Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Per quanto l’Europa abbia subito un significativo declino, questo è stato non soltanto lento ma anche non privo di una sua grandezza, come si conviene a chi abbia avuto una storia di millenaria dominazione e una cultura ancora capace di grandi innovazioni e scoperte. Nel XX secolo l’Europa è stata al centro di due guerre mondiali combattute, di una terza, solamente virtuale, quella nucleare, di cui essa stessa doveva essere il campo di battaglia. Intanto che il pericolo si allontanava, l’Europa, superando le sue antiche divisioni, anche geografiche, si è avviata sul cammino dell’unificazione che, per quanto immensamente complicato, potrebbe consentirle di tracciare una nuova via per la pace internazionale.
Mitologicamente concupita da Giove, questa parte del pianeta si è per millenni scritta “Europa” e pronunciata “mondo”, per la semplice ragione che essa ha dominato il pianeta nelle sue progressive estensioni grazie al suo precoce sviluppo e soltanto nel XX secolo, infine, o più precisamente con il giro del secondo millennio dell’era volgare ha visto questo suo primato dissolversi. Da ninfa mitologica essa si ritrova, dopo il 2001 e il giro del “millennio dell’Europa”, ad assumere i caratteri morali di una Venere, imbolsita, fragile, vanitosa, di contro al nuovo mondo emergente, raffigurabile nell’altro mito, quello di Marte (oggi l’America), emblematizzato dagli Stati Uniti, i cui lombi sono forti, il sangue puro e pulsante, i muscoli protesi verso le nuove frontiere invece che verso le mollezze di una cultura decadente e morbosa.
Ma l’Europa è il regno delle lunghe durate, perché le stesse prime indicazioni di un iniziato declino si udirono più di un secolo fa e seguivano di poco l’illuso compiacimento della felix Austria che alla fine della Grande Guerra proclamerà invece la finis Austriae, cosicché sarebbe facile contraddistinguere il Novecento come l’età del crollo del primato europeo, ma si sfuggirebbe alla complessità di una parabola ben più affascinante. Ma non scorderemo prima di tutto gli imperi europei, praticamente spazzati via: quelli austro-ungarico e tedesco d’un sol colpo, quelli inglese e francese, infiacchiti o sgretolati un po’ per volta. Bisogna allora osservare che per sloggiare l’Europa da questa sua centralità (politico-istituzionale, quanto culturale e scientifica; quella economico-finanziaria e industriale aveva iniziato a cedere già nell’ultimo ventennio del XIX secolo) ci sono volute due guerre mondiali, entrambe combattute prevalentemente sul suo territorio, e che quest’ultimo è poi stato considerato per quarant’anni, nell’età del bipolarismo, come il vero e proprio “campo di battaglia” sul quale (stando alle simulazioni dei grandi strateghi dell’età nucleare) lo scontro decisivo tra capitalismo e socialismo, tra stati liberal-democratici e rappresentanti del socialismo reale si sarebbe dovuto risolvere in un finale drammatico che avrebbe visto sopravvivere una sola delle due parti. Dal fatto che, a secolo appena concluso, si possa, per fortuna, verificare che le cose non sono poi andate così (ma sarebbe agevolissimo dimostrare che tutto ciò era stato posto, per quarant’anni al centro dell’analisi internazionalistica) si deduce che la storia dell’Europa è comunque estremamente complessa e le sue vicende meno scontate e ovvie nel loro sviluppo di quanto un punto di vista non-europeo possa immaginare. Anche da questo punto di vista si vede come storia europea e storia mondiale siano tutt’uno.
È infatti addirittura a partire dalla determinazione dei suoi confini che l’Europa sfugge a chi crede di afferrarne il destino in un solo sguardo: ben diversa dalla sua astratta delimitazione geografica, nel corso del XX secolo l’Europa è stata oggetto di molteplici divisioni o distinzioni, oltre che di quella ideologica. Non si dovrà dimenticare infatti che la Gran Bretagna si è molto a lungo “chiamata fuori” rispetto alla politica europea, accettando solo nel 1972 di raggiungere gli altri Stati “occidentali” nell’Unione Europea. A sua volta, la Germania, divisa in due, non ha riacquistato la pace formale fino al 1975 (quando vengono firmati i trattati di pace tra le due metà lacerate dall’esito della guerra mondiale) e la sua unitarietà fino al 1989, con la caduta del muro di Berlino. I Paesi occidentali sono poi risultati contrapposti a quelli dell’Europa orientale, quando quest’ultima indicazione è diventata sinonimo di “Paesi comunisti”. Ma, ironia della sorte, questi stessi Paesi, insieme a praticamente tutti quelli dell’Europa meridionale e alcuni di quella centrale, si erano ritrovati, mezzo secolo prima, accomunati in una sorta di grande “Internazionale nera”, formata da ben 17 Paesi, dall’Atlantico al Mar Nero che si erano affidati al regime fascista per contrastare il pericolo comunista: almeno così parve, ma andrà anche considerato che pochi Paesi svolsero una politica estera altrettanto poco espansionistica o conservativa di quella adottata da Stalin, ben più interessato al “socialismo in un solo paese” che non alla “rivoluzione permanente” di Trockij.
Ma anche tra nord e sud dell’Europa le differenze non sono mai mancate, specie in termini culturali e antropologici. I pregiudizi sulle razze fanno dei Paesi freddi il regno del welfare state e della buona organizzazione sociale e di quelli caldi il trionfo invece di un genialoide pressapochismo: differenze evidenziate anche nelle politiche di accesso all’esperienza unionistica, dato che alcuni Paesi nordici incominciano ad aderire all’Unione Europea non prima della fine del secolo (1995: Finlandia e Svezia; la Danimarca, un po’ meno nordica, aveva seguito la Gran Bretagna nel 1972), mentre quelli meridionali, più socievoli o bisognosi di aiuti, avevano aderito entusiasticamente fin dall’inizio. La stessa storica spaccatura, anche geografica, tra le confessioni religiose prevalenti è stata infine ripresa e rivendicata nel corso del dibattito su una Costituzione unitaria per i Paesi dell’Unione con riferimento alle radici cristiane (quindi unitarie) dei popoli europei, questa volta lacerati, non più da divisioni interne, ma dal grande scontro (questo sì segno di un’età di declino ideale) con il mondo islamico nutrito dal timore della mescolanza delle razze, delle culture, delle società – ciò che invece molti altri considerano come una delle più grandi acquisizioni, forse addirittura conquiste, della storia d’Europa, che in questo modo si dimostrerebbe capace di realizzare l’integrazione tra mondi tradizionalmente contrapposti e conflittuali (nel 1683, i Turchi erano ancora sotto le mura di Vienna).
E così, se volessimo andare alla ricerca dell’identità vera e profonda dell’Europa contemporanea dovremmo rassegnarci (ma non è detto che ciò sia un male: anzi, il pluralismo è sempre benvenuto) a numerarla pirandellianamente come “una, nessuna e centomila”. Definizione azzeccata quanto mai se solo si pensa alla varietà ideale, culturale, scientifica, esistenziale che ha attraversato l’Europa nel secolo del suo declino. Pur mantenendosi il più lontano possibile da qualsiasi eurocentrismo, sarebbe difficile scordare Einstein e la teoria della relatività; Kandinskij e la rivoluzione astratta in pittura; Proust e la trasformazione del romanzo; Schönberg e l’innovazione dodecafonica. Esempi da riferire tuttavia, più che alla telluricità del luogo di nascita di ciascuno di essi, all’universalità del loro ingegno e alla comprovata capacità dell’Europa di nutrire nel suo grembo intelligenze straordinarie. Ciò dovrebbe insegnarci anche a sfuggire ai confronti o meglio a respingerne la territorializzazione, come se esser nati qui o là (un puro caso, come tutti sappiamo) potesse essere trasformato in pregio o in qualità: ma come faremo mai a stabilire se Faulkner sia più grande di Céline, Dos Passos di Thomas Mann, Hemingway di Fenoglio? E come confrontare Juliette Gréco e Joan Baez, Bob Dylan con i Beatles?
Con tutto ciò, va pur anche riconosciuto che l’Europa, diversamente da un secolo fa, non è più effettivamente il “centro” del mondo, avendo essa esaurito le sue capacità egemoniche in due devastanti guerre mondiali che l’hanno dissanguata e declassata. Invece che patirne si potrebbe commentare che in fondo non siamo di fronte a un arretramento dell’Europa ma a una rincorsa del resto del mondo che, recuperando il distacco (ma purtroppo soltanto per la metà occidentale), vede assottigliarsi le differenze tra regioni e tra Stati, incominciando a liberarsi del mito dei popoli-guida. Di tutto ciò, la storia politica internazionale dell’Europa offre una specie di efficacissima e suggestiva sintesi, specialmente se teniamo conto del fatto che al Vecchio Continente è toccato, proprio per la sua precocità, di sperimentare per primo la democrazia come la dittatura, il nazionalismo come il cosmopolitismo, la guerra di trincea come la guerra-lampo, i bombardamenti a tappeto come la Shoah. Non mancano filosofie della storia che saprebbero argomentare perché l’Europa si sia trovata a un certo punto a perdere il ritmo di altre regioni del mondo – Hegel, in fondo, considerando che la Russia ha con l’Europa storica un rapporto ambiguo, aveva ben previsto che il futuro del mondo si sarebbe polarizzato in Stati Uniti e Russia – ma più semplicemente si può pensare che il complesso intreccio che incomincia ad annodarsi nell’Europa della prima metà del XX secolo – che ha visto due guerre mondiali, lo scontro all’ultimo sangue tra ideologie incompatibili prima che tra le due sopravvissute si desse vita a un compromesso, il bipolarismo fondato sulla minaccia dell’autodistruzione atomica – abbia richiesto tali sforzi, tanto all’Europa quanto agli Stati Uniti, che in discussione oggi non sia tanto chi guiderà l’impero universale del futuro, ma a quali condizioni il progresso dell’umanità sia possibile.
Infatti, se da un lato è innegabile che Gran Bretagna e Francia non fanno più parte del “concerto delle grandi potenze” come due secoli prima, e che il cuore del potere mondiale, tanto politico-militare quanto economico-finanziario non risiede più a Londra ma a New York, lo è anche che le nuove linee di forza passano attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali e gli strumenti di produzione piuttosto che attraverso la diplomazia o le trattative segrete. La progressiva egualizzazione delle condizioni di vita, nelle quali il ricorso alla guerra va facendosi sempre più improbabile, nuove forme di uguaglianza, come quella del terrorismo, cieco e casuale, si impongono nell’età di una globalizzazione che ha le sue punte più avanzate fuori dall’Europa, in America e in Asia. Questo tuttavia non garantisce che i livelli di vita (ivi compresi ad esempio i rischi sociali, l’individualismo esasperato, il declino della sicurezza sociale e della solidarietà di gruppo) siano preferibili a quelli europei, sovente più lenti, meno innovativi e capaci di lanciare nuove linee di tendenza, ma forse più solidi e tenaci.
Insomma, il problema non è in quale rango l’Europa si collochi in una ideale gerarchia della potenza (sarebbe forse meglio dire del benessere), ma quanto i suoi cittadini, la maggior parte dei quali è impegnata in un gigantesco esperimento di ingegneria politica come la costruzione di una federazione europea, sappiano dare vita a una società ugualitaria, tollerante, pluralistica e capace di affrontare le innovazioni che nuove scoperte, nuove circostanze di vita, nuove aggregazioni politiche e sociali diffonderanno in un mondo che potrebbe, sotto la guida europea, abbandonare le vie della guerra a favore di quelle della pace. Sembra davvero che lo scettro della guerra e della pace, per millenni impugnato dall’Europa, sia ormai in altre mani. Ma, oltre a non essere ben chiaro né quali siano quelli che lo detengono né se lo sapranno reggere meglio, perché non essere serenamente disposti a condividere le proprie esperienze con il resto del mondo?