; un esempio di ciò è lo strumento progettato allo scopo di sezionare un feto morto nel grembo della madre, per salvare la vita di quest'ultima. Esistono molte altre procedure di questo genere, che troviamo descritte nei libri, ma che non abbiamo mai visto eseguire al giorno d'oggi [cioè nel XIV sec.], perché le conoscenze pratiche necessarie sono andate perdute e non rimane altro che il loro resoconto scritto. (Bethesda, National Library of Medicine, A. 29.1, f. 118v)
Sarebbe naturalmente errato concludere che tutte le procedure chirurgiche descritte nella letteratura medievale fossero prive di valore pratico. Agli autori del mondo islamico è generalmente riconosciuto il merito di avere modificato in parte gli strumenti precedenti e di aver ideato tecniche innovative, a volte per venire incontro a un nuovo tipo di esigenze; questo è particolarmente vero nel campo della chirurgia oculare in cui, nel X sec., fu sviluppata una tecnica di rimozione del panno corneale. Alcuni medici, inoltre, divennero celebri per la loro abilità di chirurghi, soprattutto nell'Andalus. ῾Umar ibn ῾Abd al-Raḥmān al-Qurṭubī al-Andalusī (m. 458/1066) divenne, per esempio, noto per la sua abilità nel "cauterizzare (kayy), tagliare (qaṭ῾: forse amputare, ma lo stesso termine è usato per indicare l'interruzione di un'emorragia), incidere (šaqq) e adoperare la lancetta (baṭṭ)" (Ibn al-Qifṭī, Ta᾽rīḫ al-ḥukamā᾽, p. 243). Per studiare matematica e medicina si era recato sia nelle regioni orientali sia in quelle occidentali dell'Islam arabo (fu a Ḥarrān e poi nella Jazira); e dopo il suo ritorno in Spagna, si stabilì a Saragozza. A un'epoca più tarda risalgono le testimonianze del chirurgo Muḥammad al-Šafra (m. 761/1360), nato a Crevillent ma attivo prima a Granada e, con l'avanzare della conquista cristiana, a Fez dove nel 1344 ha composto il suo Kitāb al-Istiqṣā᾽ wa-'l-ibrām fī ῾ilāǧ al-ǧirāḥāt wa-'l-awrām (Libro sulle indagini e le conclusioni riguardanti la cura delle ferite e dei tumori). Egli aveva studiato la chirurgia con un maestro cristiano chiamato Bernat e criticava i colleghi musulmani per la scarsa abilità dimostrata. Nel suo libro, Muḥammad al-Šafra ha raccolto alcune esperienze personali nell'incisione e nella cura dei tumori e delle ferite, nell'estrazione delle frecce e nella riduzione delle fratture.
Gli esempi di interventi descritti dalla letteratura chirurgica sono comunque numerosi. Per esempio troviamo una procedura di chirurgia addominale utilizzabile nei casi di ernia ombelicale: si doveva legare l'ernia con un filo o un laccio di seta e incidere quindi il tumore al di sopra della legatura; se al suo interno si fosse rinvenuta una porzione dell'intestino, sarebbe stato necessario allentare la legatura e ricacciare i visceri al loro posto; dopo aver nuovamente stretto la legatura, si doveva recidere il tumore, legare i vasi danneggiati e ricucire strettamente l'incisione. Le descrizioni di questa procedura fornite dagli autori arabi sono, tuttavia, semplici ripetizioni di quelle presenti nei trattati greci. Nessun medico del mondo islamico afferma di aver assistito a un intervento di questo tipo e la natura stessa della descrizione è così imprecisa da far dubitare della sua applicabilità. D'altra parte, in alcuni trattati, come in quello di al-Zahrāwī, sono illustrate tecniche chirurgiche simili a questa, impiegate nei casi di ferite all'addome con protrusione degli intestini. Qui la descrizione riguarda i diversi metodi di sutura ed è completata dal resoconto di un'operazione effettuata su di un uomo che aveva riportato una ferita da arma da taglio all'addome. Se ne può così concludere che, mentre le operazioni di ernia ombelicale non erano mai, o quasi mai, effettuate, non era infrequente il trattamento chirurgico delle ferite all'addome.
Un'altra operazione che viene descritta nei manuali e che presentava un alto potenziale di rischio per il paziente è la tracheotomia o laringotomia (un'incisione della trachea fatta allo scopo di sopperire a un'ostruzione della stessa). Già i medici del mondo greco-romano conoscevano questo tipo di intervento, ma soltanto pochissimi dichiarano di averlo eseguito o di approvarlo. Al-Rāzī riporta la descrizione fornita da Antillo, ma non vi aggiunge nulla e non mostra di averne avuto esperienza diretta. Nel Kitāb al-Taṣrīf li-man ῾aǧiza ῾an al-ta᾽līf, al-Zahrāwī, invece, riferisce una propria esperienza:
La mia esperienza è stata la seguente: venni chiamato ad assistere una giovane schiava che aveva afferrato un coltello e si era ferita alla gola, procurandosi un taglio alla trachea. La trovai che mugghiava come un vitello con la gola squarciata. Allora pulii la ferita e vidi che non sanguinava molto. Dopo essermi assicurato che la lama non avesse toccato nessun'arteria né la vena giugulare, notai che l'aria entrava e usciva dalla ferita. Mi affrettai dunque a suturarla e la curai, fino a quando non si cicatrizzò completamente. La giovane non riportò alcun danno, eccetto una raucedine non molto accentuata, e dopo pochi giorni si era perfettamente ripresa. Da ciò possiamo dire che la laringotomia o trachetomia non è affatto pericolosa. (pp. 338-339)
In questo resoconto clinico abbiamo quindi l'esempio di un medico, al-Zahrāwī, buon conoscitore della letteratura medica classica (attraverso le traduzioni arabe), che si mostra capace di applicare le tecniche apprese sui libri a un caso di emergenza, ma che afferma anche di non aver mai sentito parlare dell'esecuzione di un intervento di questo tipo. Nel XII sec., un altro medico andaluso, Abū Marwān ibn Zuhr (464-557/1072-1162), conosciuto in Europa come Avenzoar, scrisse nella sua enciclopedia medica, il Kitāb al-Taysīr fī 'l-mudāwāt wa-'l-tadbīr (Libro della semplificazione sulla terapeutica e la dietetica), di aver effettuato questo intervento sulle capre, quando era stato necessario, ma di non averlo mai visto eseguire sugli esseri umani.
Nei trattati si trova anche la descrizione di operazioni di chirurgia addominale da effettuarsi nei casi di idropisia (accumulazione di liquido sieroso nella cavità addominale, detta anche ascite). Gli autori greci consigliavano di effettuare un'incisione nella parete addominale e di inserirvi un tubo metallico, o cannula, per drenare il liquido all'esterno. Avicenna, al-Zahrāwī e con loro al-Maǧūsī ‒ che afferma di averla vista praticare soltanto una volta e su un paziente che, per altro, non sarebbe sopravvissuto ‒ sconsigliavano, tuttavia, questo genere di cura e ne denunciavano la pericolosità, forse sulla scia dello stesso Galeno che dichiarava di aver visto raramente un paziente sopravvivere all'operazione.
Anche se in genere gli interventi di chirurgia profonda o invasiva erano piuttosto rari, in tutti i manuali troviamo la descrizione di un'operazione traumatica, l'amputazione, eseguita unicamente sulle articolazioni inferiori. La ragione più comune per cui essa veniva effettuata era l'insorgere della cancrena, in molti casi in conseguenza di fratture multiple. Al-Zahrāwī, per esempio, sconsigliava di tentare l'amputazione quando la cancrena si fosse propagata al di sopra del gomito o del ginocchio e, in effetti, un intervento del genere non avrebbe potuto essere eseguito con successo con i mezzi dell'epoca. L'arto era legato al di sopra e al di sotto della zona del taglio, che in seguito all'intervento ‒ e a volte anche durante ‒ era cauterizzato e medicato con sostanze astringenti. I manuali chirurgici non accennano, invece, alla somministrazione di soporiferi o di analgesici durante l'operazione.
Per rimuovere i calcoli nel collo vescicale si praticava un'incisione nella zona del perineo. Si tratta di una tecnica molto antica, accuratamente descritta nei manuali greco-romani. I calcoli non potevano essere rimossi fino a quando si trovavano nei reni o nell'uretere, ma arrivati nell'uretra potevano essere asportati per via chirurgica. Al-Zahrāwī introdusse una nuova tecnica, che consisteva nell'inserire una sottilissima sonda lungo il condotto urinario.
Una parte considerevole della letteratura chirurgica è dedicata alla rimozione di tumori e di escrescenze da tutte le zone del corpo. Questo tipo di intervento non comportava la necessità di praticare incisioni profonde, ma una semplice escissione e cauterizzazione. Anche la rimozione delle emorroidi era una procedura molto antica messa in atto per risolvere un fastidioso problema assai diffuso, sia nel mondo classico sia nel Medio Oriente medievale. Per rimuovere ascessi ed escrescenze, al-Zahrāwī escogitò un bisturi retrattile che poteva essere utilizzato per incidere gli ascessi cutanei senza allarmare il paziente. Nella sua enciclopedia, egli descrive tre formati di uno strumento chiamato 'ingannatore' (miḫdā῾), costituito da due piastre ricurve fornite di un manico tra le quali si nascondeva una lama che poteva essere estratta o ritratta a piacimento. Al-Zahrāwī fornisce anche la descrizione e l'immagine di un piccolo scalpello per incidere i tumori che si poteva nascondere tra le dita senza che il paziente se ne accorgesse. Egli appare quindi preoccupato di placare l'ansietà di un paziente nervoso nei casi in cui si rendeva necessario l'impiego del bisturi. Un altro tipo di intervento, collegabile in qualche modo alla rimozione delle escrescenze, era l'operazione di riduzione dei seni maschili eccessivamente sviluppati o penduli, già descritta nella letteratura greco-romana. L'intervento consigliato consisteva nel praticare un'incisione semicircolare su ciascun seno, dissecare il tessuto grasso e infine suturare la ferita, medicandola con sostanze astringenti; tuttavia, non sappiamo se essa fosse effettivamente praticata.
Anche gli interventi di tonsillectomia erano già stati descritti dagli autori antichi, e la letteratura araba testimonia la prosecuzione di questa pratica, con un certo perfezionamento degli strumenti utilizzati. Mentre la lingua era tenuta ferma da un apposito depressore, la tonsilla ingrossata era afferrata con un uncino e poi, secondo al-Zahrāwī, rimossa con uno strumento simile a una forbice, dotato di lame trasversali che, a quanto sembra, avevano sia la funzione di tagliare la ghiandola, sia quella di afferrarla per estrarla dalla gola. Una volta portata a termine l'operazione, il paziente doveva fare un gargarismo a base di acqua e aceto o, nel caso di emorragia, di sostanze astringenti. Questo tipo di intervento poteva essere eseguito con i mezzi chirurgici disponibili all'epoca. Ancora agli inizi del XX sec., infatti, negli Stati Uniti e in alcune zone del Regno Unito operavano con successo 'cavatori di tonsille' itineranti, che asportavano le tonsille ai bambini in casa, senza l'uso di anestetici e con blandi disinfettanti.
I testi chirurgici descrivono pure la circoncisione dei ragazzi, anche se essa era effettuata più frequentemente dai barbieri o dai cerusici che dai medici ed era generalmente accompagnata da un rituale vario e complesso. I manuali medici non fanno invece menzione della clitoridectomia, che tuttavia, eseguita da una levatrice, era praticata anche in alcune società, in particolare in Egitto e in Sudan, dove questo tipo di intervento, benché fosse portato a termine senza molte cerimonie, era considerato un ineluttabile rito di passaggio allo stesso modo della circoncisione maschile e non era diretto in alcun modo a correggere uno sviluppo anormale dei genitali. Le descrizioni delle tecniche di rimozione di una clitoride di dimensioni anormali, presenti nella letteratura medievale, si limitano a ripetere quelle fornite dagli autori greci e non riflettono una pratica reale.
Molti aspetti della chirurgia medievale non prevedevano l'uso del bisturi. L'estrazione di un dente era, per esempio, un fatto piuttosto comune. Ci sono giunte numerose illustrazioni di tenaglie da dentista di vari formati, e di arnesi necessari per asportare le radici o i frammenti di mascella che talvolta rimanevano nella gengiva dopo l'estrazione del dente. I denti caduti per qualsiasi motivo o le protesi di osso erano uniti ai denti sani con fili d'oro o d'argento, proseguendo una pratica romana e, prima ancora, etrusca ed egizia.
Il trattamento delle ferite era al centro dell'attenzione degli autori medievali. Esistevano numerosi metodi per suturare una ferita, tutti accuratamente descritti, anche se è difficile stabilire quali fossero effettivamente praticati; la percentuale di successi doveva essere piuttosto bassa, dato che non vi erano rimedi efficaci per combattere eventuali infezioni causate dai corpi taglienti. Nella letteratura araba si trova menzionato per la prima volta, accanto all'uso tradizionale della lana, del lino o della seta, quello delle budella di animali come filo di sutura.
Un altro importante argomento era il trattamento delle fratture. Per estendere gli arti e ridurre le lussazioni e le fratture si utilizzavano alcune tavolette apposite. L'arto offeso era bendato e immobilizzato con una stecca, realizzata immergendo una fascia nella calce e nella chiara d'uovo. Molta attenzione era dedicata anche alla cura delle fratture nasali. Per le fratture del cranio ‒ e soltanto per queste ‒ si ricorreva a volte alla trapanazione, effettuata mediante uno strumento dotato di un collare di sicurezza che impediva alla punta di affondare nelle meningi.
In ogni trattato chirurgico vi era sempre un capitolo dedicato ai problemi ginecologici, nonostante gli autori fossero uomini, ai quali difficilmente nelle società islamiche sarebbe stato permesso di intervenire direttamente su una paziente. Furono introdotte alcune modifiche nella forma dello speculum vaginale (denominato anche dilatatore) e al-Zahrāwī parla nella sua opera di un forcipe, che però era utilizzato solamente per i nati morti.
Sempre al-Zahrāwī, descrivendo una litotomia (la rimozione di un calcolo dal collo vescicale) in una donna, osserva alcuni problemi relativi alla cura ginecologica:
In effetti non è sempre facile per il medico intervenire in questi casi e la sua opera incontra molti ostacoli. Per esempio, la paziente può essere una vergine. Un altro ostacolo è rappresentato dal fatto che una donna pudica o sposata non accetterà mai di farsi visitare da un dottore [maschio]. Un terzo ostacolo è la difficoltà di trovare donne competenti in quest'arte e in particolare nella chirurgia. […] Se siete costretti dalla necessità a occuparvi di una donna malata, cercate di farvi accompagnare da una donna medico. Ma poiché queste ultime sono molto rare, se non riuscite a trovarne una, allora cercate di farvi accompagnare da un eunuco medico, o portate con voi una levatrice esperta dei disturbi femminili o una donna disposta a farsi istruire in quest'arte. Tenetela sempre vicino a voi e fate in modo che esegua tutte le vostre istruzioni. (Kitāb al-Taṣrīf li-man ῾aǧiza ῾an al-ta᾽līf, pp. 420-421)
Agli autori del mondo islamico va anche il merito di un'importante innovazione nella storia della letteratura chirurgica, ossia l'introduzione delle illustrazioni. Fatta eccezione per un'opera bizantina sulle fratture del X sec., nota come 'Codice di Neceta' dal nome del suo compilatore (Firenze, Laur., Plut. 74.7), non esistono, infatti, esempi di trattati chirurgici greci corredati di illustrazioni. Nei manuali arabi esse avrebbero dovuto completare il testo e facilitare la comprensione delle caratteristiche tecniche degli strumenti; il primo testo conosciuto in cui compaiono illustrazioni di strumenti è il trattato di al-Zahrāwī. Anche se in teoria la presenza di illustrazioni avrebbe dovuto contribuire alla diffusione di una determinata tecnica, in pratica l'effetto fu quello contrario; il più delle volte, infatti, a copiare le figure erano persone che non avevano alcuna familiarità con la forma o con la funzione degli strumenti riprodotti e, di conseguenza, potevano facilmente cadere in errore e produrre illustrazioni spesso in contraddizione con il testo. La trasmissione e la comprensione delle conoscenze finirono così, paradossalmente, per essere ostacolate, più che facilitate, dall'inserimento delle illustrazioni. In tal senso, particolarmente difficoltosa fu la trasmissione della letteratura chirurgica araba all'Europa medievale.
Per altro, nelle illustrazioni delle opere islamiche di chirurgia non compare mai la figura umana: l'unica eccezione è rappresentata da un trattato turco riccamente illustrato, completato nell'870/1465-1466. Il suo autore, il medico Şerefettin Sabuncuoğlu, si limita a rielaborare e a tradurre in turco il capitolo sulla chirurgia dell'enciclopedia di al-Zahrāwī e l'illustratore, più che di rappresentare con esattezza gli strumenti o i dettagli delle procedure, si preoccupa di realizzare un'opera in grado di intrattenere piacevolmente il suo regale patrono. Il manoscritto era infatti dedicato a Mehmed II, noto agli Europei con il nome di Mehmed o Maometto il Conquistatore; le sue illustrazioni sono senza dubbio piacevoli, ma non giovano affatto alla comprensione del testo. Inoltre, con l'introduzione delle figure umane, la rappresentazione degli strumenti passa in secondo piano ed è probabile che il volume non fosse concepito per servire da guida pratica a un medico o a un chirurgo.
L'osservazione delle illustrazioni dei manoscritti non ci permette di trarre conclusioni certe sull'effettiva prassi chirurgica nell'Islam medievale. Il fatto che in certi manoscritti siano rappresentate alcune parti addominali, per esempio, non può far ritenere che il taglio cesareo si eseguisse usualmente. Nella letteratura chirurgica manca qualsiasi accenno all'attuazione di una simile procedura, che non è nominata neppure come tentativo post mortem da attuare per salvare il feto dopo il decesso della madre.
È dunque estremamente difficile stabilire con quale frequenza le complesse procedure operative descritte nella letteratura islamica medievale fossero effettivamente eseguite, così come non è facile valutare fino a che punto le istruzioni fornite corrispondessero a una pratica reale o fossero al contrario semplici ripetizioni di anteriori resoconti scritti o addirittura dei puri 'esperimenti mentali', nei quali l'autore si sforzava di immaginare cosa si sarebbe potuto tentare se si fosse verificata una determinata situazione. A tale riguardo si può tuttavia osservare che, nelle raccolte di casi clinici finora esaminate, le procedure chirurgiche, fatta eccezione per i salassi e le cauterizzazioni, sono assenti. Nei casi clinici riportati da al-Rāzī e raccolti nel Kitāb al-ḥĀwī, per esempio, non si fa menzione di interventi chirurgici, eccettuati il salasso, la flebotomia e la cauterizzazione; neppure ve ne è traccia nei quasi novecento esempi terapeutici ricordati dai suoi allievi nel Kitāb al-Taǧārib (Libro delle esperienze) o nella miscellanea di procedure terapeutiche, accompagnate da sporadici resoconti di casi clinici, compilata dagli allievi di Abū 'l-῾Alā᾽ Zuhr dopo la sua morte a Siviglia nel 525/1130 e nota con un titolo simile al precedente, Kitāb al-Muǧarrabāt (Libro delle [procedure] esperite). Questa assenza della chirurgia dalla letteratura clinica conosciuta avvalora la teoria secondo cui lo scopo della letteratura chirurgica non era unicamente quello di fornire una guida pratica alla terapia.
Quanto alle probabilità di successo nel caso di interventi complessi, la mancanza di antisettici e di anestesia rappresentava, in effetti, un limite molto serio. Non sappiamo tuttavia fino a che punto l'insorgere della sepsi costituisse un fattore determinante del successo, o del fallimento, di un'operazione. La grande maggioranza degli interventi riguarda lesioni prodotte da incidenti o da ferite di guerra, e in questi casi è probabile che l'infezione fosse già presente, indipendentemente dall'azione del chirurgo. è vero che solo occasionalmente veniva suggerito di lavare il paziente prima dell'intervento, ma generalmente dopo l'operazione la zona interessata era pulita o cosparsa di acqua e aceto, acqua salata, vino, vino mescolato a olio di rose o ancora olio di rose puro, tutte sostanze con proprietà antisettiche. Anche alcuni tipi di erbe aromatiche e di resine, come olibano, mirra, cassia e alcune piante appartenenti alla famiglia delle Lauracee, usati come medicamenti, svolgevano una certa azione antisettica, come pure le piccole quantità di sali di piombo e di rame, di allume, mercurio e borace che erano mescolate con vari tipi di resina, olio e aceto per comporre molti degli impiastri e degli unguenti utilizzati in questi casi. Ovviamente, a tanta distanza di tempo è impossibile valutare l'efficacia di tali rimedi nel combattere le diverse fonti di infezione. Sappiamo, inoltre, che erano noti i poteri soporiferi (muraqqid) e analgesici (muḫaddir) di alcune droghe (giusquiamo, cicuta, morella nera soporifera, ma soprattutto oppio); alcuni studiosi hanno avanzato l'ipotesi che tali sostanze potessero essere impiegate per causare la totale perdita di conoscenza dei pazienti che dovevano subire un'operazione. Tuttavia, prima dei trattati composti nel XVI sec. durante la dinastia dei Safavidi (che dominò nelle regioni persiane tra il XVI e il XVIII sec.), non vi sono espliciti riferimenti all'uso di analgesici nella letteratura medica islamica. Inoltre, l'uso di droghe grezze come oppio, cicuta e morella presenta un margine di sicurezza molto basso. Prima dello sviluppo del-le tecniche di anestesia generale e di antisepsi, la chirurgia invasiva e il trattamento delle malattie interne erano molto limitati.
Non vi sono elementi per ritenere che nel mondo islamico medievale la chirurgia fosse considerata una branca poco nobile della medicina, come certamente avveniva nell'Europa medievale; quasi tutti i medici più importanti ritennero opportuno dare prova della propria competenza dedicando una parte delle loro opere a questo argomento. Tuttavia, la terapia chirurgica era utilizzata quasi esclusivamente per la rimozione delle escrescenze o di altri disturbi superficiali e per curare le malattie dell'apparato urinario, le fratture, le lussazioni e le lesioni traumatiche. Pur con questi limiti, la letteratura chirurgica medievale presenta un certo numero di procedure innovative e un impressionante bagaglio di esperienze di tecnica chirurgica, benché probabilmente le più complesse tra le procedure descritte non siano mai state messe in pratica. L'abilità tecnica e la capacità innovativa caratterizzano in particolare la letteratura oftalmica, come ci si può attendere in un'area del mondo afflitta da un'estrema diffusione dei disturbi oculari.
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