La civilta islamica: condizioni materiali e intellettuali. La storiografia
La storiografia
Le circostanze che accompagnarono la nascita della storiografia musulmana ‒ che per il numero di opere prodotte, per l'estensione del campo d'indagine e per la diversità dei generi trattati si presenta come una delle più ricche dell'epoca premoderna ‒ rimangono ancora un enigma. Bisogna considerare tale storiografia una creazione originale araba, e ritenere quindi meramente occasionali le influenze giudaico-cristiane o persiane, come è stato prevalentemente sostenuto, oppure si deve ipotizzare un legame più sostanziale con le tradizioni storiografiche che l'hanno preceduta nel Medio Oriente antico? Come interpretare la rapida fioritura di generi che si richiamano apertamente alle principali forme di scrittura diffuse nella Tarda Antichità ‒ quali il bíos, la storia politica, la cronaca, le antichità, la storia locale ‒ ma che al tempo stesso nella letteratura araba si sono sviluppati fino ad assumere un tono e una piega così originali da risultare quasi irriconoscibili? Quale significato bisogna attribuire, infine, all'adozione di un metodo ‒ l'isnād o 'catena dei garanti' ‒ che in teoria aveva lo scopo di assicurare l'autenticità del racconto storico, ma che vi introduce invece rotture così profonde da causare la perdita di ciò che dovrebbe costituirne la caratteristica essenziale, fino a trasformarlo in un esercizio meramente estetico?
Senza alcun dubbio, se ci si pone nella prospettiva generale di una storia culturale del Medio Oriente, la storiografia islamica presenta diversi tratti originali. Tuttavia, alcuni radicati pregiudizi concernenti il contesto storico e culturale dell'Arabia non hanno permesso finora una corretta valutazione di questa originalità, impedendo così di distinguere gli elementi di continuità e di innovazione della produzione storiografica. Si pensi, in particolare, alla vecchia tesi di Henri Pirenne secondo cui l'apparizione dell'Islam avrebbe prodotto una rottura radicale nel corso della storia del mondo antico, una tesi che, pur ampiamente contestata, fa avvertire tuttora i suoi effetti (Pirenne 1970).
Sebbene dunque lo stato attuale della ricerca non permetta di tracciare un quadro pienamente soddisfacente delle condizioni che accompagnarono la nascita della storiografia musulmana, è possibile formulare nuove ipotesi, almeno limitatamente al periodo primitivo e a quello classico. In tal senso, oltre a considerare una serie di testimonianze archeologiche, è però necessario, da una parte, rileggere i testi arabi fondamentali ‒ nonché altri testi meno conosciuti ‒ e, dall'altra, esaminare in modo comparativo le tradizioni storiografiche preislamiche del Medio Oriente. Per comprendere la cultura e la civiltà dell'Islam è certamente necessario rinunciare, come del resto invitano a fare i risultati delle più recenti ricerche, all'ipotesi di un retroterra culturale puramente arabo: è noto già da tempo, infatti, che l'Arabia preislamica faceva parte, seppure in modo marginale o periferico, del più vasto mondo mediorientale. Anche a voler ignorare i legami commerciali, politici e militari che gli Arabi istituirono in epoca preislamica con la Persia e con Bisanzio, le numerose ricerche effettuate negli ultimi vent'anni costringono a rivalutare la presenza delle correnti religiose ebraiche, cristiane e zoroastriane nella penisola arabica e, soprattutto, a considerare l'importanza del processo di ellenizzazione, che più di ogni altro potrebbe aver contribuito, sia pure per contrapposizione, a preparare il terreno all'avvento dell'Islam, grazie soprattutto all'unificazione del pantheon arabo e alla formazione di una koinḗ panaraba in reazione alla diffusione del greco. A ciò si aggiunga il fatto che la rottura instaurata dall'Islam con il passato politeista delle popolazioni arabe, qualificato come epoca dell'ignoranza (ǧāhiliyya), è stata così netta che quest'ultimo sarebbe oggi quasi del tutto inaccessibile senza l'apporto dell'archeologia e delle fonti non arabe.
Per la storiografia, quindi, come per gli altri campi della cultura islamica primitiva, appare quasi del tutto impossibile, in assenza di documenti originali, ricostruire nella sua concretezza una qualunque forma di continuità con il passato arabo. La letteratura genealogica, la poesia, la letteratura degli ayyām al-῾arab (i giorni, e dunque l'epoca degli Arabi), che vengono generalmente citate a questo proposito, sono il risultato di ricostruzioni più tarde e devono essere accolte con estrema cautela. Bisogna quindi accontentarsi di un'ipotesi di continuità, più che plausibile ma materialmente indimostrabile, e insistere sul fatto che invece di escludere la presenza di elementi stranieri ‒ ebraici, cristiani, ellenistici, persiani ‒ occorre al contrario considerare questi ultimi come fattori fondamentali del passaggio dall'epoca preislamica all'epoca islamica.
Per quanto si risalga indietro nel tempo, è sempre possibile riconoscere nella cultura islamica un marcato interesse per la storia, caratterizzato tuttavia da un atteggiamento ambivalente, in cui si trovano mescolate familiarità e diffidenza, se non addirittura ostilità. L'archeologia ci ha restituito numerose tracce che rivelano la familiarità degli Arabi con l'idea di storia: gli affreschi del castello di Quṣayr ῾Amra, in Transgiordania, di pochi decenni successivi alla fondazione dell'Impero omayyade, raffigurano il trionfo dei sovrani arabi sugli altri re della Terra e costituiscono una preziosa testimonianza dell'interesse dei principi arabi musulmani per la storia. Del resto, a costituire il tema centrale degli Aḫbār ῾Ubayd ibn Šariya (Cronache di ῾Ubayd ibn Šariya), un'opera composta probabilmente nella stessa epoca omayyade e finora ingiustamente sottovalutata, è proprio l'appropriazione o piuttosto la 'riappropriazione' della storia da parte del nuovo Impero arabo; ma i luoghi in cui quest'interesse per la storia si manifesta nel modo più significativo sono, per altro, lo stesso Corano e la Sunna (la raccolta di ḥadīṯ o Tradizioni). La precisione con la quale vengono specificate le circostanze di tempo e di luogo della Rivelazione o delle tradizioni profetiche, l'insistenza sugli agenti di trasmissione e sulle condizioni della stesura e della selezione dei testi canonici e l'importanza capitale attribuita alla testimonianza sono elementi che indicano chiaramente la presenza di un mondo interessato alla storia e al metodo storico, impregnato di quello che si potrebbe definire uno 'spirito storico'. Ancora più significativa appare la presenza, nel Corano, e in via subordinata nella Sunna, non soltanto di una conoscenza della storia biblica e islamica ma anche di una riflessione su questa stessa storia, ossia di un pensiero storico elaborato, in cui l'uomo è presentato come un essere essenzialmente storico e da cui traspare un'originale filosofia della storia. Allo stesso tempo, e con altrettanto vigore, si manifestano però, come si è detto, i segni di reticenza, di diffidenza e perfino di ostilità verso la storia. La stessa spettacolare riappropriazione della storia, solennemente messa in scena negli Aḫbār ῾Ubayd, può essere interpretata anche come una reazione difensiva, una giustificazione della storia di fronte agli attacchi dei suoi detrattori. D'altronde, la concezione della storia, nell'Islam, sembra oscillare tra l'idea di una storia umana e quella di una storia assoluta, divina. Gli Aḫbār ῾Ubayd accolgono, non senza ambiguità, la contraddizione o l'opposizione radicale tra il tempo dell'Islam e le epoche precedenti, tra i racconti coranici e quelli della storia profana, riecheggiando la controversia che nel Libro sacro oppone le qaṣaṣ (storie, narrazioni) coraniche alle asāṭīr al-awwalīn (le storie degli Antichi): un atteggiamento in cui è possibile scorgere un segno evidente di ostilità verso il tipo di storia ‒ di origine persiana o greca ‒ che l'Islam aveva ereditato dalle civiltà che lo avevano preceduto.
Questa ambiguità sembra sfociare nella mancanza di un termine specifico per indicare la narrazione storica, mancanza che si avverte fino al X secolo. Per designare la storia, infatti, nei primi quattro secoli dell'Islam prevale l'uso delle perifrasi: aḥādīṯ man maḍā (racconti di coloro che passarono o furono un tempo), aḥādīṯ al-῾arab wa-ansābu-hā (racconti degli Arabi e loro genealogie), come nel caso degli Aḫbār ῾Ubayd. Nei titoli delle opere posteriori figurano, quasi alla rinfusa, i termini aḫbār (notizie), tā᾽rīḫ o tawārīḫ (storia, storie), siyar (biografie, vite), aḥdāṯ (racconti, storie), ṭabaqāt (categorie, quindi genealogie), insieme a molti altri, mentre il termine coranico qaṣaṣ, di cui si erano impadroniti i predicatori popolari (chiamati wu῾ ῾āẓ o quṣṣāṣ), fu abbandonato dagli storici professionisti e confinato al genere particolare delle qaṣaṣ al-anbiyā᾽ (storie dei profeti), destinate ad assumere ben presto un carattere leggendario. Neppure nel Fihrist (Catalogo) di Ibn al-Nadīm, che contiene un ampio repertorio delle opere di tutti i generi diffuse nel mondo islamico fino alla metà del X sec., si trova un termine specifico per indicare le opere storiche, i cui autori sono classificati in tre categorie prive di contorni precisi e spesso interscambiabili: nassābūn (genealogisti), aṣḥāb al-siyar wa-'l-aḥdāṯ (autori di racconti biografici ed evenemenziali), aḫbāriyyūn (informatori, autori di storie o di racconti).
Pur nell'ambiguità della quale si è finora discusso, l'interesse per la storia manifestato dall'Islam sin dalle sue origini è un segno evidente della sua continuità con le culture dominanti dell'epoca, la bizantina e la persiana, nelle quali la storia svolgeva da secoli, se non da millenni, un ruolo fondamentale. L'ambivalenza che caratterizza questo atteggiamento rivela, tuttavia, l'esistenza di un legame privilegiato della storiografia musulmana con la tradizione giudaico-cristiana, con la quale essa condivide non soltanto la maggior parte dei generi ma anche la problematica fondamentale; e ciò anche se l'Islam, in ragione dell'autonomia da esso rivendi-cata in teologia, si discosta su alcuni punti significativi sia dal giudaismo sia dal cristianesimo. In tale contesto, i legami della storiografia musulmana con il retroterra arabo e con la cultura persiana appaiono estremamente tenui e si situano comunque soltanto sul piano del materiale storico, non su quello della concezione d'insieme o dei fondamenti ideologici.
D'altronde, la cultura con la quale dovettero confrontarsi i primi musulmani in Siria, Palestina ed Egitto, ovvero nelle ex province dell'Impero bizantino, era ormai profondamente influenzata dalla religione. La storia classicheggiante era del tutto scomparsa ed era stata sostituita da una storia di ispirazione religiosa, in un orizzonte alquanto ristretto: la vita culturale era dominata da una letteratura costituita quasi esclusivamente da trattati teologici, dispute, omelie, sermoni, questioni e risposte, ma anche da vite di santi, raccolte di storie di miracoli e racconti apocalittici. La cultura che fornì ai primi musulmani ‒ che pure per molti aspetti la osteggiavano ‒ il modello da seguire fu quindi questa cultura religiosa e solamente più tardi e progressivamente l'Islam acconsentì ad aprirsi alle altre componenti dell'eredità greca. Sotto lo strato religioso, l'Islam primitivo trovò, tuttavia, nel pensiero storico e nella scrittura della storia, una serie di elementi di base appartenenti a un fondo ellenistico che si era preservato, con lievi modifiche, nella storiografia cristiana bizantina, e la cui eco, per quanto indebolita, aveva raggiunto anche l'Arabia preislamica. In tal senso si trovarono da una parte il concetto di storia come strumento di preservazione della tradizione, attraverso la narrazione delle azioni eroiche e degli eventi memorabili e, dall'altra, il sentimento della distinzione tra fatti reali e invenzioni, tra fatti o resoconti autentici e distorsioni della realtà o menzogne e, in una parola, l'esigenza della veridicità della narrazione storica come la necessità del quadro cronologico.
Al di là di questi aspetti tecnici, nella prima storiografia islamica si possono comunque riconoscere tanto una certa continuità, quanto un certo distacco rispetto ai suoi antecedenti cristiani, soprattutto per due questioni capitali. In primo luogo, nel suo atteggiamento verso l'eredità classica e, più in generale, verso le culture estranee al monoteismo biblico, l'Islam adottò almeno su tre punti le stesse soluzioni già elaborate dal cristianesimo: l'ostilità al paganesimo; la rivendicazione esclusiva dell'universalità; l'indottrinamento di massa basato sui principî e sulle pratiche di una religione concepita come un insieme di credenze sull'uomo e sul mondo. Più in generale, l'Islam costituisce e si pone come il momento culminante della rottura dello schema culturale dell'epoca classica. Se al momento della comparsa dell'Islam l'Impero bizantino era alla conclusione di un processo che aveva portato, tra la fine del VI e l'inizio del VII sec., alla quasi totale scomparsa di ciò che rimaneva dell'educazione classica, sostituendola con un'educazione di tipo religioso, con l'avvento dell'Islam si assiste a un'ulteriore radicalizzazione di tale processo, che non fu soltanto il frutto di una sorta di eccesso di zelo ma, soprattutto, il risultato della frattura prodotta dall'introduzione della lingua araba come lingua del nuovo Impero e della nuova cultura.
L'altra questione fondamentale è poi quella della concezione del mondo e della teologia della storia. In primo luogo, va osservato che l'Islam conserva solo il nucleo propriamente biblico e, secondariamente, apocalittico della concezione cristiana del tempo, ignorando gli sviluppi apporta-ti dai pensatori e dagli storici della Chiesa e, in particolare, l'idea centrale di un tempo progressivo in cui si realizzano, da una parte, la preparazione della venuta di Cristo ‒ per l'Islam un semplice profeta ‒ e della Chiesa e, dall'altra, il cammino verso la salvezza. In tal senso, la concezione del tempo che l'Islam eredita dall'elaborazione cristiana che lo ha preceduto è riconducibile a tre elementi: l'idea di un tempo creato, cioè dotato di un inizio e di una fine e che, pur non abbandonando completamente la concezione classica di un naturale tempo cosmico caratterizzato da un corso ciclico, si situa su un piano profondamente diverso da questa; l'idea di una continuità del tempo a partire dalla Creazione del mondo; e, infine, l'idea, tipicamente apocalittica, della divisione del tempo in due 'eoni', il tempo attuale e il tempo della salvezza.
Nello stesso ordine di idee, l'Islam non accetta l'interpretazione cristiana delle idee bibliche di unità e di significato della storia, che accentua il carattere organico della storia stessa. La nuova visione della storia introdotta dal Corano si esprime prima di tutto nell'idea di una storia assoluta, scritta sin dall'eternità nel Libro divino, una storia che non riguarda solo gli uomini, le loro azioni e i loro pensieri più intimi, ma tutto ciò che esiste nel mondo. La storia dei popoli, come quella dei profeti, si concentra come nel racconto biblico sui rapporti uomo-Dio, peccato-punizione, giudizio divino-penitenza-perdono divino, ma assume un diverso significato rispetto alle precedenti storie religiose. Per un verso, radicalizzando il punto di vista cristiano, il Corano non riconosce al popolo di Israele nessun privilegio particolare e sussume l'esperienza umana nella sua totalità: esplicitamente, nel caso delle antiche popolazioni arabe e, implicitamente, in quello di innumerevoli altri popoli. Per altro verso, tutte le azioni umane sono considerate in rapporto al patto primordiale che Dio ha stretto con gli uomini, che li impegna a obbedire alla sua Legge e a rendergli un culto. Così, l'avvento di Muḥammad rappresenta l'ultimo anello di una catena di profeti che trae origine dal patto che Dio ha concluso a partire da Adamo con questi ultimi, ingiungendo loro di seguire Muḥammad, di sostenerlo e di annunciarne la venuta ai propri adepti. Perfino la storia individuale assume in questa visione un'unità definitiva: scritta su un registro, sarà presentata da ciascuno a Dio nel giorno del Giudizio. La storia può essere letta quindi come conferma della fedeltà al patto o rottura di questo, come richiamo, invito alla memoria (ḏikr). Essa è priva tuttavia di uno sviluppo progressivo e organico. Anche se è possibile leggerla come una serie di esperienze delle nazioni o degli uomini presi individualmente, lo spirito umano non è in grado di afferrarne il significato globale, che rimane appannaggio esclusivo di Dio, parte del suo mistero insondabile (ġayb).
In effetti, in senso rigoroso l'unità e il significato della storia si esauriscono, secondo il Corano, nel processo attraverso cui Dio comunica agli uomini la sua Legge. Al centro della dottrina coranica vi è l'idea fondamentale che l'Islam è la religione del Vero (dīn al-ḥaqq). Il Corano si presenta come una rettifica degli errori e delle alterazioni introdotti nella Rivelazione dal tardo-giudaismo e dal cristianesimo, come una riparazione dell'oblio, e dichiara di portare agli uomini la Verità completa e definitiva, espressa direttamente da Dio con le sue parole. Alla dottrina cristiana del Dio fatto uomo, che costituisce dal punto di vista coranico una grave minaccia alla purezza del monoteismo biblico, il Corano sostituisce quella del Vero, presente nella parola, al tempo stesso materiale e immateriale, di Dio. In tal senso il Corano non respinge la dottrina della salvezza ma la riprende in una formulazione più tarda rispetto a quella del cristianesimo primitivo; a differenza di questo, tuttavia, pur affermando che Dio ha voluto concedere agli uomini una concreta e immediata occasione di salvezza, la dottrina coranica non fornisce alcuna certezza riguardo alla sua realizzazione; il Corano non divide quindi il tempo in un'epoca del peccato e in una della salvezza: tutta la storia umana, sia prima sia dopo l'avvento di Muḥammad, è considerata la storia del Vero e della comunicazione del Vero agli uomini, nel processo senza fine della lotta tra fedeli e infedeli. Viene esclusa così ogni idea di progresso o di sviluppo storico. L'unica novità è l'annuncio della conclusione di questo processo di comunicazione del Vero: con Muḥammad, 'sigillo dei profeti', il Vero si è mostrato nella sua forma completa, definitiva e inalterabile.
La storia è costituita dunque da momenti discontinui e la sua sola lettura possibile è quella che ne ha fatto Dio stesso nel Corano e che gli storici musulmani non possono che limitarsi a riprendere fedelmente. Per questo motivo, sebbene le singole riflessioni degli autori contengano considerazioni in tal senso interessanti, non si può avallare l'idea di una filosofia o di una teologia della storia islamiche che siano tali in senso proprio, con la conseguente esclusione di ogni forma di ermeneutica a differenza di quanto accade invece nel cristianesimo.
Tuttavia, a dispetto della divinizzazione della storia che pervade l'intera produzione storiografica dell'Islam, il concetto della storicità dell'uomo ‒ centrale nel cristianesimo primitivo ‒ viene affermato con forza anche nel Corano: nel testo sacro dell'Islam l'uomo è descritto come un essere dotato di libero arbitrio e responsabile delle proprie azioni. La libertà umana non è però il prodotto della grazia divina accordata al credente ma, in quanto libero arbitrio, è iscritta sin dall'eternità nella natura stessa dell'uomo. Questa libertà assume inoltre un carattere paradossale. L'uomo è libero di accettare o di respingere il Vero ma, poiché il Vero è assoluto, il suo rifiuto comporta l'accecamento dell'infedele. D'altronde, questo rifiuto è una diserzione: il patto primordiale stretto con Dio impegna sostanzialmente gli uomini a riconoscere il Vero. La scelta non è tra diverse vie ugualmente percorribili ma tra la giusta direzione e lo smarrimento, tra l'unica retta via e una serie di strade senza uscita. Il fedele è in primo luogo colui che non solo è capace di distinguere le due vie, quella del rifiuto e quella dell'accettazione del Vero, ma sa anche di avere l'obbligo sostanziale, a causa del patto primordiale che ha stretto con Dio, di riconoscere il Vero. Egli è, prima di tutto, il 'sottomesso' (muslim). E, più che un atto di libertà, questa 'sottomissione' (islām) è un atto di coscienza, è l'assunzione di una responsabilità e di un obbligo, poiché rappresenta soltanto l'inizio di un percorso che non ha fine, almeno fino a quando il fedele resterà su questa Terra. Dato che il Vero è in sé inconoscibile e inafferrabile e solo la morte libera l'uomo dai suoi desideri (šahwa), il fedele è messo costantemente alla prova e non può mai essere totalmente certo della propria salvezza. Solo le sue opere, solo la sua storia testimonieranno per lui. Così, se da una parte l'idea di libertà umana di cui si fa portatore il Corano non ha né la stessa origine né lo stesso significato che si trova in Paolo o nel Vangelo di Giovanni, dall'altra, partendo da premesse diverse, il Corano si pone, riguardo al tema della salvezza, in una prospettiva non dissimile da quella che si riconosce proprio nel Vangelo di Giovanni o nelle opere di Paolo, in cui l'uomo è concepito come un essere essenzialmente storico.
Una delle questioni cruciali della concezione ebraica e cristiana della storia è quella del rapporto tra storia e legge. Il cristianesimo, come il giudaismo, identifica senza esitazioni la storia e la religione ma, rispetto al giudaismo, modifica la concezione della legge e dei rapporti che il fedele deve intrattenere con essa, dislocandoli nella sfera interiore. Inoltre, a differenza del giudaismo, che tra il II e il XVI sec. abbandona la pratica della storia, il cristianesimo sviluppa una propria storiografia, che è possibile suddividere in tre generi principali: la cronaca universale, la storia ecclesiastica, gli scritti apocalittici. La cronaca universale cristiana non è, propriamente parlando, una storia religiosa alla maniera biblica, piuttosto un'interpretazione religiosa della storia. Essa è un discorso sulla storia e non, come nel giudaismo, una storia che si costituisce in quanto legge di un popolo che si racconta nei suoi rapporti con il proprio Dio. La storia ecclesiastica, da parte sua, non può essere considerata come una storia religiosa se non nel senso che il suo scopo è quello di giustificare l'esistenza di un'istituzione religiosa, la Chiesa, e di garantire la verità della tradizione, il cui elemento più importante è costituito dalla dottrina. Essa fonda la legittimità della Chiesa nella sua storia, elaborando e ribadendo il suo legame con un'origine sacra. La storiografia cristiana inventa in questo modo un nuovo approccio storico, diverso sia da quello greco sia da quello biblico: la storia è allo stesso tempo oggettivata e strumentalizzata al servizio di una dottrina, di una verità dogmatica.
Nell'ereditare la questione biblica del rapporto esistente tra storia e religione, l'Islam segue sostanzialmente la direzione indicata dal cristianesimo, con alcune sfumature particolari. Il Corano è senza dubbio un testo in cui l'identificazione tra storia e religione e tra legge e storia è quasi totale: la storia vi è descritta chiaramente come una manifestazione divina, poiché è Dio stesso a raccontarla a Muḥammad e agli altri uomini, è Dio a rettificare le deformazioni, gli errori, le dimenticanze che circondano da sempre la legge e il modo in cui essa è stata comunicata agli uomini. Allo stesso tempo, dal momento che il Corano ha portato agli uomini 'il Vero' nella sua forma definitiva e completa, in esso la legge e la sua storia giungono a compimento. In tal senso ‒ e si ha qui una sorta di paradosso ‒ la storia, almeno nel senso strettamente biblico, non può più esistere, anche se nel mondo islamico si sarebbe sviluppata ben presto una rigogliosa storiografia.
Nel tentativo di offrire una soluzione per questo paradosso è necessario tenere presente che lo sviluppo della storiografia islamica fu accompagnato da un disagio profondo e duraturo, che traspare nella controversia coranica relativa alle asāṭīr al-awwalīn, ma anche nell'incertezza che circonda il ruolo e il nome stesso della storia durante i primi quattro secoli dell'egira. La ricerca di una soluzione all'aporia della fine della storia richiese un tempo molto lungo. Se la storia, identificata con la legge, si era compiuta nella Rivelazione coranica, rimaneva ancora la possibilità di una storia di altro tipo, a condizione però di evitare qualsiasi confusione con il discorso divino o profetico; rimaneva cioè la possibilità di una storia che fosse scritta partendo da un punto di vista esclusivamente umano. Questa condizione poté realizzarsi pienamente solo quando, all'interno di un processo complesso e ancora poco conosciuto, la parola divina e la tradizione profetica furono definitivamente riconosciute come dominio esclusivo della legge. A differenza delle Scritture ebraiche e cristiane, che sono simultaneamente legge, insegnamento e storia, in cui si mescolano la voce di Dio, quella dei profeti o degli apostoli e quella del narratore o dello storico, i testi musulmani operano una duplice distinzione: da una parte, tra la legge, la storia sacra raccontata da Dio, e la storia fatta dagli uomini, e, dall'altra, tra la voce di Dio, quella del Profeta e quella degli altri uomini. Il Corano è identificato con la parola di Dio, che narra la storia di Muḥammad e dell'avvento dell'Islam senza alcun intervento umano. La tradizione della Sunna (ḥadīṯ) è organizzata invece secondo un metodo che separa rigorosamente le parole di Muḥammad da quelle dei suoi divulgatori.
Non è possibile datare con precisione la comparsa delle prime opere storiografiche islamiche. Per tutto il periodo che va dagli inizi dell'Islam alla metà dell'VIII sec., quello che di esse si conosce è dovuto quasi unicamente ai riferimenti e alle citazioni contenuti nelle opere composte a partire dalla seconda metà del X secolo. Il panorama più completo della produzione storiografica dei periodi primitivo e classico ci è fornito dal già menzionato Fihrist di Ibn al-Nadīm, che la suddivide in diverse categorie, riconducibili in definitiva a due ambiti principali: quello che privilegia la componente culturale, sociale e morale, e che costituisce una sorta di 'antichità araba', e quello incentrato sugli aspetti politici, militari e amministrativi, più vicino alla concezione classica della storia. Ibn al-Nadīm esclude dal suo elenco un intero settore della letteratura storiografica islamica, a cui autori più tardi come al-Ṣafadī (m. 1363) o al-Saḫāwī (1427-1479) attribuirono al contrario un'importanza fondamentale: la storia della trasmissione della tradizione colta, giudicata senza dubbio da Ibn al-Nadīm più vicina al genere dei ḥadīṯ. Nell'insieme, tuttavia, nella classificazione di Ibn al-Nadīm è possibile rintracciare tutto il materiale che costituiva il campo propriamente storiografico della tradizione bizantina della Tarda Antichità. Anche il genere apocalittico, fiorito nell'Impero bizantino verso l'VIII sec., trova un equivalente musulmano in quello dei fiṭan, quasi sempre incorporati nella letteratura dei ḥadīṯ.
Oltre a occuparsi grosso modo del medesimo campo di studi, la storiografia islamica riprese anche gli stessi generi utilizzati da quella bizantina, sebbene in forme semplificate o alterate e sottoponendoli a travestimenti e combinazioni a volte sconcertanti. Alla base di queste differenze vi erano in primo luogo ragioni di carattere teologico, anche se non va sottovalutata la tendenza, tipica degli Arabi, a disconoscere gli apporti delle civiltà non arabe e la mancanza di raffinatezza, se non la rudezza, propria di una cultura che muoveva ancora i suoi primi passi.
Nel corso di una prima fase, che si può far durare fino alla metà del IX sec. e si può definire un 'periodo di fondazione', i primi storici musulmani sembrano perseguire quattro obiettivi: in primo luogo, con i resoconti delle campagne militari del Profeta (al-maġāzī) e con le sue biografie (sīra) ‒ ambedue incentrati sulla vita di Muḥammad e sulle circostanze dell'affermazione della nuova religione ‒ i primi storici musulmani intendono ribadire la specificità del-l'Islam in rapporto al cristianesimo e al giudaismo; in secondo luogo, con la letteratura dei futūḥ (resoconti delle conquiste dei territori dell'Impero persiano e di gran parte di quello bizantino) e degli aḥdāṯ (avvenimenti particolarmente rilevanti, come l'istituzione del califfato, la prima e la seconda guerra civile, ecc.), essi mirano a rendere perpetua la memoria degli eventi politici e militari che avevano segnato la formazione del nuovo Impero; in terzo luogo, con una serie di scritti dedicati alle genealogie degli Arabi, ai loro antichi eroi e sovrani, alla loro poesia, ai loro costumi, gli storici arabi arrivano a costituire un'identità araba; infine, con la letteratura delle ṭabaqāt (raccolte, raggruppate per generazioni, delle biografie dei compagni e degli specialisti nelle diverse discipline religiose), essi si fanno carico dell'intera tradizione religiosa musulmana, ancora in corso di formazione.
È questa quella che si può definire l'età eroica dell'Islam, avvolta al tempo stesso dalle brume del tempo e da un'aura di leggenda. Paradossalmente, come si può constatare non solo nella Sīra (Biografia del Profeta) di Ibn Isḥāq (m. 767), ma anche nella Waq῾at Ṣiffīn (L'evento di Ṣiffīn) di Naṣr ibn Muzāḥim al-Minqarī (m. 828), nel Kitāb Futūḥ al-Šām (Libro della conquista di Damasco) di al-Azdī (m. 945) o nel Kitāb Futūḥ Miṣr (Libro della conquista dell'Egitto) di Ibn ῾Abd al-Ḥakam (m. 787 o 788), tutta la produzione storiografica di questo periodo è dominata da una preoccupazione fondamentale, quella del Vero: se una storia su scala umana era possibile soltanto in un discorso nettamente distinto dal discorso divino e profetico, essa doveva comunque anche conformarsi all'imperativo coranico della Verità.
La Sīra di Ibn Isḥāq, che può essere considerata il capolavoro della storiografia islamica delle origini, illustra a un tempo lo spirito e i metodi di questa storiografia. Inserendosi in una fase di ridefinizione e di vigorosa affermazione dell'immagine dell'Islam e del suo Profeta di fronte al pericolo della reazione cristiana nelle antiche province dell'Impero bizantino, quest'opera obbedisce allo stesso tempo ai principî teologici dell'Islam, che si erano venuti precisando nel corso di questo stesso periodo. Essa non solo assume come tema e prospettiva fondamentale il Vero, così come era stato rivelato da Dio nel Corano e comunicato agli uomini da Muḥammad, ma la questione della verità emerge nella sua centralità anche nella stessa scrittura. Dal punto di vista formale, essa adotta le principali strutture del bíos antico e della cronaca universale cristiana, senza tuttavia conformarsi interamente né all'uno né all'altra. Questa ripresa delle forme cristiane, rielaborate in modo originale, fa in qualche modo di quest'opera l'equivalente sul piano letterario della trasformazione della cattedrale di San Giovanni di Damasco nella Grande moschea o della costruzione del Tempio della Roccia a Gerusalemme.
Nel clima di intensa controversia religiosa e di lotte politiche e sociali che caratterizza questo periodo, il Vero, rivelato in anticipo, assumeva l'aspetto di un'arma da combattimento, la più efficace di tutte. L'obiettivo principale dei primi testi islamici a carattere storico sembra infatti essere stato quello di 'costruire il Vero'. Mentre la cronaca universale o le narrazioni apocalittiche degli storici cristiani attivi in questa stessa epoca sono dominate, come in precedenza, da un atteggiamento 'interpretativo', che trasforma tutti i fatti e gli avvenimenti in segni che annunciano l'avvento del Cristo Salvatore o rivelano i contorni del piano divino per l'umanità, la storiografia musulmana delle origini, nella Sīra, come nelle opere di aḥdāṯ o di futūḥ più vicine al genere della storia ecclesiastica, sviluppa un atteggiamento che potremmo definire 'costruttivo'. Servendosi di un intero arsenale di procedure di 'amministrazione' della verità, ereditate dalla tradizione giudaico-cristiana (l'annuncio anticipatore, la predizione onirica, la scrittura sul bronzo o sulla pietra, l'autorità della tradizione dotta) o appartenenti al passato arabo preislamico, come la poesia, i primi storici musulmani raccolgono un gran numero di fatti, di aneddoti, di parole, allo scopo di edificare il Vero. L'isnād (la catena delle testimonianze), che da una parte fa intervenire la testimonianza oculare e, dall'altra, una tradizione dotta in formazione, costituisce, insieme all'invocazione del verbo coranico (o profetico), il coronamento di tutta la struttura. Con le guerre civili e con la formazione di movimenti scismatici quali il kharigismo e lo sciismo, interviene però un certo disincanto, già evidente in un'opera come la Waq῾at Ṣiffīn di Naṣr ibn Muzāḥim al-Minqarī. Al di fuori del Corano e della Sunna e dopo la morte del Profeta, il Vero diviene problematico. La costruzione del Vero fa parte di un'epoca ormai conclusa, quella dei salaf (gli antenati). In questa nuova fase della storiografia islamica, che coincide con il consolidarsi della dinastia abbaside e con l'affermazione di una cultura araba classica, lo storico aspira a un ruolo neutrale, accontentandosi di registrare gli avvenimenti, senza schierarsi. Questo, almeno, è l'ideale che afferma di seguire.
Né interpretativa come la storiografia cristiana, né tantomeno 'costruttiva' come nella sua fase iniziale, la storiografia islamica inaugurata a partire dalla metà del IX sec. da autori come al-Dīnawarī (IX sec.), al-Balāḏurī (IX sec.) o al-Ya῾qūbī (m. 897), pur adeguandosi rigorosamente al modello della cronaca universale, sembra tornare all'approccio naturalista della storiografia antica. Se alcuni storici, come per esempio al-Ya῾qūbī, al-Balāḏurī o al-Ṭabarī (m. 923), si limitano al ruolo di trasmettitori o di testimoni fedeli, un autore come al-Mas῾ūdī (X sec.) esprime di fronte ad alcune categorie di fatti un atteggiamento critico, il quale ha permesso di paragonare sotto molti aspetti la sua opera a quella di Erodoto.
Tale atteggiamento di neutralità di fondo ‒ spesso rilevato con stupore e incredulità dagli studiosi moderni ‒ distinguerà nei secoli seguenti la storiografia islamica dalle storiografie medievali bizantina e occidentale. Riallacciandosi direttamente, al di là della storiografia cristiana bizantina, alla tradizione dell'Antichità classica, questo atteggiamento favorì la fioritura di una ricca produzione di opere dedicate ai più diversi soggetti. Inoltre, diede modo di esprimersi ad alcuni spiriti critici come, per esempio, Muṭahhar ibn Ṭāhir al-Maqdisī o Miskawayh (m. 1030), e produsse quello che può essere considerato un autentico 'prodigio' della storiografia premoderna, Ibn Ḫaldūn, il quale riassume in sé duemila anni di esperienza di scrittura della storia, da Erodoto in poi, e prefigura diversi aspetti della moderna storiografia.
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