L'Ottocento: scienze mediche. Strumentazione medica
Strumentazione medica
Prima del XIX sec., le tecnologie e gli strumenti erano poco, o per nulla, utilizzati nel processo di diagnosi medica. La diagnosi consisteva nel colloquio con il paziente, il quale forniva un resoconto personale ‒ pertanto, inevitabilmente soggettivo ‒ della propria esperienza sulla patologia. Benché il medico osservasse segni e sintomi esterni, il contatto fisico, di norma, non si estendeva al di là della misurazione del polso. L'esame del corpo mediante strumenti volti a individuare la sede della malattia era un evento eccezionale e poco frequente. La prognosi si basava sulle informazioni che i medici ricavavano dall'incontro con il paziente e sulle inferenze che era loro possibile trarre in base alle esperienze precedenti. Diagnosi e previsione del decorso della malattia costituivano l'aspetto più importante della funzione dei medici, soprattutto prima che venissero sviluppate procedure terapeutiche efficaci. Questo modo antico e autorevole di praticare la medicina perdurò fino agli inizi dell'Ottocento, quando, con l'avvento delle tecnologie diagnostiche, la medicina subì una profonda trasformazione. Lo stetoscopio, l'oftalmoscopio e il termometro clinico, presto seguiti da un'intera collezione di strumenti diagnostici, accrebbero la capacità di udire, osservare e misurare i segni di malattie e di lesioni. La tecnologia diagnostica, dunque, conferì alla medicina e alla chirurgia una precisione maggiore e diede l'opportunità di ottenere ulteriori informazioni oggettive rispetto al passato. Medici e chirurghi interessati a rimanere all'avanguardia nella loro professione dovettero necessariamente cominciare a utilizzare i nuovi strumenti tecnici.
È stato sostenuto, inoltre, che l'avvento della strumentazione diagnostica nel XIX sec. abbia contribuito in proporzione rilevante a ridurre a oggetto il paziente, alterando in modo significativo la relazione medico-paziente. Tale processo si sviluppò di pari passo con il riduzionismo in opera nella medicina ottocentesca, un processo le cui origini, di fatto, vanno collocate nel secolo precedente. L'opera pionieristica del grande anatomista italiano Giovanni Battista Morgagni (1682-1771) nel campo dell'anatomia patologica, il De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis, del 1761, aveva stabilito meticolose correlazioni sistematiche fra le lesioni individuate nel corso dell'autopsia e i sintomi che i pazienti avevano manifestato in vita, stabilendo così le basi della moderna comprensione della malattia attraverso l'anatomia. Morgagni aveva suggerito ai medici di cercare la sede d'origine delle patologie attraverso un'indagine che interessasse il singolo organo; nel secolo successivo la ricerca si spinse a livelli progressivamente sempre più profondi all'interno del corpo umano. Il giovane medico francese Marie-François-Xavier Bichat, nella sua Anatomie générale, appliquée à la physiologie et à la médecine, del 1801, raccomandò di individuare la sede della malattia nel tessuto malato, poiché sosteneva che gli organi fossero costituiti da tessuti. Appena mezzo secolo più tardi, il patologo tedesco Rudolf Virchow (1821-1902) asserì che un'alterazione della funzione cellulare costituiva la base della malattia, e la sua Die Cellularpathologie in ihrer Begründung auf physiologische und pathologische Gewebelehre (La patologia cellulare fondata sulla dottrina fisiologica e patologica dei tessuti), del 1858, fornì una solida documentazione a sostegno di tale tesi.
La diagnosi acquisì un significato nuovo nel corso del XIX sec., trasformandosi in un processo volto a localizzare l'origine dei sintomi manifestati dal paziente; i medici per svolgere tale compito si avvalersero di ogni tecnica e di ogni metodo disponibili. La tecnica principale fu l'auscultazione, ovvero l'ascolto dei suoni provenienti dall'interno del corpo al fine di individuare la malattia. Tale metodo aveva avuto origine nel secolo precedente, con l'introduzione, da parte del medico viennese Leopold Auenbrugger, dell'auscultazione mediante percussione, descritta nell'opera Inventum novum ex percussione thoracis umani ut signo abstrusos interni pectoris morbos detegendi (1761). La percussione consisteva nel bussare sul torace del paziente con l'aiuto di un plessimetro (un piccolo disco, o placca, di corno, posto sulla parete toracica) al fine di accertare la posizione e le condizioni del cuore e dei polmoni. La percussione di Auenbrugger rimase allo stato embrionale fino al 1808, quando Jean-Nicolas Corvisart, il medico di Napoleone Bonaparte, divenne il più acceso ed esplicito sostenitore di questa tecnica diagnostica. Corvisart, figura di spicco della Scuola francese di medicina, utilizzò la percussione nei suoi studi sulle malattie cardiopolmonari e fu in grado di confermare le proprie diagnosi con i risultati post mortem. Tradusse, inoltre, in lingua francese la già menzionata opera di Auenbrugger. Uno dei suoi allievi, René-Théophile-Hyacinthe Laënnec (1781-1826), intraprese il passo successivo introducendo uno strumento più efficace per effettuare l'auscultazione: lo stetoscopio.
Laënnec iniziò a sviluppare la tecnica dell'auscultazione mediata nell'inverno fra il 1816 e il 1817. Egli stesso ha raccontato come segue l'origine dello stetoscopio:
[mi trovai a visitare] una persona giovane che presentava sintomi aspecifici di disturbo cardiaco, e su cui la palpazione e la percussione avevano dato scarsi risultati per via della costituzione robusta […]. Presi un blocco di fogli per gli appunti, lo avvolsi strettamente a forma di tubo e, avendone applicata un'estremità alla regione precordiale, avvicinai l'orecchio all'altra estremità, rimanendo tanto sorpreso, quanto compiaciuto, dall'udire il battito del cuore in modo di gran lunga più chiaro e distinto di quanto non mi fosse mai stato possibile mediante applicazione diretta dell'orecchio. (in Duffin 1998, p. 122)
Il perfezionamento della tecnica e della strumentazione necessarie all'auscultazione mediata coinvolsero Laënnec per i diciotto mesi successivi, trascorsi presso l'ospedale di Necker, i quali culminarono con una presentazione dell'argomento all'Académie des Sciences di Parigi nel 1818 e con la pubblicazione del suo De l'auscultation médiate ou traité du diagnostique des maladies des poumons et du coeur nel 1819. Lo stetoscopio (il cui nome deriva dai vocaboli greci per 'torace' ed 'esplorare'), così come lo presenta Laënnec nel Traité, consisteva in un semplice cilindro di legno, lungo 30,48 cm e con un diametro di circa 3,17 cm, dotato di un lume centrale che si apriva a forma di cono dal lato da applicare sul torace del paziente. Tale strumento, volto in origine a rivelare i suoni provenienti dal cuore, fu presto utilizzato da Laënnec per analizzare i suoni della respirazione e delle malattie a essa associate, quali la polmonite, l'edema polmonare, la tisi polmonare e l'enfisema.
Gli ospedali della Parigi postrivoluzionaria, in cui venivano condotte contemporaneamente la cura dei pazienti, la formazione degli studenti e la ricerca avanzata, offrirono a Laënnec l'opportunità di correlare i risultati clinici con l'esame post mortem e con i risultati ottenuti dalla dissezione dei soggetti di sua pertinenza. Di conseguenza, egli riuscì a identificare con certezza le sedi specifiche delle lesioni patologiche già individuate mediante lo stetoscopio nei suoi pazienti vivi. L'innovazione introdotta da Laënnec riscosse un immediato interesse a livello internazionale, il Traité fu infatti presto tradotto in lingua inglese, e, nel corso degli anni Venti del XIX sec., le scuole di medicina cominciarono a svolgere esercitazioni nella tecnica della diagnosi medica mediante l'uso dello stetoscopio.
A un decennio dalla sua introduzione, lo stetoscopio era già annoverato fra gli strumenti essenziali del medico e l'esame fisico del paziente era divenuto una prassi sempre più diffusa. La tecnologia si era ormai legata inestricabilmente all'esercizio della medicina, e lo stetoscopio divenne il simbolo per eccellenza della pratica medica, avendo soppiantato il bisturi quale strumento tenuto in maggiore considerazione dai medici. Esso subì continui perfezionamenti nel corso del secolo, che diedero origine a oltre trenta varianti della forma monoaurale ideata da Laënnec. Da semplice cilindro, qual era in origine, lo stetoscopio assunse, nel tempo, una forma più slanciata, un'apertura a campana sull'estremità da applicare al torace e un auricolare appiattito all'estremità opposta. Inoltre, medici e fabbricanti di strumenti ne sperimentarono varietà differenti costituite da materiali diversi come il legno, il corno, la plastica e il metallo. Un ulteriore progresso si ebbe quando, nel 1852, il medico newyorchese George P. Cammann progettò lo stetoscopio binaurale, un modello che si discostava notevolmente da quello originale. Tale strumento consisteva di due tubi di alpacca ricurvi, forniti di auricolari di corno connessi a loro volta, tramite spirali metalliche protette da un rivestimento di gomma, a una singola campana da posizionare sul torace del paziente. Il modello di Cammann, con le sue varianti, rappresentò la norma per la progettazione dello stetoscopio per tutto il resto del XIX secolo.
L'impatto dello stetoscopio sulla relazione medico-paziente si rivelò in qualche modo ambiguo. Sarebbe difficile contestarne il valore diagnostico e, in particolare, il modo in cui facilitò l'esame non invasivo del corpo, rivelandone patologie e lesioni. Lo strumento forniva informazioni che il paziente non avrebbe potuto mai dare (né i medici stessi avrebbero mai potuto ricavare), e lo faceva con grande precisione. Al tempo stesso, però, affidarsi esclusivamente all'informazione diagnostica ottenuta in questo modo poteva indurre i medici a sottovalutare le sensazioni e le opinioni dei pazienti. Perché mai ascoltare le testimonianze soggettive e di parte di questi ultimi, quando era invece possibile ascoltare direttamente le prove oggettive fornite dallo stetoscopio? Il valore attribuito al dialogo diminuì in proporzione diretta con il crescere della stima nei confronti dell'informazione diagnostica ottenuta attraverso lo strumento. Inoltre, cominciò a manifestarsi la tendenza a considerare il paziente unicamente come una collezione di parti malate, anziché come una persona nel suo insieme.
Benché l'uso di specoli per esplorare le cavità del corpo sia esistito fin dall'epoca romana, l'era moderna dell'endoscopia ha inizio nel 1804, con l'introduzione, da parte di Philipp Bozzini, del lichtleiter (conduttore di luce). In origine, Bozzini lo concepì come uno strumento dedicato all'ostetricia, ma presto ne raccomandò l'uso per procedure diagnostiche diverse, fra cui l'esame delle cavità orale e nasale, dell'orecchio, dell'uretra maschile e femminile, della vescica urinaria femminile e del retto. Il lichtleiter si dotò quindi di specoli differenti, ciascuno appropriato all'esame di un orifizio diverso; tuttavia, come i primi endoscopi, questo strumento utilizzava una luce inadeguata perché fornita da una candela.
Lo sviluppo successivo dell'endoscopia si ebbe nel campo dell'urologia, ma i problemi riguardanti l'illuminazione e la ristrettezza del campo visivo erano ancora evidenti negli strumenti messi a punto dai medici francesi Pierre-Salomon Segalas (1826) e Antoine-Jean Désormeaux (1853). Désormeaux, che introdusse il termine endoscope, utilizzò una lampada a spirito (in seguito alimentata a gasogeno, una miscela di alcol e trementina) per ottenere una luce più viva, e il suo strumento fu prodotto e messo in commercio da Charriere e Luer a Parigi.
L'innovazione si affermò in ambito clinico soltanto nel 1879, quando Maximilian Nitze, un urologo di Dresda, introdusse il cistoscopio per l'esame interno della vescica urinaria. In collaborazione con il viennese Josef Leiter, che costruiva tali strumenti, Nitze installò sull'estremità distale dell'apparecchio una sorgente di luce che aumentava sensibilmente l'illuminazione, ma che emetteva solo una quantità minima di calore (la prima versione era dotata di una lampada elettrica al platino, che fu sostituita da una lampada a incandescenza nel 1886). Il cistoscopio di Nitze e di Leiter acquisì un campo visivo più ampio mediante una combinazione di lenti e di prismi; tali modifiche, introdotte con gli strumenti prodotti successivamente, inaugurarono l'era dell'elettroendoscopia. L'endoscopia del tratto digerente si sviluppò nel 1868 con il gastroscopio rigido a tubo aperto di Adolf Kussmaul, ma tale pratica stentò a diffondersi fino agli inizi del XX sec.; la broncoscopia vide la luce nel 1898, quando Gustav Killian, di Friburgo, adattò un esofagoscopio rigido per osservare la trachea e i bronchi mediante tracheotomia.
Altri specoli e 'scopi' per esplorare le cavità interne del corpo furono introdotti nel corso del XIX sec., incentivando lo sviluppo di specializzazioni mediche e chirurgiche associate a parti specifiche del corpo. L'oftalmologia, per esempio, cominciò a prendere le distanze dalla ciarlataneria dei presunti chirurghi di cateratta soltanto nel 1850, con l'introduzione dell'oftalmoscopio da parte dello scienziato e medico tedesco Hermann von Helmholtz. Anche se Helmholtz lo ideò per studiare gli aspetti fisiologici dell'ottica, questo strumento si trasformò ben presto in un supporto diagnostico di vasto utilizzo: con il suo aiuto, divenne possibile osservare la retina e il fondo oculare per rilevare la presenza di malattie oftalmiche, nonché di condizioni patologiche quali l'ipertensione e i disturbi epatici. L'oftalmoscopio, dunque, non soltanto promosse lo sviluppo della specializzazione oftalmica, ma raccolse anche il favore dei medici generici. Fra le sue varianti più famose vanno annoverati l'oftalmoscopio di Richard L. Liebreich (1855), che detenne il primato di popolarità in Europa, e il modello americano più avanzato proposto da Edward G. Loring (1869); strumenti che rimasero entrambi in auge fino alla fine del secolo. Ai perfezionamenti del laringoscopio apportati dal viennese Ludwig Türck e da Johann Nepomuk Czermak, di Budapest, nel corso degli anni Cinquanta fece presto seguito lo sviluppo della laringoscopia. Il laringoscopio, costituito da un semplice specchio inclinato fornito di manico, facilitò l'esame visivo della laringe; già negli anni Sessanta i medici lo usavano quale supporto per la rimozione chirurgica dei polipi in quest'area. Allo stesso modo, lo specolo auricolare di Toynbee e Wilde (1862) e l'otoscopio riflettente di Brunton (1865) accompagnarono e promossero lo sviluppo dell'otoiatria.
Nei primissimi anni del XIX sec., Joseph-Claude-Anselme Récamier iniziò a modificare lo specolo vaginale, le cui origini risalgono all'epoca romana. Il suo lavoro giocò un ruolo importante nello sviluppo della moderna ginecologia, che cominciò ad affidarsi sempre più alla strumentazione tanto per la diagnosi, quanto per il trattamento. Le visite ginecologiche erano effettuate tradizionalmente mediante palpazione dell'addome e una minima esplorazione manuale della vagina, condotta con estrema discrezione; l'esame visivo per mezzo dello specolo avrebbe offeso il decoro e la morale che improntavano le relazioni medico-paziente. Alla metà del secolo le barriere del pudore finirono per cadere di fronte alla nuova enfasi che la medicina poneva sulla localizzazione anatomica e le peculiarità delle malattie. L'imperativo di vedere e, dunque, identificare lesioni, fistole e altre condizioni ginecologiche convinse medici come Récamier a utilizzare maggiormente gli specoli e a ignorare la sensibilità prevalente. Le nuove scoperte ottenute con il supporto degli specoli aumentarono la frequenza e l'ambizione degli interventi chirurgici a livello ginecologico, come testimonia l'accresciuto numero di ovariectomie e isterectomie praticate in quel periodo. Questi sviluppi originarono uno spettro impressionante di varianti strumentali; nel 1900 vi erano circa seicento modelli diversi di specolo vaginale.
L'avvento degli strumenti che consentivano di misurare le funzioni fisiologiche in modo quantitativo o di raffigurarle graficamente, modificò la percezione soggettiva che i medici avevano della respirazione, della circolazione sanguigna e della temperatura corporea del paziente in dati precisi e oggettivi. Prima fra tutte a subire questo processo fu la misurazione della temperatura corporea, la quale, tuttavia, fece la sua comparsa sulla scena clinica più tardi di quanto fosse lecito attendersi. Il termometro risaliva alle scoperte effettuate da Galilei nell'ultimo decennio del XVI sec. ma non fu usato, in origine, per determinare le variazioni di temperatura che accompagnano la malattia. Nel corso del XVII e del XVIII sec. il dibattito era volto a individuare quale fluido (aria, spirito ‒ ossia alcol ‒ o mercurio) fosse più idoneo a registrare le variazioni di temperatura e quale fosse il punto di riferimento più opportuno (il punto di gelo o quello d'ebollizione). Benché già agli inizi del Settecento l'olandese Daniel Gabriel Fahrenheit, che costruiva tali strumenti, avesse sviluppato una scala di misurazione che aveva incontrato ampio consenso e avesse prodotto per Herman Boerhaave un certo numero di termometri per la febbre, lo strumento fu utilizzato nelle indagini cliniche soltanto intorno alla metà del XIX secolo. La scelta del mercurio quale fluido per i termometri clinici, in virtù della sua espansione uniforme, risale al 1822 e il primo termometro con registrazione automatica delle temperature ‒ progettato da John Phillips, un geologo di Oxford ‒ fu introdotto nel 1832.
Nel corso degli anni Quaranta del XIX sec. i medici francesi e tedeschi cominciarono a studiare in modo più approfondito le variazioni della temperatura corporea associate alle condizioni patologiche. La speranza era che l'uso del termometro consentisse di formulare diagnosi più precise, di prevedere il decorso delle malattie e di stabilire una terapia appropriata. Carl Wunderlich (1815-1877), docente di medicina a Lipsia, trascrisse per alcuni anni le temperature registrate nel corso di diverse malattie, stabilendo correlazioni fra le variazioni di temperatura e i sintomi successivi che si manifestavano per ciascuna malattia. Il trattato di Wunderlich Das Verhalten der Eigenwärme in Krankheiten (L'andamento della temperatura nelle malattie, 1868), basato sull'osservazione di 25.000 pazienti, offriva ai medici l'opportunità di individuare i disturbi nelle loro fasi iniziali e di stabilirne dunque il trattamento. Contrariamente alle aspettative di Wunderlich, tuttavia, formulare la diagnosi per mezzo del solo termometro si rivelò impossibile. Le letture elencate nel suo trattato, infatti, non fornivano un profilo della temperatura unico per ciascuna malattia, né il termometro ‒ a differenza dello stetoscopio ‒ era in grado di rivelarne la sede. I risultati ottenuti mediante termometri clinici di manifatture diverse variavano inoltre sensibilmente e soltanto negli anni Settanta del secolo nacquero i centri di calibrazione, essenziali per l'accuratezza delle misurazioni. Di conseguenza, benché lo strumento fornisse un'informazione numerica precisa, il suo grado di esattezza si dimostrò inferiore a quanto Wunderlich aveva sperato. L'acquisto di un termometro preciso e affidabile continuava peraltro a rappresentare un problema; solamente negli anni Ottanta i produttori, primi fra tutti i britannici, ne immisero sul mercato un numero considerevole e di qualità accettabile.
Nel XIX sec. medici e chirurghi si rivolsero ai colleghi che lavoravano nel campo della fisiologa sperimentale per prendere a prestito nuovi strumenti da utilizzare nella diagnosi clinica: in primo luogo lo sfigmografo, per la registrazione delle pulsazioni arteriose, e lo sfigmomanometro, per la misurazione della pressione sanguigna. Questi strumenti fornivano, rispettivamente, valori numerici e rappresentazioni grafiche delle funzioni cardiovascolari.
Le pulsazioni regolari erano state considerate come indice di benessere fin dall'Antichità e l'atto di controllare il polso rappresentava un aspetto essenziale dell'arte e dell'abilità del medico. Intorno alla metà dell'Ottocento, tuttavia, comparvero numerosi strumenti in grado di misurare, registrare e interpretare diverse caratteristiche delle pulsazioni, fra cui il ritmo, la frequenza, l'ampiezza e la regolarità. Nel 1834 Jules Hérisson, medico francese, propose uno strumento non invasivo per la quantificazione della forza del polso, che chiamò sfigmomanometro. In precedenza i tentativi di misurare la pressione sanguigna arteriosa, compiuti da Stephen Hales nel 1733 e da Jean-Léonard-Marie Poiseuille nel 1828, richiedevano l'inserimento di un tubo direttamente all'interno dell'arteria con una procedura che difficilmente avrebbe potuto essere attuata in una normale pratica clinica.
Due decenni più tardi Carl Ludwig, fisiologo dell'Università di Marburgo, collegò l'emodinamometro di Poiseuille al suo chimografo, uno strumento rivoluzionario per la registrazione grafica in fisiologia. Con il ruotare del tamburo del chimografo (termine derivato dal greco, con il significato di 'tracciante d'onde'), il pennino collegato allo strumento si muoveva di concerto con le pulsazioni, mostrandone le variazioni nel tempo. Ludwig ideò questo strumento con l'intento di studiare le relazioni esistenti fra la respirazione e i ritmi cardiaci di sistole e di diastole ed esso divenne, di fatto, uno strumento caratteristico dei laboratori di fisiologia (sebbene, a causa del suo carattere invasivo, non fosse usato sugli esseri umani).
Uno strumento analogo, ma di carattere non invasivo, venne messo a punto da Karl Vierordt (1818-1884), docente di fisiologia a Tubinga, il quale lo chiamò sfigmografo e lo utilizzò per individuare il livello di pressione necessario a far scomparire le pulsazioni dell'arteria radiale. Lo sfigmografo rimase ingombrante e complicato fino alle modifiche sostanziali apportate da Étienne-Jules Marey, il medico noto per averlo applicato alla ricerca medica, oltre che per essere stato un pioniere del cinema. Lo sfigmografo di Marey, introdotto nel 1860, fu probabilmente il primo di tali strumenti a essere impiegato sia nel contesto clinico sia in quello della ricerca fisiologica; a esso si aggiunsero apparecchi per la misurazione del polso, fra i quali gli sfigmografi di Frederick Akbar Mahomed (1872), di Pond (1879) e di Robert E. Dudgeon (1882), nonché, infine, il poligrafo di James Mackenzie (1883), che rappresentava mediante un diagram-ma le variazioni del ciclo simultaneo delle pulsazioni arteriose, venose e cardiache.
Lo sfigmografo, benché raffigurasse in modo accurato il ritmo e la regolarità del polso, non era in grado di determinare con altrettanta affidabilità la pressione sanguigna. Tale obiettivo fu raggiunto soltanto dopo il 1880, con lo sfigmomanometro sviluppato da Samuel Ritter von Basch, docente di patologia sperimentale a Vienna. Basch introdusse la sfigmomanometria indiretta, eliminando la necessità di incannulare l'arteria. Lo strumento da lui ideato esercitava una pressione esterna sull'arteria ‒ dapprima usando l'acqua, in seguito utilizzando un'ampolla piena di mercurio, detta pelotte e infine per mezzo di un indicatore aneroide a molla ‒ fino a quando le pulsazioni scomparivano e si poteva misurare la pressione richiesta. Lo sfigmomanometro di Basch era di uso relativamente facile, si poteva trasportare, ed era dunque più adatto rispetto ai precedenti a essere impiegato nella pratica medica quotidiana. Esso venne infine perfezionato nel 1896 da Scipione Riva Rocci, che vi introdusse un manicotto allo scopo di ostruire il flusso sanguigno dell'arteria; la pressione richiesta per tale occlusione era misurata mediante un semplice manometro a mercurio. Alla fine del secolo lo sfigmomanometro fu introdotto nelle camere operatorie, dove si dimostrò prezioso nel monitoraggio dei pazienti sottoposti a intervento chirurgico; in seguito, divenne lo strumento essenziale di ogni visita medica.
Le nuove tecnologie diagnostiche furono accolte in modi diversi in medicina. Alcuni medici deplorarono il declino di ogni 'arte e mistero' dalla disciplina clinica, attribuendo agli strumenti l'effetto di sminuire la loro professione. Pur avendo l'opportunità di evocare la retorica scientifica a sostegno delle proprie pretese di autonomia professionale, costoro non desideravano ridurre l'attività svolta al capezzale del paziente a una scienza ‒ o, peggio ancora, a un mero commercio ‒ cui chiunque fosse stato in possesso di un'adeguata formazione tecnica avrebbe potuto dedicarsi. Secondo questo modo di pensare, essere un medico significava anche avere una formazione culturale alle spalle, comportarsi in modo signorile e possedere una visione ampia della medicina, fondata sulla saggezza e sull'esperienza acquisite nel corso di una vita; inoltre, alcuni mal tolleravano l'affermazione delle specializzazioni associate all'uso crescente degli strumenti; queste ultime, infatti, implicavano un'inaccettabile restrizione dell'ambito professionale del medico.
La resistenza nei confronti delle tecnologie diagnostiche dipendeva dal grado di pericolosità che veniva attribuito a ciascuno strumento. L'uso appropriato dello stetoscopio, per esempio, dipendeva chiaramente dall'abilità del medico e non fu perciò considerato una minaccia né si ritenne potesse portare a una diminuzione dell'importanza dell'arte clinica; esso quindi fu accolto e assimilato nella pratica medica più facilmente. Al contrario, gli strumenti che producevano risultati oggettivi e grafici, come lo sfigmografo e lo sfigmomanometro, inizialmente incontrarono maggiore difficoltà a essere accettati, perché costituivano una sfida diretta alla capacità del medico di misurare il polso manualmente, minacciando di spogliare il processo diagnostico di gran parte della sua mistica e di ridurlo a una serie di meri numeri e grafici. La resistenza dei medici era, inoltre, aggravata dalla scarsa maneggevolezza, dalla fragilità e dall'inaffidabilità delle prime versioni degli strumenti in questione.
D'altra parte, chi appoggiava l'uso dei nuovi strumenti ne lodava la precisione e l'oggettività, aspetti su cui si appuntavano, invece, le critiche dei detrattori. I medici e i chirurghi che sostenevano l'uso di strumenti diversi appartenevano spesso a circoli accademici a loro volta impegnati nella ricerca avanzata. Dal loro punto di vista, la medicina clinica aveva bisogno di un processo di riforma volto all'impiego nella pratica clinica degli strumenti prodotti dalla scienza sperimentale. La fisiologia, per esempio, metteva a disposizione apparecchi per la misurazione del polso e la determinazione della pressione sanguigna e tale strumentazione produceva letture accurate e riproducibili, che potevano essere studiate, condivise e discusse. Con il passare del tempo, sarebbe potuto emergere un consenso scientifico in grado di definire quali letture costituissero lo standard per la normalità e lo stato di salute e tali misure diagnostiche avrebbero a loro volta guidato lo sviluppo di terapie più efficaci e razionali. Informazioni di questo tipo avevano già esercitato un'influenza immediata sulla cura dei pazienti in situazioni gravi e avevano anche avuto ricadute vantaggiose su gran parte della popolazione, evidenziando condizioni che, a dispetto del loro carattere endemico, erano rimaste fino a quel momento inosservate, come, per esempio, l'ipertensione. Tali risultati accelerarono sensibilmente il processo che portò ad accogliere la strumentazione tecnica quale parte integrante della medicina moderna.
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