L'Ottocento: biologia. Studi sull'ereditarieta
Studi sull'ereditarietà
I fenomeni dell'eredità biologica furono considerati fino a tutto il Settecento secondari e non particolarmente rilevanti nel complesso delle questioni relative alla fisiologia della nutrizione e della riproduzione. Gli autori antichi (Ippocrate, Aristotele, Galeno), che pure avevano notato e tentato di spiegare vari aspetti dell'ereditarietà, li avevano considerati come epifenomeni del processo di sviluppo embrionale; avevano così unanimemente concluso che essi non rispondevano ad alcuna regolarità chiaramente definibile. Dal punto di vista storico la nascita della genetica ha richiesto il superamento di questa concezione riduttiva (e nello stesso tempo vaga) e ha fatto emergere l'esigenza di uno 'spazio' teorico e sperimentale autonomo tra i settori della fisiologia della riproduzione e della biologia dello sviluppo.
Le premesse del lungo processo che portò, alla metà dell'Ottocento, a individuare (seppure in circostanze peculiari che non ne consentirono un'immediata affermazione) i fondamenti teorici di questo nuovo ambito disciplinare, denominato nel 1906 da William Bateson 'genetica', furono poste da due fattori. Da un lato l'importanza assunta dai fenomeni ereditari come banco di prova della teoria preformistica, nella prima metà del Settecento, dall'altro lato l'impulso dato dalla cultura illuministica alle scienze agricole. All'interno di queste ultime aveva assunto particolare rilievo una tecnica che risulterà cruciale, quella dell'ibridazione, utilizzata da tempo in modo empirico per il miglioramento delle varietà animali e trasferita, soltanto dopo la scoperta della sessualità delle piante, al regno vegetale.
In tale contesto ebbero origine due diverse linee d'indagine concernenti fenomeni ereditari. La prima, e più antica, era seguita da ricercatori che Robert C. Olby (1990) ha definito con il termine 'ereditaristi'; essa era originariamente caratterizzata dal tentativo di elaborare una teoria che fosse compatibile con le idee sulla fecondazione e sullo sviluppo embrionale, con le osservazioni mediche sulla trasmissione ereditaria di alcune patologie, nonché con quelle sugli incroci animali desunte dai resoconti degli allevatori o dai pochi esperimenti tentati. Questa linea d'indagine, già nettamente contraddistinta da prevalenti interessi teorici, divenne, nella seconda metà dell'Ottocento, parte integrante dei dibattiti suscitati dalla teoria dell'evoluzione che finirono per determinare in modo decisivo tutte le ipotesi proposte.
L'altra linea di ricerca fu invece condotta dagli ibridatori vegetali, in genere botanici con forti interessi pratici o giardinieri colti. I due indirizzi si svilupparono parallelamente per circa un secolo con una netta predominanza culturale del primo. Fu però l'attività degli ibridatori, culminata nel 1865 in una ricerca intelligentemente pianificata e interpretata in maniera magistrale da Gregor Mendel, che produsse risultati osservativi quantitativamente ben inquadrati e proposte teoriche cruciali per lo sviluppo della genetica come disciplina autonoma.
La corrente degli ereditaristi nasce e si consolida tra il XVIII e il XIX sec. attorno ad alcuni concetti trasmessi dalla cultura medico-biologica dell'Antichità. Il principio fondamentale era costituito dall'idea, proposta da Anassagora e Democrito e poi accolta nel Corpus Hippocraticum, secondo la quale il seme deriva da tutti i distretti del corpo adulto ed è costituito da piccole particelle che, in qualche modo, sono in grado di ricostituirlo esprimendosi nella formazione dell'embrione. La teoria implicava, oltre al seme maschile, anche l'esistenza di un seme femminile e una competizione tra i due; da tale competizione risultava, nel corso dello sviluppo embrionale, una sorta di mosaico di predominanze locali che dovevano dare origine alla combinazione unica e irripetibile dei caratteri che costituiscono l'individuo.
Questo principio, entrato in crisi nel periodo di maggior diffusione del preformismo (1669-1769), nel 1751 tornò al centro del dibattito dopo che Pierre-Louis Moreau de Maupertuis ebbe usato l'analisi statistica della polidattilia ricorrente nella famiglia Ruhe per dimostrare che: (a) il fenomeno non era casuale ma rinviava a un meccanismo biologico di trasmissione dei caratteri ancora ignoto; (b) la malformazione si trasmetteva sia per via materna sia per via paterna e quindi risultava falsificata l'idea preformistica, nella versione ovistica e in quella animalculistica.
Le difficoltà di accordare le osservazioni sui fenomeni ereditari con le teorie sulla fisiologia della riproduzione e dello sviluppo embrionale furono peraltro lucidamente esposte da Albrecht von Haller (pur sostenitore del preformismo ovistico) in un capitolo degli Elementa physiologiae (1757-1766), che riassume tutti i fatti allora noti sui fenomeni ereditari desumibili sia dalla letteratura medica sia dai resoconti relativi a ibridazioni animali vere o presunte. Il riconoscimento di tali difficoltà, mentre dava nuovamente peso al punto di vista epigenetico, favorì anche ‒ grazie all'autorevole intervento di Georges-Louis Leclerc de Buffon (1707-1788), che riprendeva e sviluppava proposte già avanzate da Maupertuis ‒ il recupero dell'antico principio dell'esistenza di piccole particelle responsabili dei processi di strutturazione attivi durante lo sviluppo embrionale, e quindi anche del trasferimento dei caratteri ereditari. Veniva in tal modo individuato uno dei cardini concettuali delle nuove indagini: quello dell'esistenza di unità biologiche discrete alla base dei fenomeni ereditari, che, insieme all'applicazione dei metodi quantitativi, costituisce il presupposto teorico storicamente più rilevante per la nascita della genetica.
Il problema di attribuire un significato preciso all'epigenesi monopolizzò, tuttavia, gli interessi dei ricercatori e continuò a mantenere in primo piano i problemi dello sviluppo. Fino al termine dell'Ottocento la trasmissione dei caratteri ereditari continuò, dunque, a essere considerata come un epifenomeno dello sviluppo e si tentò di spiegarne i dettagli con il ricorso a forze attrattive o a processi di cristallizzazione analoghi a quelli chimici, benché specifici del mondo biologico.
Una teoria fondata su tali presupposti fu pubblicata da Buffon già nel 1749: essa prevede l'esistenza di 'molecole organiche' indifferenziate e specifiche del mondo vivente, primitive e incorruttibili (cioè trasmesse indefinitamente di generazione in generazione), comuni sia ai vegetali sia agli animali. Queste molecole possono subire un differenziamento specifico nel corso del processo di assimilazione per 'intussuscezione' ‒ termine coniato dallo stesso Buffon ‒ a organi o ad abbozzi di organi che fungono da stampi interni (moules intérieurs) e sono dotati di forze penetranti attrattive analoghe all'attrazione gravitazionale. La riproduzione diventa così per Buffon un capitolo della nutrizione e dell'accrescimento. Di contro, le molecole organiche già differenziate, ma rese ormai inutili dal completato sviluppo dell'organismo, vanno a costituire, sia nel maschio sia nella femmina, il liquido seminale che può così disporre di un complesso di piccoli corpi viventi e organizzati; questi ultimi sono in grado, incontrandosi dopo la fecondazione, di dar luogo allo sviluppo embrionale. Esso avviene però a partire da una 'base fissa', determinata dal prevalere dei caratteri sessuali dell'uno o dell'altro partner, attorno alla quale vengono opportunamente organizzate e strutturate le molecole organiche. In tale contesto i fenomeni ereditari erano ridotti, come nell'Antichità, a epifenomeni del processo di crescita e non era neppure ipotizzabile la loro dipendenza da meccanismi biologici specifici che prefigurassero un nuovo settore autonomo di indagine disciplinare.
Questa teoria, ritenuta non del tutto soddisfacente dallo stesso autore, ebbe tuttavia ampia diffusione fra la seconda metà del Settecento e gli inizi dell'Ottocento e influenzò direttamente o indirettamente una serie di ipotesi esplicative sui fenomeni ereditari avanzata nella seconda metà del XIX secolo. Tra il 1858 e il 1900 furono elaborate, infatti, numerose teorie, le quali, pur presentando differenze nella terminologia e spesso anche nei meccanismi fondamentali, trovavano tutte almeno una base comune nel presupposto meristico, secondo cui l'informazione genetica è veicolata da particelle discrete localizzate nel protoplasma delle cellule germinali. Questo principio non poté tuttavia produrre una teoria soddisfacente dei fenomeni ereditari poiché tutte le ipotesi fondate su di esso postulavano, proprio come in Buffon, un rapporto troppo stretto di tali fenomeni con i processi di nutrizione e di sviluppo. Esse erano per di più formulate con lo scopo deliberato di rendere conto di una serie troppo vasta di dati che si ritenevano sperimentalmente fondati e che, invece, erano, in alcuni casi, fenomeni apparenti e, in altri, frutto di sperimentazioni od osservazioni non accurate.
L'esigenza di fornire una spiegazione di questa complessa mole di dati osservativi e l'implicita convinzione che i fenomeni ereditari non fossero che epifenomeni dei processi di nutrizione e di sviluppo limitarono la portata del principio meristico. In tutte le teorie elaborate in questo periodo tale principio dovette infatti essere interpretato in modo da spiegare osservazioni che sembravano deporre a favore dell'esistenza dell'eredità intermedia, pur evitando nella maggior parte dei casi di postulare la reale fusione delle particelle discrete responsabili dell'eredità. Inoltre rimase imprecisa e sostanzialmente ambigua la distinzione tra queste ipotetiche particelle ereditarie e i caratteri somatici da esse determinati.
Una prima proposta teorica significativa, intesa a spiegare tali fenomeni, fu avanzata nel primo volume (1864) di The principles of biology da Herbert Spencer, il quale propose di interpretare il comportamento delle ipotetiche unità ereditarie con analogie di carattere chimico. Secondo tale teoria, tra le molecole che Spencer considerava unità chimiche e le unità morfologiche, cioè le cellule, deve esistere un terzo tipo di unità: quelle fisiologiche, che sono costituite da aggregati di molecole e che, a loro volta, compongono le cellule. Le unità fisiologiche rappresentano le parti più piccole nelle quali può essere risolta la materia vivente. Esse sono raccolte nelle cellule germinali, sono in grado di autoriprodursi e, in seguito alla fecondazione, di circolare all'interno dell'organismo nel corso dello sviluppo. Il processo di autoriproduzione, consistente in un'aggregazione strutturata, non è aspecifico bensì guidato da una "polarità organica" tipica, basata "su qualche differenza di composizione nelle unità, o di ordinamento nei loro componenti che, dando origine a qualche differenza nel gioco reciproco delle loro forze, produce una differenza nella forma che l'aggregato assume" (Spencer 1864-67 [1922, p. 193]). Si tratta di un processo analogo alla cristallizzazione delle soluzioni saline, che spiega non solo i fenomeni ereditari ma anche quelli di riparazione e di rigenerazione.
Secondo Spencer, inoltre, il comportamento di questi aggregati è regolato da una legge generale per la quale più un aggregato è complesso e costituito da unità complesse, più esso è sensibile alle forze esterne che tendono a imporgli una nuova forma; ciò spiegherebbe la possibilità di trasmettere anche i caratteri acquisiti. Il processo di autoriproduzione è, in linea di principio, destinato a trasmettere essenzialmente i caratteri di genere e di specie secondo una legge generale dell'eredità per la quale "ogni pianta o animale che si riproduce dà origine a organismi simili a sé: la somiglianza consiste non tanto nella ripetizione dei caratteri individuali, quanto nell'assumere la stessa struttura generale" (ibidem, p. 255). Tuttavia il processo comporta, come effetto collaterale, anche il trasferimento, sebbene in modo non rigoroso, di caratteri individuali, sicché "da ultimo risulta un organismo in cui i caratteri di uno dei genitori sono mescolati con quelli dell'altro e in cui, secondo il predominio dell'uno o dell'altro gruppo di unità, viene prodotto l'uno o l'altro sesso con tutti i suoi caratteri concomitanti" (ibidem, p. 267). Per quanto riguarda i caratteri di classe, di ordine, di genere e di specie, la struttura determinata dalla polarità organica è la stessa sia nel padre sia nella madre, mentre per i caratteri individuali i due gruppi di unità lavorano in opposizione l'uno all'altro, ingaggiando una sorta di lotta che produce innanzi tutto un mescolamento dei caratteri dei due genitori.
È difficile dire se e quanto le idee di Spencer abbiano influenzato Charles Darwin nel periodo in cui questi stava elaborando la sua teoria della pangenesi che, nonostante i dubbi dello stesso autore e le molte critiche, fu la più diffusa e accreditata fino agli ultimi anni dell'Ottocento. Darwin aveva iniziato a occuparsi di problemi attinenti la genetica nell'estate del 1839, quando avviò una serie di ricerche sulla fertilizzazione incrociata dei fiori da parte degli insetti, nate dalla convinzione che "l'incrocio svolge un ruolo importante nel mantenere costanti le forme specifiche" (Darwin 1887 [1896, I, p. 73]). Parallelamente si era anche interessato ai problemi di ibridazione animale e nello stesso 1839 diffuse tra gli allevatori un questionario allo scopo di raccogliere dati. I risultati di queste prime indagini furono riassunti in un articolo del 1856 e successivamente nel nono capitolo di On the origin of species by means of natural selection or the preservation of favoured races in the struggle for life (1859). Tali indagini tendevano a neutralizzare possibili critiche alla teoria dell'evoluzione fondate sull'idea della sterilità degli ibridi. Darwin sosteneva, infatti, che le specie sono derivate per evoluzione dalle varietà e se fosse risultato vero, come la letteratura dell'epoca sembrava sostenere, che mentre gli ibridi intervarietali sono fertili quelli interspecifici sono sterili, ne sarebbe derivata una netta distinzione e discontinuità tra varietà e specie che avrebbe costituito la base di una critica pericolosa alla teoria dell'evoluzione. Dopo un'ampia rassegna della letteratura sull'ibridazione, Darwin concluse che la difficoltà era soltanto apparente.
A partire dal 1860 le indagini di Darwin sui fenomeni dell'ibridazione volsero invece verso altre direzioni. Egli stava tentando di risolvere il problema dell'origine delle variazioni sulle quali agisce la selezione. La sua attenzione si era pertanto concentrata sulle caratteristiche ereditarie e sulle leggi che potevano regolarne la trasmissione. Gli esperimenti degli anni Sessanta erano esplicitamente volti all'elaborazione di una teoria sulla trasmissione dei caratteri ereditari. Questa teoria verrà esposta poi per la prima volta nel 1868 all'interno del ventisettesimo capitolo di The variation of animals and plants under domestication.
Darwin chiamò tale teoria 'pangenesi' per evidenziare il ruolo fondamentale dell'ipotesi secondo la quale ogni organismo deriva da tutte le cellule o unità elementari non soltanto dei genitori ma anche degli altri antenati. L'idea centrale della proposta darwiniana era che ogni unità elementare dell'organismo (Darwin allude abbastanza chiaramente alle cellule) è in grado di produrre un piccolo germe o 'gemmula' che, convenientemente alimentata, ha la capacità di strutturare, nel corso del suo sviluppo, una parte dell'organismo analoga a quella dalla quale proviene. Come notò Thomas H. Huxley (1825-1895), questa teoria era più vicina alle idee di Buffon che a quelle di Spencer e può essere ricondotta a quattro ipotesi fondamentali:
a) la base fisica, che consente la trasmissione ereditaria dei caratteri, è costituita da elementi biologici discreti veicolati in tutto il corpo dagli umori e dal sistema circolatorio;
b) tali elementi, nonostante siano omologhi, sono di due tipi diversi e, dopo lo sviluppo, si raccolgono gli uni nelle cellule germinali femminili (uova), gli altri in quelle maschili (spermatozoi);
c) in seguito alla fecondazione tra questi due tipi di elementi discreti si ingaggia una lotta per il controllo dei fenomeni dell'embriogenesi e dell'ontogenesi, nel corso della quale viene deciso quali caratteri passeranno al figlio dalla madre piuttosto che dal padre;
d) il meccanismo attraverso il quale l'elemento discreto, considerato come il veicolo del carattere, trasmette le sue peculiarità all'organismo figlio viene assimilato ai meccanismi di nutrizione e di crescita e reputato analogo a un processo di cristallizzazione guidato da un''affinità elettiva' (elective affinity) tra le gemmule.
Darwin non ammette che le gemmule possano fondersi per formare gemmule miste e spiega i fenomeni dell'eredità intermedia, che Francis Galton (1822-1911) chiamerà blended inheritance, come effetto dell'azione combinata di gemmule contrastanti associate, ma non fuse, nel patrimonio della prole. Tuttavia si suppone che anche negli ibridi sussistano, allo stato latente, le gemmule pure, che sono relative ai caratteri manifestatisi in forma intermedia nella generazione ibrida; ciò consente di dar conto delle osservazioni che testimoniavano la ricomparsa delle forme pure nelle generazioni successive degli ibridi, mentre le modificazioni subite dalle stesse gemmule durante la vita dell'individuo genitore spiegano l'ereditabilità dei caratteri acquisiti.
Nonostante fosse stata proposta con una certa titubanza da Darwin e fosse stata accettata solamente con molte riserve da vari autori, la teoria della pangenesi era destinata a imporsi e a rimanere l'ipotesi centrale e più diffusa fino alla riscoperta delle leggi di Mendel. Inoltre, influenzò in vario modo quasi tutte le teorie, più o meno note, elaborate in quegli anni. Un contributo notevole alla sua circolazione fu offerto da Galton il quale, dopo averne modificato alcuni aspetti marginali e aver negato l'eredità dei caratteri acquisiti, ne elaborò una modellizzazione matematica che fu ampiamente accettata e che successivamente diede origine alla biometria.
Galton effettuò un esperimento di trasfusione di sangue usando diverse varietà di conigli e dimostrò innanzi tutto che il sangue non veicolava alcun elemento al quale potesse essere attribuita la trasmissione dei caratteri ereditari. Suppose perciò che i responsabili di tale trasmissione fossero semplicemente germi o unità contenute nell'ovulo fecondato, non meglio individuate dal punto di vista biologico. Anche se egli insiste sul carattere discreto di queste unità e sulla natura 'particolata' dell'eredità biologica (particulate inheritance), il concetto centrale della sua ipotesi è costituito dall'idea di 'stirpe', che designa il patrimonio ereditario nel suo complesso e assume particolare rilievo in virtù del principio stabilito da Galton stesso come blended inheritance. Alla natura discreta delle unità non corrispondeva infatti, secondo Galton, la natura discreta dei caratteri. A suo avviso, alcuni caratteri, come il colore della pelle, sono trasmessi in modo tale da mescolarsi, sicché se si incrocia un uomo bianco con una donna nera nascerà sicuramente un mulatto; esistono poi caratteri alternativi come il colore degli occhi, trasmessi da uno solo dei genitori. Questa divisione tra caratteri alternativi e caratteri quantitativi, tuttavia, non è rigida e Galton tende, come risulta chiaro in Natural inheritance, a considerare tutti i caratteri più o meno quantitativi: "Probabilmente non esistono caratteri ereditari che si mescolano in maniera perfetta o che si escludono in modo assoluto l'uno con l'altro, bensì tutti i caratteri ereditari hanno la tendenza nell'una o nell'altra direzione, e questa tendenza è spesso molto forte" (Galton 1889, p. 12).
È questa idea che evidenzia il concetto globale di patrimonio ereditario (stirpe) e autorizza il suo studio dal punto di vista principalmente statistico. Tale aspetto è reso ancor più rilevante dal fatto che Galton considerava la stirpe non solo come il patrimonio ereditario, che incorpora le unità e i caratteri corrispondenti che un individuo riceve dalla linea di discendenza alla quale appartiene, ma anche come depositaria delle specificazioni relative alla costituzione della specie e di tutte le possibili variazioni individuali di questa stessa specie. La stirpe è composta infatti da due componenti: una presiede allo sviluppo del nuovo individuo e un'altra, destinata alla moltiplicazione della specie, resterà latente e verrà accantonata per costituire la stirpe delle generazioni successive. Quando si avvia lo sviluppo embrionale il gruppo di germi che si isola dalla stirpe rappresenta soltanto uno di questi individui; il resto viene accantonato per ricomparire nella generazione successiva, dove accadrà la stessa cosa, vale a dire verranno riestratti alcuni caratteri individuali che costituiranno la nuova prole.
Sulla base di queste ipotesi, Galton propose un modello matematico che integrava, con un approccio statistico, il metodo precedente puramente frazionario usato per l'analisi quantitativa dei fenomeni ereditari. Secondo tale schema, proposto originariamente da William Wollaston (1660-1724), nell'incrocio tra un individuo di razza nera e un bianco europeo nasceva, per esempio, il mulatto che aveva esattamente 1/2 di sangue bianco e 1/2 di nero; dal primo incrocio tra un bianco e una mulatta nasceva il terceròn con 3/4 di sangue bianco e 1/4 di nero. Il successivo incrocio tra un bianco e un terceròn dava origine al quarteròn, con 7/8 di sangue bianco e 1/8 di nero, e così di seguito fino all'octoròn. Queste distinzioni erano annotate nei registri di stato civile fino alla seconda metà dell'Ottocento perché, a seconda del grado di incrocio, i sanguemisti potevano godere di determinati diritti o aspirare a specifici impieghi e cariche.
Lo stesso schema sarà ancora utilizzato da Galton per interpretare in modo matematico la sua teoria biologica della stirpe con quella che egli chiama 'legge dell'eredità atavica' (Ancestral law). Per questa legge non si deve considerare un individuo soltanto come il figlio dei suoi genitori, ma anche come il discendente dei quattro nonni, degli otto bisnonni, dei sedici trisavoli e così via. In altri termini, tutta la serie degli antenati contribuisce alla formazione del patrimonio ereditario e ciascuno di essi in misura tanto minore quanto più è remoto. L'insieme delle proprietà ereditate può essere indicato con il numero 1 per quanto riguarda un determinato carattere (per es., la statura): si può allora sostenere che il contributo ereditario dei genitori alla sua formulazione è di 1/2, mentre i quattro nonni contribuiscono per 1/4 e i bisnonni per 1/8 e così via. In pratica, dunque, ognuno dei genitori contribuisce per 1/4 del totale all'eredità del figlio e tutta la serie degli avi per l'altra metà, ma in proporzioni che diminuiscono quanto più si arretra nel tempo. Poiché la serie dei nonni e degli antenati più remoti costituisce una popolazione molto numerosa, la cui media è molto probabilmente assai vicina a quella della popolazione totale, questa eredità atavica pesa sul patrimonio ereditario provocando una tendenza a regredire verso la media regolata da una 'legge della regressione filiale'. Secondo tale legge, i figli ereditano i caratteri dei genitori ma non completamente; ovvero li ereditano per 2/3, mentre per 1/3 regrediscono verso la media.
In particolare Galton, considerando 205 coppie di genitori e i loro 930 figli, osservò che i genitori plusvarianti hanno in media figli plusvarianti ma meno estremi; trovò cioè che le stature dei figli presentano un regresso verso la media totale della popolazione. Dopo aver misurato la media degli scarti dei figli, Galton notò che tale regressione è circa i 2/3 della media degli scarti dei genitori: i figli sono circa 1/3 meno estremi dei genitori. Ciò vuol dire che la regressione filiale è esattamente di 1/3.
La teoria della perigenesi delle plastidule, enunciata nel 1876 da Ernst Heinrich Haeckel, mostra forti analogie con le idee di Spencer; Haeckel ebbe il merito di aver attirato per primo l'attenzione sul ruolo svolto dal nucleo nei fenomeni ereditari, ruolo che verrà dimostrato in seguito da Theodor Heinrich Boveri nel 1887. Secondo Haeckel, le plastidule sono gli elementi costitutivi della materia vivente, sono semplici molecole chimiche decomponibili soltanto in atomi; la loro moltiplicazione avviene per una produzione incessante di nuove plastidule a spese del liquido nutritizio con un processo in parte analogo a quello di cristallizzazione che trasmette alle plastidule neoformate la stessa struttura di quelle dalle quali derivano. I primi organismi sorti all'origine della vita non erano altro che ammassi di plastidule che costituivano un protoplasma primordiale privo di nucleo. Tali piccoli organismi primordiali avevano alcuni caratteri che erano l'espressione diretta dei movimenti combinati delle loro plastidule, così come i caratteri del cristallo dipendono dalle sue molecole e dal loro movimento. Poste in un ambiente nutritizio adatto esse aumentano di volume come il cristallo a causa della precipitazione e del deposito di nuove plastidule.
L'accrescimento ha come conseguenza la divisione della piccola massa individuale in altre due che formeranno due individui distinti. L'eredità è la conseguenza naturale della riproduzione, poiché la cellula madre trasmette alle cellule figlie non solo le sue plastidule, ma anche il loro tipo di movimento e con esso le caratteristiche che ne sono l'espressione. L'adattamento e la trasmissione dei caratteri acquisiti si spiegano in virtù dell'azione meccanica esercitata sulle plastidule dalle cause esterne. La teoria proposta da Haeckel è detta 'perigenesi' per il tipo specifico di crescita e di riproduzione delle plastidule che essa propone e che, come già spiegato, è solo in parte analogo alla cristallizzazione. Haeckel chiarisce infatti che mentre il cristallo cresce semplicemente per giustapposizione di nuovo materiale sulla sua superficie, il protoplasma costituito dalle plastidule cresce invece per 'intussuscezione', vale a dire con una vera e propria assimilazione. Tale tipo di accrescimento si deve alla costituzione della sostanza organizzata nello stesso tempo solida e penetrabile dai liquidi, e deriva dalla presenza di carbonio nella sua molecola.
Il forte legame che ancora unisce in questa teoria i fenomeni ereditari alla fisiologia della nutrizione e dello sviluppo si venne progressivamente dissolvendo man mano che, sulla base delle osservazioni microscopiche e degli esperimenti volti a chiarire la meccanica dello sviluppo, divenne sempre più evidente il ruolo del nucleo. La consapevolezza dell'importanza di una tale distinzione è testimoniata dalla fortuna del concetto di 'idioplasma', che sarà il cardine della teoria micellare dell'eredità esposta dal botanico Karl Wilhelm von Nägeli nel 1884 in Mechanisch-physiologische Theorie der Abstammungslehre (Teoria meccanico-fisiologica della dottrina dell'ereditarietà).
L'introduzione del concetto di una sostanza specifica responsabile dei fenomeni ereditari, corredato dall'idea della sua ripartizione in segmenti associabili ai singoli caratteri (Anlagen), inaugurava una linea di ricerca che avrebbe potuto condurre a una soddisfacente teoria dei fenomeni ereditari su base cromosomica. Tuttavia, gli sforzi dei più autorevoli rappresentanti di questa nuova prospettiva, August Weismann, Hugo De Vries, William K. Brooks e Wilhelm Haacke furono ostacolati dalla forte influenza esercitata sulla comunità scientifica dalla teoria darwiniana della pangenesi.
L'analisi storica sembra dimostrare che la tradizione degli 'ereditaristi' incontrava un ostacolo epistemologico generato, in ultima analisi, dalla estrema complessità, e in alcuni casi dall'equivocità, dei dati osservativi disponibili sui fenomeni ereditari. Tale complessità orientava tutte le proposte teoriche verso modelli il più possibile duttili (ma perciò anche vaghi), fondati sull'idea di una competizione tra gli elementi discreti che erano stati ipotizzati come veicolatori dei caratteri ereditari.
È anche evidente che questo ostacolo si avviava a essere rimosso attraverso un processo di acquisizione di dati sperimentali affidabili sulla struttura del nucleo e sui suoi rapporti con lo sviluppo, processo che andava progressivamente riordinando e rivalutando i dati osservativi forniti dalla medicina e dalla pratica dell'ibridazione. È tuttavia difficile immaginare quanto sarebbe durato questo processo ‒ che avrebbe potuto dare autonomamente origine alla genetica come disciplina ‒ se esso non fosse stato accelerato dal chiarimento dovuto al recupero di un'ipotesi avanzata da Mendel nel 1865, sulla base di una sistematica analisi quantitativa dei dati ottenuti da esperimenti di ibridazione vegetale appartenenti a tutt'altra tradizione.
Le indagini sui fenomeni ereditari, a partire dalla seconda metà del Settecento, erano state condotte anche da ricercatori con interessi strettamente attinenti alla botanica e volti in particolare a chiarire se la riproduzione vegetale avvenisse per via sessuale e, in caso affermativo, se l'ibridazione potesse dare origine a nuove specie. Questa linea di ricerca aveva già un carattere più empirico rispetto all'altra, allora dominante, e della quale subiva l'influenza. Essa incorporò anche i dati provenienti dalla cultura agricola che, proprio in questo periodo, riceveva nuovo impulso dal rinnovato interesse dei governi e degli intellettuali, determinando la nascita di numerose società per l'incoraggiamento e la promozione delle scienze agricole.
L'idea della fecondazione sessuata nelle piante aveva cominciato a delinearsi verso la fine del XVI secolo. Anticipata dalle osservazioni di Prospero Alpini e dalle considerazioni di Adam Zaluziansky (1592), fu posta a fondamento di un'ipotesi non ancora ben definita da Nehemiah Grew (1641-1712). Furono tuttavia soltanto le accurate indagini compiute da Rudolf Jakob Camerer (1665-1721) a consentire la dimostrazione che gli stami sono, in effetti, gli organi sessuali maschili della pianta, mentre gli ovari e lo stilo rappresentano gli organi sessuali femminili, e che non è possibile ottenere semi fertili se non attraverso la fecondazione. Malgrado ciò, la comunità scientifica conserverà ancora per più di un secolo un diffuso scetticismo nei confronti della sessualità delle piante, soprattutto per l'opposizione di studiosi stimati come Lazzaro Spallanzani (1729-1799). Ancora nel 1839 essa era ritenuta dubbia benché, già nel 1822, Giovanni Battista Amici avesse chiaramente individuato il tubo pollinico e Adolphe-Théodore Brongniart avesse osservato, nel 1827, la penetrazione del tubo pollinico nello stigma. La fusione dei nuclei delle due cellule, maschile e femminile, sarebbe stata poi osservata da Eduard Adolf Strasburger nel 1877.
Nonostante questa diffidenza diffusa, nel Settecento la teoria della sessualità delle piante aveva trovato un autorevole sostenitore in Linneo (Carl von Linné) e fu grazie all'importanza da questi accordata a tale fenomeno che si manifestò l'interesse degli scienziati per l'ibridazione vegetale. Nel 1742, infatti, uno studente di Linneo trovò in un'isola non distante da Uppsala, vicino ad alcuni rappresentanti della specie Linaria vulgaris, una pianta fino ad allora ignota che il naturalista svedese esaminò con attenzione e poi denominò Peloria dal greco pelor, 'mostro'. Linneo aveva immediatamente riconosciuto la somiglianza, se non l'identità, di questa nuova pianta con Linaria, per le sue radici, lo stelo, le foglie, l'altezza, l'odore e il colore dei fiori; la differenza essenziale era costituita dal fatto che la base della corolla di Linaria presentava un solo sperone, mentre il tubo di Peloria ne aveva cinque, tutti ben sviluppati. Linneo pensò che si trattasse di una nuova specie nata dalla trasmutazione di Linaria. Il problema era quello di spiegare come fosse stata possibile una tale trasmutazione, che peraltro metteva in discussione il principio fondamentale del fissismo proposto dallo stesso Linneo, secondo cui le specie presenti e osservabili in Natura sono tutte ed esclusivamente quelle create in origine. Avendo ammesso la sessualità delle piante, Linneo avanzò l'ipotesi che nuove specie potessero nascere per ibridazione. La teoria, anticipata dagli allievi Daniel Rudberg (1744) e N. Dahlberg (1755), fu poi ribadita, sebbene con qualche cautela, da Linneo stesso nella Disquisitio de sexu plantarum (1760), ed è proprio di questi anni la sua convinzione che l'ibridismo fosse un fenomeno molto più esteso di quanto fino ad allora avesse supposto, e che potesse dare origine non solo a nuove specie ma anche a nuovi generi.
Tale filone di ricerca aveva ottenuto il sostegno economico di vari governi tramite accademie scientifiche o più specificamente agricole: i primi studi di Linneo erano stati incoraggiati dall'offerta, da parte dell'Academia Scientiarum Imperialis Petropolitana di San Pietroburgo, di un premio per una monografia sul fenomeno dell'ibridazione. Dopo il 1761 altre accademie e società scientifiche seguirono l'esempio e promisero premi per lavori e ricerche su questo argomento. Così, nel 1819 e nel 1822, la Königliche Preussische Akademie der Wissenschaften (Accademia Reale Prussiana delle Scienze) di Berlino pose il problema: "esistono nel mondo vegetale ibridi tra diverse specie?", e nel 1828 Arend Friedrich Wiegmann ottenne il premio dalla Società Scientifica di Brunswick per una monografia intitolata Über die Bastarderzeugung im Pflanzen Reich (Sulla generazione degli ibridi nel regno vegetale). Nel 1830 e ancora nel 1836 la Hollandsche Maatschappij der Wetenschappen di Haarlem istituì un premio per la migliore monografia relativa al tema: "Che cosa insegna l'esperienza in rapporto alla produzione di nuove specie e varietà attraverso la fertilizzazione artificiale nei fiori e quali piante ornamentali di valore economico possono essere prodotte in questo modo?". Nel 1837 il premio fu assegnato a Carl Friedrich von Gärtner, il quale nel 1849 pubblicherà un'ampia rassegna di studi sull'ibridazione, punto di partenza delle ricerche di Mendel. Nel 1861 l'Académie des Sciences di Parigi offrì un premio per la soluzione del problema: "Gli ibridi che riproducono sé stessi per autofecondazione conservano talora invariati i caratteri per varie generazioni e sono in grado di produrre razze costanti?". Questo premio stimolò le ricerche di Charles Naudin, Dominique- Alexandre Godron e Henri Lecoq.
A metà dell'Ottocento, dunque, era attribuita una notevole importanza, sia teorica sia pratica, alla soluzione del problema, posto da Linneo poco meno di un secolo prima, se fosse possibile produrre nuove specie per ibridazione; a tale questione si interessavano ricercatori in possesso di cultura e attitudini diverse, e più marcatamente pratiche, rispetto a quelle dei propositori delle grandi teorie sull'ereditarietà. È proprio da questa nuova linea di ricerca che, in modo del tutto inatteso, emergeranno dati sperimentali meno equivoci rispetto a quelli su cui si basavano le teorie allora correnti; dati che Mendel inquadrerà in una teoria matematica semplice, già contenente i concetti fondamentali della genetica. Lo stesso Mendel cita come suoi precursori e come fonti delle sue conoscenze soltanto Gottlieb Kölreuter, Gärtner, William Herbert, Lecoq e Max Wichura, ma chiude l'elenco con un generico "e altri" che copre l'omissione di predecessori significativi, quali Thomas A. Knight (della cui opera ‒ si ritiene oggi ‒ Mendel doveva essere sicuramente a conoscenza), Naudin e Augustin Sageret, ampiamente noti all'epoca e citati in letteratura.
Gli esperimenti di impollinazione artificiale iniziati da Kölreuter nel 1759 a San Pietroburgo e proseguiti prima a Calw, poi a Berlino, a Lipsia e a Karlsruhe, dove era stato nominato professore di botanica e direttore dell'orto botanico, costituiscono in effetti il precedente storico più rilevante. Essi, infatti, inaugurarono una tradizione sperimentale che consentì di affiancare all'osservazione tipica del botanico dati per i quali i ricercatori avevano dipeso fino ad allora dai resoconti, non sempre affidabili, di agricoltori e giardinieri. Purtroppo le piante scelte da Kölreuter per gli esperimenti più importanti, appartenenti ai generi Nicotiana e Mirabilis, presentavano anomalie della riproduzione. Il genere Nicotiana, infatti, è poliploide: in particolare, Nicotiana paniculata è diploide e le sue cellule germinali hanno dodici cromosomi ognuna, mentre Nicotiana rustica è tetraploide e in ogni cellula germinale sono presenti ventiquattro cromosomi. L'ibrido che ne risulta è dunque un triploide che non presenta la normale segregazione mendeliana nella seconda generazione ibrida, perché la produzione del polline e degli ovuli è soggetta a varie irregolarità. Questo produce innanzi tutto una infertilità statisticamente significativa negli ibridi; in secondo luogo determina il carattere intermedio degli ibridi di prima generazione; infine intensifica l'apparente reversione degli ibridi della seconda generazione alle forme parentali, in particolare verso la forma parentale che possiede il più alto numero di cromosomi. Anche Mirabilis jalapa (nota come 'bella di notte' e utilizzata anche da Gärtner) mostra anomalie nella riproduzione e nell'eredità poiché una parte dei suoi caratteri viene trasmessa da una particella citoplasmatica non nucleare e quindi non cromosomica. In ogni caso, anche questa pianta evidenzia nella prima generazione ibridi intermedi: se si incrocia, per esempio, la pianta a fiori rossi con una a fiori bianchi, nella prima generazione ibrida si ottengono unicamente piante a fiori rosa, fenomeno attribuito da alcuni a un'assenza di dominanza. A causa di queste anomalie i risultati degli esperimenti di Kölreuter furono significativi soltanto per spiegare l'origine di nuove specie per ibridazione (che risultò falsificata), mentre, per quanto riguarda i meccanismi ereditari, finirono per confermare il pregiudizio dominante dell'eredità intermedia. Tali esperimenti offrirono uno spunto interessante per Mendel solamente poiché consentirono di individuare, nella seconda generazione ibrida, le tre classi tra le quali egli stabilirà poi il rapporto matematico 1:2:1.
Il merito di aver individuato la pianta di pisello più adatta per gli esperimenti di ibridazione e di aver cominciato a rilevare, seppure ancora in modo poco chiaro, i rapporti tipici della genetica mendeliana, è attribuito concordemente alla cultura inglese. I primi esperimenti su questa pianta furono eseguiti nel 1745 da J. Ayloffe, tuttavia, i risultati più interessanti si ottennero tra la fine del secolo e i primi anni dell'Ottocento grazie a Knight, Herbert, Alexander Seton e John Goss. Il primo articolo di Knight, An account of some experiments on the fecundation of vegetables fu pubblicato nel 1799, ma gli esperimenti sulla pianta di pisello ai quali esso si riferiva erano iniziati nel 1787 ed erano stati preceduti da altri sulle piante di mele. Knight si rese conto che l'incrocio tra piante da frutto richiedeva tempi troppo lunghi e così decise di utilizzare la pianta di pisello per poter verificare annualmente gli effetti dell'ibridazione. Prima ancora di pubblicare i suoi risultati, egli li discusse in una corrispondenza con Sir Joseph Banks, presidente della Royal Society di Londra. In una lettera del 6 febbraio 1797, indirizzata a Banks, lo studioso scrive: "Quando introdussi il polline di un fiore violaceo in uno bianco, tutti i semi dell'anno successivo produssero piante colorate; ma quando tentai di eliminare questo colore invertendo il processo, solo una parte di essi produsse realmente piante con fiori bianchi" (Londra, British Museum, Natural History, mss. fK). Il risultato più importante di questi esperimenti fu la scoperta del fenomeno della dominanza.
Una seconda serie di esperimenti fu attuata da Knight nel periodo compreso tra il 1820 e il 1824, contemporaneamente ad altri compiuti, sempre sulle piante dei piselli, da Seton e Goss. Dagli studi di questi ultimi emersero altri interessanti spunti, oltre a una sostanziale conferma dei risultati di Knight. Goss, in particolare, ribadì il fenomeno della dominanza, ma notò anche per primo che nella seconda generazione dell'incrocio tra una varietà a semi bianchi con una varietà a semi verde-blu, il colore blu, che non compariva nella prima generazione, si manifestava di nuovo. Egli osservò inoltre che, se le piante prodotte da semi di questo tipo venivano fatte riprodurre per autofertilizzazione, davano sempre semi blu, mentre le piante a semi bianchi continuavano a produrre sia piante a semi bianchi sia piante a semi blu. Goss dunque era arrivato molto vicino a scoprire il rapporto 3:1 tra dominanti e recessivi.
Le notizie relative a queste ricerche giunsero a Mendel, se non attraverso la lettura diretta degli articoli originali, quantomeno dall'accurato resoconto contenuto nel testo di Gärtner Versuche und Beobachtungen über die Bastarderzeugung im Pflanzenreich (Ricerche e osservazioni sulla generazione degli ibridi nel regno vegetale, 1849). Gärtner, che aveva eseguito in totale 10.000 esperimenti relativi a 700 specie e osservato 250 differenti tipi di ibridi, ripetendo anche gli esperimenti dei ricercatori inglesi sui piselli, confermò i loro risultati e riferì osservazioni relative ai fenomeni di dominanza e segregazione. Non riuscì però ad attribuire a questi fenomeni la giusta importanza, lasciandoli in secondo piano nel più complesso quadro che confermava, in generale, l'idea dell'eredità intermedia e del carattere intermedio degli ibridi di prima generazione. Gärtner accennava anche agli esperimenti di incrocio sui meloni, compiuti in Francia nel 1826 da Sageret il quale, oltre a esaminare il fenomeno della dominanza, aveva anche, per la prima volta, preso in considerazione i caratteri parentali elencandoli in coppie contrastanti. I fenomeni della dominanza e della segregazione erano stati osservati in esperimenti di incrocio effettuati sui topi dal biologo ginevrino Jean-Antoine Colladon (1755-1830), il quale rilevò la dominanza del mantello grigio nella prima generazione ibrida e la predominanza relativa (senza calcolare con precisione il rapporto) dei topi a mantello grigio su quelli a mantello bianco nella seconda generazione.
Un significativo, anche se non definitivo, passo in avanti fu compiuto, quasi contemporaneamente a Mendel, dal botanico francese Naudin. Egli, in un articolo apparso sulle "Nouvelles archives du Muséum" intitolato Nouvelles recherches sur l'hybridité dans les végétaux, pur conservando la convinzione che "gli ibridi hanno forma mista, intermedia tra quelle delle due specie parentali" (Naudin 1865, p. 27), non solo osservò il fenomeno della segregazione, ma tentò di fornire una spiegazione che si differenzia da quella di Mendel soltanto perché prende in considerazione il patrimonio ereditario nella sua globalità e non nei singoli componenti concepiti discretamente. Naudin considerava l'ibrido come una sorta di mosaico costituito da caratteri prodotti dall'unione forzata di due diversi patrimoni ereditari: "Una pianta ibrida è un individuo nel quale si trovano riunite due essenze differenti, aventi ognuna un proprio tipo di vegetazione e di finalità particolare che si contrastano mutuamente e sono incessantemente in lotta per liberarsi l'una dell'altra" (ibidem, p. 99). Il principio teorico di tale ipotesi era basato sulla convinzione che la Natura aborrisca gli ibridi e sull'esistenza di un meccanismo in grado di farli ritornare a una delle forme parentali. Naudin introdurrà la propria ipotesi di segregazione per spiegare come nelle piante ibride le due essenze tendano a separarsi l'una dall'altra per ritornare alle forme parentali. Egli pensò che se un ibrido forma cellule germinali dei due tipi parentali allora esistono tre possibili combinazioni tra tali cellule germinali, e queste combinazioni possono rendere conto dei tre tipi che si osservano nella seconda generazione ibrida. Riteneva totalmente irrilevante, e affidato al caso, il fatto che una certa cellula pollinica si unisse con un certo ovulo (sottolineando dunque il ruolo della casualità nel meccanismo di segregazione). Tuttavia, Naudin non andò oltre nel tentativo di calcolare le proporzioni che si sarebbero dovute attendere nella seconda generazione ibrida se fossero stati prodotti numerosi ibridi. L'ipotesi è la stessa che avanzerà Mendel, anche se non può essere sottovalutata una differenza essenziale: Naudin aveva compreso chiaramente che si operava una disgiunzione dei caratteri nelle cellule riproduttive dell'ibrido, ma la attribuiva a una disgiunzione globale di ciò che egli chiamava "essenze specifiche", temporaneamente unite nell'organismo ibrido; secondo Naudin ciò che si separava o segregava erano, in blocco, i due patrimoni ereditari delle forme parentali e non, come invece supporrà Mendel, gli elementi discreti di tale patrimonio che controllano la comparsa di singoli caratteri.
Le difficoltà incontrate dagli ibridatori nell'elaborazione di una interpretazione soddisfacente dei risultati sperimentali erano, in alcuni casi, accresciute dallo stesso orientamento pratico che caratterizzava (in genere in senso positivo) questo filone di ricerca. I tentativi ‒ coronati dal successo commerciale ‒ effettuati dalla società di sementi Vilmorin per produrre linee pure con particolari caratteristiche portarono, per esempio, a interpretare in senso non mendeliano gli interessanti esperimenti compiuti da Louis Vilmorin tra il 1840 e il 1860. Più in generale, tuttavia, la linea di ricerca condotta dagli ibridatori subiva evidentemente l'influenza dei pregiudizi dominanti nella cultura biologica accademica. La possibilità di sviluppare una teoria autonoma e alternativa dei fenomeni ereditari fu ostacolata, fino ai lavori di Mendel, dal peso notevole che aveva il principio dell'eredità intermedia, sul quale erano fondati tutti i modelli matematici proposti per spiegare i risultati degli incroci. Tali modelli erano necessariamente frazionari e sostanzialmente analoghi a quelli proposti dagli ereditaristi.
La scelta fondamentale che caratterizza e orienta il modello proposto da Gregor Mendel (1822-1884) si fonda sul prendere in considerazione, non già il patrimonio ereditario globale, ma il comportamento dei singoli fattori e caratteri, scelta che fu resa ancor più cruciale dalla decisione di limitare lo studio ai caratteri alternativi. Essa portò in primo piano le osservazioni relative alla dominanza e alla segregazione che gli altri ibridatori non erano riusciti a inserire in un quadro coerente, consentendo di attribuire loro un'importanza prima impensabile.
La genesi reale e gli scopi originari della ricerca di Mendel sono tuttora oggetto di dibattito. Nonostante l'ammirevole chiarezza logica dell'esposizione contenuta nel fondamentale articolo del 1865 Versuche über Pflanzen-Hybriden (Esperimenti sugli ibridi delle piante), la successione degli esperimenti, l'eccessiva approssimazione di molti dati, alcune affermazioni sulle caratteristiche delle piante usate per gli incroci sperimentali, nonché il mancato riferimento a dati riguardanti la dominanza incompleta o il linkage, suscitano qualche perplessità. Tuttavia, nulla toglie all'estrema originalità del progetto sperimentale e soprattutto dell'ipotesi proposta per la spiegazione dei risultati ottenuti. La stessa decisione di sperimentare su una leguminosa e in particolare su Pisum, anche se ispirata dalla lettura di Gärtner, fu comunque attentamente e sperimentalmente vagliata. Mendel giunse così alla conclusione che il pisello comune fosse la pianta più adatta per le seguenti ragioni:
a) le differenti varietà possiedono caratteri costanti facilmente e sicuramente riconoscibili;
b) gli ibridi incrociati fra loro danno una prole perfettamente feconda;
c) c'è una scarsa possibilità che avvenga l'impollinazione a opera di polline estraneo, dal momento che le antere si aprono dentro il fiore, coprendo lo stigma di polline prima ancora che il fiore stesso sbocci.
Quest'ultima peculiarità rende necessaria la castrazione di uno dei genitori scelti per l'incrocio (operazione che richiede meticolosità e attenzione) ma nel contempo costituisce un notevole vantaggio; i discendenti della generazione ibrida parentale, infatti, si autofecondano senza pericolo di contaminazione. Molto importanti risultarono anche le cautele e la cura poste nell'accertamento che le varietà utilizzate appartenessero a linee pure, e la scelta di concentrare l'attenzione sul comportamento di sette caratteri chiaramente alternativi. Infine, Mendel fu il primo a quantificare con estrema precisione i risultati ottenuti.
Egli sostenne di aver eseguito una serie di esperimenti nei quali una pianta che possedeva uno dei caratteri veniva incrociata con un'altra che presentava il carattere antagonista. Ottenne così 7 diversi tipi di incrocio. Per il primo, relativo all'incrocio 'seme liscio × seme rugoso', Mendel dichiarò di aver utilizzato 15 piante e operato 60 fecondazioni. Per il secondo (cotiledoni gialli × cotiledoni verdi) affermò di aver usato 10 piante e operato 58 fecondazioni. Nel terzo (involucro bianco × involucro grigio) Mendel adoperò 10 piante e operò 35 fecondazioni; per il quarto (baccello liscio × baccello avvallato) compì 40 fecondazioni su 10 piante; per il quinto (baccelli immaturi verdi × baccelli immaturi gialli) eseguì 23 fecondazioni soltanto su 5 piante; per il sesto (fiori ascellari × fiori terminali) effettuò 34 fecondazioni su 10 piante; infine per il settimo (pianta alta × pianta bassa) Mendel operò 37 fecondazioni su 10 piante. I risultati che egli ottenne furono piuttosto singolari. In ciascuno dei 7 tipi di incrocio gli ibridi non si presentavano con caratteri intermedi, ma erano molto somiglianti a una sola delle due forme incrociate, tanto che non si distinguevano dalla forma pura. Dal primo incrocio risultarono unicamente semi lisci, dal secondo cotiledoni gialli, dal terzo semi con involucro grigio, dal quarto baccelli di tipo liscio, dal quinto piante con baccelli immaturi verdi, dal sesto piante con fiori ascellari e dal settimo piante alte. Mendel chiamò 'dominanti' questi caratteri che compaiono da soli nella generazione parentale prodotta dall'incrocio di due forme pure. L'altro carattere, apparentemente scomparso, fu definito 'recessivo'.
Egli fece riprodurre per autofecondazione questi ibridi e osservò le caratteristiche della loro discendenza. Notò innanzi tutto la ricomparsa del carattere recessivo, che evidentemente era rimasto latente nella generazione precedente. I figli degli ibridi, infatti, presentavano alcuni il carattere dominante, altri quello recessivo, e in nessuna delle 7 categorie furono osservati caratteri intermedi. La proporzione di individui con carattere dominante rispetto a quelli con carattere recessivo si dimostrò costante e molto vicina al rapporto 3:1. Uno degli spunti più originali di questo approccio è l'aver considerato che la pianta che manifesta il carattere dominante può appartenere a un ibrido oppure a una varietà pura. Per esempio, un seme liscio può provenire da una razza pura a semi lisci o da un ibrido a carattere dominante tra semi lisci e rugosi. Allo scopo di stabilire se i semi con carattere dominante appartenessero all'una o all'altra categoria, o parzialmente a una delle due, e in quale proporzione, Mendel decise di esaminare i semi della generazione successiva. Se i semi piantati provenivano dalla forma pura originale dovevano generare tutte piante uguali al carattere dominante, mentre se erano ibridi dominanti dovevano dare luogo a una prole in parte con carattere dominante e in parte con carattere recessivo nel rapporto di 3:1.
Piantando separatamente i semi con carattere dominante ottenuti in ciascuno degli esperimenti precedenti, verificò che in ogni caso 1/3 dava una prole con carattere dominante (produceva cioè semi che mostravano sempre e soltanto il carattere dominante) e 2/3 si comportavano come gli ibridi, cioè davano dominanti e recessivi nel rapporto di 3:1. Il rapporto 3:1 osservato nella prima generazione ibrida (attualmente denominata F1) doveva dunque essere interpretato come 1:2:1. Avendo indicato con A il carattere dominante, con a il carattere recessivo e con Aa l'ibrido che manifesta il carattere dominante, Mendel decise di scrivere questo rapporto con l'espressione: A+2Aa+a. L'espressione stabilisce appunto che 3/4 degli individui discendenti da ibridi manifestano il carattere dominante (A+2Aa), mentre 1/4 mostra il carattere recessivo (a), e che degli individui con carattere dominante 1/3 (A) non manifesta più il carattere recessivo e gli altri 2/3 (2Aa) sono invece ibridi con carattere dominante. Nei Versuche Mendel definì questa espressione come "legge di applicazione generale per la produzione e per lo sviluppo degli ibridi" (1865, p. 21). La validità generale di questa legge, ricavata da incroci monoibridi, fu poi verificata in incroci poliibridi nei quali le varietà pure di partenza differivano non più per uno solo, ma per due o più caratteri.
Mendel spiegò tali risultati supponendo che ogni seme contenesse due fattori ereditari che controllavano la comparsa di un particolare carattere; entrambi potevano determinare un carattere dominante oppure uno dei due poteva essere responsabile del carattere recessivo corrispondente. Nel primo la lettera usata per denotare il fattore era maiuscola (per es., A), e indicava che ambedue i fattori erano dominanti, mentre nel secondo caso erano utilizzate una lettera maiuscola e una minuscola (Aa oppure aA). L'esistenza dei due fattori non equivale ancora a una chiara formulazione dell'ipotesi dell'esistenza del gene in due forme alleliche, ma consente di fondare in modo rigoroso il modello esplicativo mendeliano.
Mendel suppose inoltre che: (a) negli ovari degli ibridi si formassero (in rapporto ai fattori dominanti o recessivi contenuti) diversi tipi di ovuli e nelle antere vari tipi di cellule polliniche; (b) ovuli e cellule polliniche dei vari tipi fossero in numero approssimativamente uguale; (c) al momento della fecondazione i due tipi di cellule si unissero a caso. L'effetto di queste ipotesi è di stabilire il principio secondo cui tutte le combinazioni possibili dei fattori risultano equiprobabili, dal momento che gli ovuli e le cellule polliniche, composti secondo le varie combinazioni, sono in numero uguale. Sulla base di tali supposizioni, Mendel poté spiegare i risultati che si ottengono dagli esperimenti di ibridazione con una semplice applicazione del calcolo delle probabilità e, in particolare, del principio della probabilità composta. Egli dunque non considerava il patrimonio ereditario in blocco e non applicava a esso lo schema matematico frazionario ma, attribuendo a ogni fattore ereditario (concepito come discreto e indipendente dagli altri) la possibilità di presentarsi in due forme diverse (successivamente chiamate alleli), lo giudicava alla stessa stregua delle due facce di una moneta. Un incrocio monoibrido può essere perciò assimilato al gioco di testa o croce con due monete e, più in generale, gli incroci poliibridi a un gioco con 2n monete, dove n è il numero dei caratteri presi in considerazione. Tutte le possibili combinazioni sono equiprobabili e stanno tra loro nel rapporto 1:1, ma poiché è irrilevante che nelle combinazioni dominante-recessivo il fattore dominante venga prima o dopo, queste combinazioni possono essere raggruppate, sicché le 4 combinazioni equiprobabili di un incrocio monoibrido (1:1:1:1) si riducono a 3 (1:2:1) e le 16 di un incrocio diibrido si riducono a 9 (1:1:1:1:2:2:2:2:4). Per effetto della dominanza tali rapporti tra i fattori ereditari invisibili si traducono, a livello osservativo, nei classici rapporti mendeliani 3:1, 9:3:3:1, 27:9:9:9:3:3:3:1 e così via. L'uso del calcolo delle probabilità consente a Mendel di considerare la composizione del patrimonio ereditario degli ibridi semplicemente moltiplicando la formula base dell'incrocio monoibrido (A+2Aa+a) per sé stessa tante volte quanti sono i caratteri che vengono incrociati, come stabilisce la legge delle probabilità composte. Nel caso dell'incrocio AB×ab (pianta a semi lisci gialli per pianta a semi rugosi verdi) Mendel opera, per esempio, il prodotto (A+2Aa+a) per (B+2Bb+b) dal quale ottiene AB+Ab+aB+ab+2ABb+2aBb+2AaB+ 2Aab+4AaBb.
In questo contesto finivano per trovare un'interpretazione chiara, soddisfacente, matematicamente semplice ed elegante, i fenomeni della dominanza e della segregazione già osservati dagli altri ibridatori. Inoltre, il concetto di eredità particolata era riformulato in modo tale da poter essere posto a fondamento di una nuova disciplina, specificamente destinata allo studio dei fenomeni ereditari, che fosse teoricamente e sperimentalmente autonoma rispetto alla fisiologia della nutrizione e dello sviluppo e alle considerazioni di carattere evolutivo. La proposta di Mendel fu avanzata tre anni prima di quella di Darwin e benché non fosse passata del tutto inosservata, come per molto tempo si è sostenuto, risultò tuttavia talmente anomala da rendere impossibile persino il suo inserimento nei dibattiti relativi all'ibridazione vegetale. A questo singolare destino contribuì notevolmente proprio la nettezza dei risultati ottenuti da Mendel, che contrastava con l'estrema complessità dei dati riferiti concordemente dagli altri ricercatori. Non può essere taciuto che tale chiarezza è frutto non solo della lucidità con la quale fu elaborato il progetto degli esperimenti e del rigore adottato nei conteggi, ma anche di alcune semplificazioni apportate nell'esposizione scritta che agli occhi di un autorevole e abile ibridatore come Nägeli (l'unico ad aver attentamente e seriamente valutato la proposta mendeliana nel corso dell'Ottocento) finivano per sostanziare il sospetto che Mendel avesse compiuto errori di sperimentazione.
A un pieno riconoscimento della validità dello schema mendeliano si sarebbe giunti soltanto nel secolo successivo, dopo più attente ed estese indagini sperimentali e in seguito all'approfondimento delle conoscenze citologiche soprattutto nel settore della meccanica cromosomica. Queste acquisizioni consentirono di spiegare in termini mendeliani anche gran parte dei dati osservativi che sembravano deporre a favore dell'eredità intermedia, ridimensionando anche l'idea dell'assortimento indipendente che Mendel, del tutto ignaro dell'ordinamento lineare dei fattori sui cromosomi, aveva indebitamente generalizzato, convinto dell'assoluta e totale indipendenza dei fattori stessi. Il processo di riconoscimento e di recupero, laborioso e contrastato, iniziò nel 1900, quando la proposta di Mendel fu riesumata contemporaneamente da De Vries, Erich von Tschermak-Seysenegg e Carl Correns. Fu quest'ultimo a derivare, tra il 1902 e il 1905, dall'unica "legge di sviluppo degli ibridi" proposta da Mendel nel suo articolo, tre distinti enunciati: Praevalenz-Regel (legge della dominanza), Spaltungsregel (legge della segregazione) e Gesetz der Selbstaendigkeit der Merkmale und Anlagen (legge dell'assortimento indipendente), divenuti in seguito noti come 'leggi di Mendel' e considerati come costituenti il nucleo teorico centrale della genetica.
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