L'eta longobarda in Italia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I Longobardi, divisi tra il regno in Italia settentrionale e i ducati autonomi di Spoleto e Benevento, compiono un’eccezionale sintesi culturale rielaborando i linguaggi artistici dei locali monumenti classici, insieme ad apporti bizantini e occidentali.
È ben noto il verso del coro del IV atto dell’Adelchi che tramanda una visione aggressiva e selvatica dei Longobardi “Cui fu prodezza il numero, / Cui fu ragion l’offesa, / E dritto il sangue, e gloria / Il non aver pietà”. Alla retorica antiaustriaca di Alessandro Manzoni fa gioco ignorare la straordinaria operazione di sintesi culturale espressa anche in campo artistico da questo popolo germanico.
La frangia meno conservatrice delle élite longobarde poco dopo la discesa in Italia inizia a patrocinare la fondazione di chiese e palazzi riccamente decorati, rielaborando creativamente il linguaggio formale dei monumenti preesistenti. La regina Teodolinda fa decorare il proprio palazzo di Monza con pitture dedicate alla storia della propria gente, secondo un gusto epico di classica memoria. Purtroppo ce ne resta solo la testimonianza dellHistoria Langobardorum (Lib. IV, 22) di Paolo Diacono. Agilulfo, suo secondo marito, è il primo sovrano longobardo a poter rivendicare una relativa autorità sul costituendo regno. E lo fa attingendo con spregiudicatezza al repertorio iconografico imperiale romano e bizantino, disponendo la propria rappresentazione sul frontale di un elmo in rame dorato (Firenze, Museo del Bargello) assiso in trono, in posa frontale, affiancato da una scorta armata e da vittorie alate, secondo moduli paratattici simili a quelli del rilievo dell’Arco di Costantino. La capitale è stabilita a Pavia, già sede di un palazzo del sovrano goto Teodorico che viene ristrutturato e ampliato. Qui il re Pertarito e la consorte Rodelinda fondano la perduta chiesa di Santa Maria alle Pertiche. Disegni e planimetrie settecenteschi testimoniano l’originalità della sua architettura che imprime al classico edificio a pianta centrale un insolito slancio verticale per mezzo dell’altissimo tamburo sul quale si imposta la cupola. Liutprando in seguito fa erigere a Pavia una nuova reggia con annessa cappella, secondo una consuetudine mutuata dalla corte imperiale bizantina, dedicata a sant’Anastasio e arredata con marmi e colonne fatti venire da Roma.
Sappiamo poco della cappella palatina di Liutprando, ma forse si può tentare di immaginarne per sommi capi l’aspetto sulla falsariga del cosiddetto Tempietto di Santa Maria in Valle a Cividale del Friuli, ancora discretamente preservato. Secondo una plausibile ipotesi, l’oratorio faceva parte della residenza del gastaldo, rappresentante del sovrano, ed era quindi una fondazione regia, forse attribuibile al re Astolfo, già duca di Cividale. È una piccola aula dai volumi semplici ma monumentali, conclusa da un presbiterio tripartito da colonne. L’interno esibisce un articolato programma ornamentale, con una sapiente integrazione tra pittura, stucchi e mosaici, perduti, a rivestire le volte. Le pareti sono scandite da iconiche figure dipinte – un Cristo tra Arcangeli, una Madonna con Bambino e una serie di santi – debitrici della cultura figurativa bizantina tanto nelle scelte iconografiche che nello stile. Le pitture sono inquadrate da cornici in stucco modellate secondo un repertorio di motivi vegetali e geometrici esuberante, ma di sorvegliatissima esecuzione. Al culmine della parete di fondo è schierata la celebre teoria di sante martiri, sempre in stucco, che con il loro possente modellato quasi tridimensionale sembrano rievocare l’antica statuaria a tutto tondo da tempo scomparsa. Queste insolite figure potrebbero trovare un modello nei rilievi in stucco degli apostoli disposti come statue entro nicchie alla base della cupola del ravennate Battistero degli Ortodossi, circa tre secoli prima. I monumenti romani e bizantini di Ravenna, presa da Astolfo nel 750, devono essersi imposti all’immaginario dei conquistatori longobardi come massimo esempio dell’arte imperiale, innescando un fenomeno di emulazione e di appropriazione, anche materiale.
Cividale del Friuli conserva un altro monumento indicativo di un orientamento artistico radicalmente alternativo a quello espresso nel Tempietto. Si tratta dell’altare di Ratchis che prende il nome dal duca Ratchis, fratello di Astolfo, citato nella lunga iscrizione incisa in margine alle lastre di cui è composto. Presenta raffigurazioni su tutte e quattro le facce: sul fronte una Maestà di Cristo, sui lati la Visitazione e la Adorazione dei Magi, sul retro, a inquadrare l’apertura per le reliquie, due grandi croci. La definizione delle figure è affidata a un rilievo scultoreo bassissimo e a un insistito partito lineare, incurante delle anatomie che, anzi, sono stravolte anche nelle proporzioni e nei dettagli a favore di una resa espressionistica. L’estrema finitezza dell’opera, per di più completata da una festosa policromia di cui rimangono solo tracce, parla di una sapiente manifattura deliberatamente improntata a un registro anticlassico.
La stessa sontuosa integrazione tra decorazione pittorica e rilievi in stucco riscontrata nel tempietto di Cividale caratterizza la chiesa di San Salvatore a Brescia, rinnovata in forme monumentali e decorata da cima a fondo su committenza di re Desiderio e di sua moglie Ansa. Non molto si è conservato del grandioso complesso, dunque è possibile ricostruirne il programma figurativo solo per sommi capi. Le pareti della navata centrale dovevano concludersi in alto con una teoria di archetti su mensole in stucco, reinterpretazione delle architetture illusionistiche della pittura di età classica. Le pitture del registro centrale sono dedicate a un ciclo cristologico, mentre i registri sottostanti presumibilmente illustrano la vita delle sante martiri Spes, Fides e Charitas, già venerate a Cividale, lungo la parete nord, e, sul lato opposto, quella di santa Giulia, le cui reliquie erano custodite nella cripta. Infine gli spazi di risulta tra gli archi della navata ospitano busti di santi circondati da clipei, come nelle antiche basiliche romane di San Paolo e San Pietro. È probabile che le aureole delle figure principali fossero state eseguite a rilievo, in stucco, e una onnipervasiva decorazione in rilievi di stucco rivestiva anche i sottarchi e le ghiere. A complemento di un programma così ambizioso dovevano essere stati rinnovati anche gli arredi liturgici da cui provengono una lastra trapezoidale e due frammenti in marmo, conservati presso il museo di Santa Giulia. Sulla lastra è scolpito un pavone dal piumaggio eseguito con un’accuratezza pittorica tale da rasentare la mimesi con la plastica bizantina, mentre lungo il bordo inferiore scorre un motivo a intreccio di ascendenza nordica, forse appreso dalla miniatura irlandese. Bisogna a questo proposito ricordare che risale al patrocinio di Agilulfo la fondazione nel 630 del monastero di San Colombano a Bobbio, avamposto del monachesimo irlandese in Italia. Le lastre bresciane costituiscono un significativo esempio della sintesi culturale maturata dalle élite longobarde nella fase di massimo splendore, destinata di lì a breve a una brusca interruzione. Infatti sarà proprio Desiderio a soccombere al franco Carlo Magno.
Qualche brano delle pitture del Santissimo Salvatore di Brescia è stato messo a confronto con quelle conservate nella chiesa di Santa Maria foris Portas, presso l’odierna Castelseprio, non lontano da Varese. L’antico borgo di Seprio vede succedersi a un insediamento longobardo i Franchi che, nel IX secolo, lo costituiscono in contea. La qualità straordinaria di queste pitture, priva di confronti, e l’assenza di puntuali elementi datanti, ne hanno fatto uno dei casi della storia dell’arte medievale italiana. All’interno dell’abside si dispongono su due registri storie della Vergine, tratte dal Vangelo apocrifo di Giacomo, e dell’Infanzia di Cristo. La narrazione è interrotta da un tondo con il busto di Cristo barbuto e, in posizione apicale, dal trono vuoto della seconda venuta apocalittica, verso cui volano due angeli. La datazione di queste pitture ha coinvolto un esteso arco cronologico compreso tra gli inizi del VI secolo e il pieno X secolo, così come per i loro esecutori si è indicata una provenienza siriaca, costantinopolitana o franca, senza comunque metterne mai in discussione la piena confidenza con la coeva cultura figurativa bizantina. In tempi recenti il dibattito si va polarizzando su una forbice meno ampia, tra un’attribuzione all’iniziale VIII, ancora in età longobarda, o agli anni Quaranta del IX secolo, ormai in età carolingia.
Il ducato di Spoleto rimane a lungo indipendente rispetto al regno longobardo, al quale si assoggetta solo nel 729. La politica d’immagine dei suoi duchi però eguaglia quella dell’aristocrazia della Langobardia maior nell’attivo evergetismo a favore di chiese e monasteri.
Faroaldo II, regnante fino al 720, promuove la fondazione dell’abbazia di San Pietro in Valle, presso Ferentillo, nella cui chiesa si conserva una serie di sarcofagi romani forse destinati alla sepoltura del duca e dei suoi familiari. Questa pretesa classicheggiante contrasta con il rilievo scolpito su una lastra reimpiegata come paliotto d’altare nella medesima chiesa. Forse pertinente a una recinzione presbiteriale, la lastra è provvista di un’iscrizione che ne rivendica la committenza di Ilderico Dagileopa, duca di Spoleto tra il 739 e il 742, e l’esecuzione di un Ursus magester (sic). I buffi personaggi abbigliati solo con corti gonnellini intendono probabilmente essere una loro raffigurazione, in posa di oranti, inquadrati da arcate intervallate da alberi stilizzati con i fusti resi come filari di astragali e fuseruole. Sullo sfondo di un’arcata si distingue il tema antico di una coppia di uccelli affrontati a un cantaro. Ogni spazio vuoto è caoticamente saturato da motivi ornamentali e il rilievo è piatto o appena inciso. Sembra un collage di elementi classici desunti dai sarcofagi cristiani e riproposti in un linguaggio formale del tutto diverso.
È difficile conciliare il rilievo di questa lastra con il cosiddetto Tempietto sul Clitunno, situato a nord di Spoleto sul percorso antico della via Flaminia. Il piccolo sacello esibisce una manifesta funzione cristiana nella grande croce sul frontone e nella dedica al Salvatore, iscritta sulla sottostante trabeazione. Ciononostante, ricalca le forme di un tempietto corinzio tetrastilo in antis con una padronanza del lessico architettonico e scultoreo romano così credibile da avere a suo tempo tratto in inganno persino Andrea Palladio, profondo conoscitore dell’architettura, che lo iscrive in un florilegio di templi romani. Ancora oggi la sua datazione è tutt’altro che pacifica e diverge verso due distinti ambiti cronologici e culturali: da una parte se ne suppone una pertinenza agli anni a cavallo tra il V e il VI secolo, ancora in periodo tardoantico; da un’altra è ritenuto una fondazione longobarda, in un periodo compreso tra il VII e l’VIII secolo, prima della conquista carolingia. La cella termina con un’abside introdotta da un timpano su colonne, perdute, a comporre un fastigium, elemento tipico dell’architettura imperiale romana. Il fastigium offre un degno inquadramento alle immagini dipinte nell’abside: nella calotta compare un Salvatore benedicente a mezzo busto, con il codice gemmato; ai due lati dell’emiciclo sono collocati in posizione simmetrica due grandi busti dei santi Pietro e Paolo, incorniciati come icone. Al culmine della parete absidale due busti di angeli circondati da clipei affiancavano una croce gemmata non più visibile. Le icone dei principi degli apostoli, di intensa qualità fisiognomica, trovano un convincente confronto con le pitture del presbiterio della chiesa romana di Santa Maria Antiqua, eseguite all’epoca di Giovanni VII, a favore di una loro datazione alla stessa epoca, agli inizi dell’VIII secolo, o un po’ prima, sullo scorcio del secolo precedente.
In concomitanza con il consolidamento dei domini longobardi in nord Italia, a partire dal VI secolo, la città di Benevento è designata capitale di un ducato comprensivo di un ampio settore dell’Italia meridionale, indipendente rispetto al regno settentrionale. Il governo ducale di Arechi II ne inaugura la fase più ambiziosa.
Agli esordi del proprio regno Arechi patrocina la fondazione della chiesa di Santa Sofia, emula già nel nome della costantinopolitana Hagia Sophia da cui mutua anche l’impostazione planimetrica a pianta centrale, declinata secondo un’insolita configurazione a forma di stella. La chiesa doveva essere interamente rivestita di pitture, forse eseguite già entro il 768, a illustrazione di un ciclo cristologico. Rimangono sufficientemente leggibili solo i brani dipinti nelle absidi minori. Quella di sinistra conserva gli episodi ispirati dal Vangelo di Luca dell’Annuncio a Zaccaria, quando l’angelo anticipa la futura nascita del Battista, e del Silenzio di Zaccaria, miracolosamente ammutolito per non aver creduto al messo divino. Nell’abside di destra si sono preservate un’Annunciazione a Maria, frammentaria, e una Visitazione. Sono pitture di notevole qualità, che riescono a coniugare monumentalità e animazione con un linguaggio formale privo di riscontri. Se ne cercano le matrici nella cultura del monastero di Montecassino, importantissimo centro monastico in vivaci rapporti con la élite longobarda beneventana. Sono proprio gli scambi fecondi tra Benevento e i monasteri del territorio culturalmente più attivi ad alimentare quello che si configura come un fenomeno innovativo con peculiari caratteri propri, destinato a coinvolgere tutta la Langobardia Minor. Ne sono testimoni le pitture della cripta dell’abate Epifanio presso la chiesa monastica di San Vincenzo al Volturno, datate tra 824 e 842, quelle della Cripta del Peccato Originale, nei paraggi di Matera, e quelle del cosiddetto Tempietto di Seppanibale, presso Fasano, in provincia di Brindisi. Siamo ormai nel IX secolo, la Langobardia Maior è caduta in mano franca e Benevento rimane la sola orgogliosa erede della civiltà longobarda.