L'Eta dei Lumi: le scienze della vita. Tardo iatromeccanicismo e animismo: Boerhaave, Hoffmann, Stahl
Tardo iatromeccanicismo e animismo: Boerhaave, Hoffmann, Stahl
Il termine 'microstrutturismo' indica una particolare convergenza di teorie e di metodi sviluppatasi nella seconda metà del XVII sec., quando la diffusione del microscopio e lo sviluppo dell'anatomia microscopica portarono alla formulazione delle dottrine iatromeccanistiche dell'essere vivente. Già nel 1656, il medico francese Pierre Borel, nel suo De vero telescopii inventore […] Accessit etiam centuria observationum microscopicarum, annunciava che ben presto, grazie al microscopio, si sarebbe potuto scoprire che "il cuore, i reni, i testicoli, il fegato e gli altri parenchimi del corpo sono costituiti da ammassi di organuli e fibre" (Grmek 1990, p. 171). La realizzazione di questo programma fu intrapresa nel decennio successivo con la stesura di numerosi trattati ‒ tra i quali il De pulmonibus (1661) di Malpighi, l'Exercitatio anatomica de structura et usum renum (1662) di Bellini, il De musculis et glandulis specimen (1664) di Steensen, il De ratione motus musculorum (1664) di Croone, il De cerebri anatome (1664) di Willis ‒ seguiti ben presto dalle pubblicazioni di Malpighi sulla struttura del cervello, della lingua e degli organi tattili. Nel 1665 Robert Hooke pubblicò la Micrographia e Steensen pronunciò il Discours sur l'anatomie du cerveau (dato alle stampe nel 1669). Il De structura viscerum (1666) di Malpighi, la seconda monografia miologica (1667) di Steensen e il Tractatus de corde (1669) di Richard Lower completano il quadro delle grandi opere di questa generazione.
La 'mentalità micrologico-strutturistica' ‒ secondo un'espressione di Luigi Belloni (1975) ‒ era alla base di una concezione in qualche modo decentralizzata dell'organismo vivente, visto come un insieme di minuscole macchine dotate di strutture e di proprietà specifiche; solamente la combinazione e l'integrazione di questi elementi, che l'analisi anatomica e fisiologica avevano il compito di rivelare, avrebbero permesso di comprendere il vivente nell'esercizio globale delle sue funzioni. Questo programma fu caratterizzato sul piano formale da due elementi empirici, che ne spiegano anche l'improvvisa diffusione nel corso del decennio 1660-1670: (a) il concentrarsi dell'analisi sulla fibra, come struttura essenziale ed elementare di una pluralità di organi; (b) il ricorso alla scomposizione in microparticelle (resolutio ad minutum), ottenuta attraverso diversi strumenti analitici e in primo luogo con l'osservazione al microscopio. La linea metodologica seguita prevalentemente, anche se non in modo esclusivo, dagli studiosi appartenenti a questa corrente fu l'adesione a una forma particolare di meccanicismo. Esso ‒ com'è noto ‒ era fondato sui postulati elementari di una fisica di tipo corpuscolare, in particolare sulla distinzione tra qualità primarie (estensione, figura, mobilità, solidità) e secondarie (odori, sapori, colori, ecc.) dei corpi e sulla derivazione di queste ultime dalle prime. Questa struttura di base fu arricchita dal ricorso a vari modelli geometrici, derivati da Galilei, da Descartes o dai loro discepoli, e la stessa molteplicità dei modelli utilizzati testimonia il carattere pragmatico della scelta di un particolare stile esplicativo.
Gli esponenti principali del microstrutturismo nella versione meccanicistica dominante, i primi iatromeccanici, furono gli italiani Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679), Marcello Malpighi (1628-1694), Lorenzo Bellini (1643-1704), Giovanni Domenico Guglielmini (1655-1710) e il danese Niels Steensen (Stenone, 1638-1686): da questo gruppo iniziale derivarono per filiazione diretta tutte le principali scuole fisiologiche dell'inizio del XVIII sec., dominate dalla personalità e dall'opera di Herman Boerhaave di Leida e di Friedrich Hoffmann di Halle. Sarebbe sbagliato, tuttavia, ridurre il microstrutturismo a una dottrina rigidamente meccanicistica, dal momento che a questa scuola afferirono indubbiamente anche alcuni ricercatori che non esitarono a inglobare nei propri modelli teorici nozioni irriducibili alla stretta intelligibilità dei concetti geometrico-meccanicistici. Ciò è particolarmente vero nel caso dei fisiologi inglesi che, pur proseguendo la tradizione inaugurata dall'aristotelico Harvey, in parte si lasciarono suggestionare dalle teorie chimiche e helmontiane, e in parte svilupparono concezioni originali di stampo 'vitalista'; le teorie elaborate da studiosi quali Francis Glisson (1597-1677), William Croone (1633-1684) e Thomas Willis (1621-1675), appaiono infatti per molti aspetti stilisticamente composite e difficilmente interpretabili, malgrado l'adesione di questi fisiologi al programma di ricerca microstrutturista. Un posto a parte merita anche la figura dello iatromeccanico Giorgio Baglivi (1668-1707) che, alle soglie del XVIII sec., integrò nella propria teoria fibrillare alcuni schemi di tipo dinamico che implicavano il superamento del meccanicismo in senso stretto.
Il programma microstrutturista si avviava così verso una svolta fondamentale, con l'apertura all'analisi del campo delle proprietà vitali inerenti alle strutture elementari. A questa versione riveduta e sistematizzata della fisiologia meccanicistica, dominante agli inizi del XVIII sec., si oppose la critica radicale di Georg Ernst Stahl, che esercitò la professione medica dapprima a Halle e poi a Berlino. Rendendosi conto delle difficoltà inerenti al tentativo di spiegare meccanicisticamente la genesi, la conservazione e il funzionamento dell'essere vivente, Stahl propugnò infatti una dottrina originale dell'organismo basata sull'idea di anima, intesa come principio di intellezione e di azione. L'animismo veniva così a porsi in antitesi con lo iatromeccanicismo, dando origine a diverse forme di vitalismo; e la fisiologia, considerata fino a quel momento una disciplina medica subordinata alla patologia oppure una semplice appendice della fisica, uscì tramutata da questo conflitto divenendo scienza autonoma del funzionamento dell'essere vivente. Albrecht von Haller (1708-1777) prenderà atto di questa trasformazione negli Elementa physiologiae corporis humani (1757-1766), opera nella quale sono esposti i principî della teoria fisiologica del secolo dei Lumi, dominati dalla problematica delle proprietà vitali riconducibili alle strutture elementari dell'organismo.
Herman Boerhaave (1668-1738), professore all'Università di Leida, fu il capostipite di una delle principali tradizioni di ricerca in campo fisiologico; tra i suoi allievi figurava lo stesso Haller, e Julien Offroy de La Mettrie (1709-1751) si richiamava alla sua autorità per avallare la propria teoria materialistica esposta ne L'homme machine (1748). Eminente pedagogo, esperto tanto di medicina quanto di botanica e di chimica, Boerhaave nella sua opera offrì la sintesi più nota e più caratteristica del tardo iatromeccanicismo; benché possa essergli rimproverata la mancanza di originalità delle sue ricerche, non si deve tuttavia dimenticare che il suo intento era soprattutto quello di redigere, per tutte le questioni principali, un inventario delle tesi che gli sembravano più fondate, sia per la qualità delle osservazioni su cui si basavano, sia per il rigore dimostrativo dell'interpretazione proposta. Era naturale, quindi, che egli facesse ricorso a numerosi contributi contemporanei, in particolare a quelli dei primi iatromeccanici, sottoponendoli a una critica rigorosa. La sua opera presenta peraltro molti aspetti realmente innovativi e Boerhaave fu tra i primi a orientare la ricerca medica verso l'osservazione clinica, avviando così una rivoluzione teorica e pratica che alle soglie del XIX sec. culminerà nella Scuola di Parigi. Mentre in un primo momento egli costruiva i propri modelli interpretativi sulla base di una fisica meccanicistica di stampo cartesiano, in seguito divenne sempre più consapevole dell'importanza del contributo che le analisi chimiche potevano offrire alla conoscenza dei processi organici; e infine fu anche uno dei primi a tentare di applicare alla scienza del vivente la metodologia newtoniana e i concetti teorici della nuova filosofia della Natura a essa collegati.
Nelle Institutiones medicae, pubblicate per la prima volta nel 1708 e servite da modello a tutti i trattati di fisiologia del XVIII sec., Boerhaave descriveva così i rapporti di interazione tra i solidi e i fluidi che compongono l'animale:
Gli elementi solidi possono essere sia dei vasi che contengono gli umori, sia degli strumenti costruiti, modellati e collegati tra loro in modo tale da consentire, grazie alla loro particolare fabbricazione, l'esecuzione di determinati movimenti, qualora sopraggiunga una causa motrice. Nel corpo ritroviamo in effetti sostegni, colonne, bastioni, tegumenti, corde, leve, fulcri di leve, pulegge, presse, setacci, filtri, canali, conche e bacini. La facoltà di esercitare certi movimenti per mezzo di tali strumenti si chiama funzione; queste funzioni possono essere esercitate soltanto nell'ambito delle leggi meccaniche, ed è solo nell'ambito di queste stesse leggi che possono essere spiegate. Le parti fluide sono contenute in quelle solide, messe in movimento, determinate nel loro moto, mescolate, separate, modificate. Esse muovono a loro volta i vasi, con gli strumenti che vi sono collegati; ne consumano e trasformano le pareti, riparando i guasti che vi hanno prodotto. Queste azioni avvengono secondo le leggi idrostatiche, idrauliche e meccaniche. Dobbiamo dunque spiegarle in conformità con queste leggi, una volta che si sia giunti a conoscere la natura particolare di ciascun umore e le azioni che da esso dipendono esclusivamente, come ci insegnano le più diverse esperienze. (ed. 1713, parr. 40-41)
L'organismo era costituito insomma dall'integrazione di due elementi di tipo diverso: le parti solide fungevano da contenitori delle parti liquide che, a loro volta, fornivano la forza motrice, come nelle macchine idrauliche. Questo modello, tuttavia, aveva una portata limitata nello stesso sistema di Boerhaave, dato che la struttura interna dei fluidi, che, come quella dei solidi, si presumeva essere di tipo corpuscolare, sfuggiva all'osservazione.
La condizione per una fondazione definitiva della teoria fisiologica era quindi la conoscenza preliminare della natura particolare di ciascun umore e delle azioni da esso regolate. La funzione, oggetto della ricerca fisiologica, corrispondeva al modo in cui le strutture anatomiche agivano le une sulle altre e, in particolare, al modo in cui i fluidi vitali determinavano, grazie ai movimenti interni dei loro costituenti, le diverse modificazioni delle parti solide. Certo, le leggi fisiche si applicavano integralmente ai movimenti dell'essere vivente, sia a quelli delle sue parti fluide sia a quelli delle sue parti solide, ma tra la rappresentazione dei processi osservabili e la spiegazione dei movimenti impercettibili propri delle particelle submicroscopiche, in particolare di quelle dei fluidi, si inseriva inevitabilmente una certa dose di speculazioni analogiche e di ipotesi, riguardanti tanto la natura dei diversi elementi, quanto il modo in cui questi si integravano in un insieme organizzato in senso funzionale.
Su cosa si fondavano tali ipotesi? Sui dati empirici relativi ai fenomeni caratteristici dei diversi umori nei loro rapporti con i solidi organici e sull'interpretazione dei processi vitali secondo modelli geometrico-meccanicistici. Sul piano filosofico, infatti, Boerhaave sosteneva, certo, il principio dell'interazione dell'anima e del corpo nell'esercizio di un determinato numero di funzioni superiori proprie dell'essere umano, ma questo non pregiudicava affatto la sua adesione metodologica al meccanicismo. Nonostante fosse postulata una reale interazione dell'anima e del corpo, non vi era ancora traccia di una tendenza verso una concezione psicosomatica della fisiologia: il ricorso ai modelli meccanicistici e la spiegazione di tutti i fenomeni fisiologici con il gioco delle strutture in movimento restavano imprescindibili, né ci si domandava fino a che punto il riduzionismo materialistico potesse dar conto della realtà dell'essere vivente.
Il programma della nuova fisiologia è esposto chiaramente da Boerhaave nella prolusione Sermo academicus de comparando certo in physicis (1715): "Cercherò di difendere l'idea che i principî delle cose [organiche] rimangono per noi totalmente sconosciuti e che solamente attraverso i loro tratti osservabili impariamo a conoscere le proprietà dei corpi, sia quelle di cui abbiamo esperienza diretta, sia quelle di cui, a partire dall'esplorazione preliminare di questi stessi tratti osservabili, possiamo stabilire l'esistenza con la solidità del ragionamento geometrico" (pp. 2-3).
Boerhaave criticava gli iatromeccanici della prima generazione per avere tentato una pura applicazione a priori del meccanicismo alla fisiologia e, nel discorso accademico De usu ratiocinii mechanici in medicina (1703), proponeva al contrario "di partire dalle nozioni che l'osservazione ci fornisce riguardo agli elementi costitutivi dell'uomo e di fondare in seguito su questi dati i principî di una scienza, applicando a essi il metodo meccanicistico" (Opuscula selecta, I, p. 187). L'osservazione degli effetti prodotti dai e nei corpi organici permetteva di stabilire i tratti specifici dei fenomeni oggetto di studio, e questi tratti osservabili corrispondevano ad altrettante proprietà che, nel loro insieme, determinavano la natura specifica di un particolare sistema organico.
In base ai principî della meccanica, la correlazione delle proprietà possedute da un certo dispositivo anatomico consentiva di dedurre l'esistenza di altri effetti. In breve, si trattava di applicare al corpo umano le leggi valide per tutti i corpi, tenendo conto però della specificità dei fenomeni che si verificavano nelle strutture complesse del vivente. Tale specificità si manifestava grazie all'analisi microscopica e attraverso l'osservazione dei movimenti dell'insieme dei fluidi o umori presenti nell'organismo e dei dispositivi che ne regolavano la circolazione. Non esisteva un privilegio essenziale del corpo umano rispetto alla composizione materiale degli altri corpi ‒ tesi che sarà sfruttata da La Mettrie ne L'homme machine ‒ ma le leggi riguardanti la massa, la densità, la connessione delle parti e la trasmissione del movimento si esercitavano su un insieme fortemente integrato le cui strutture complesse apparivano, almeno provvisoriamente, non riducibili.
Alla fine del De usu ratiocinii mechanici in medicina, Boerhaave tracciò un dettagliato ritratto del medico-sapiente, incarnazione del suo metodo: questo medico ideale doveva dedicarsi in primo luogo allo studio della meccanica dei corpi semplici e dei loro movimenti, quindi avrebbe intrapreso l'osservazione approfondita e scrupolosa delle strutture anatomiche, sia dal vivo sia sui cadaveri; poi, applicando all'organismo i principî meccanicistici precedentemente appresi, doveva tentare di scoprire, a partire dagli effetti osservabili, le proprietà funzionali relative ai diversi dispositivi organici e, inoltre, doveva impadronirsi di tutte le conoscenze empiriche relative ai fluidi vitali offertegli dall'anatomia, dalla chimica e dall'idrostatica.
Egli individua, stabilisce, mette a confronto tra loro tutti questi dati particolari, servendosi delle leggi della meccanica; elevandosi lentamente, giunge alla spiegazione dei fenomeni che i suoi sensi e la sua ragione gli hanno fatto scoprire. Così, da ogni effetto risale alle cause prossime; il carattere proprio degli elementi che le compongono, determinato dall'osservazione e dal confronto tra i fenomeni, permette di spiegare la natura di queste cause, natura che a poco a poco viene ricostruita nella sua integrità. (ibidem, pp. 191-192)
In breve, non c'erano elementi che si opponessero in linea di principio alla fondazione di una fisiologia meccanicistica, anche se, sull'esempio dei newtoniani, si potevano postulare alcune incognite esplicative relative ai dispositivi organici elementari e alle loro proprietà, responsabili dei processi propri dei sistemi organici complessi. Secondo una categoria interpretativa di Thomas Hall (1968), Boerhaave avrebbe suggerito dunque il ricorso, in questo stadio, ad 'analoghi fisiologici' delle forze specifiche newtoniane. La realizzazione di questo obiettivo fu tuttavia piuttosto problematica. In primo luogo, l'uso intempestivo di spiegazioni fisiologiche basate su una teoria vascolare generalizzata dimostrava la persistenza di una costruzione speculativa e aprioristica dei modelli, malgrado la volontà di trarre profitto dalle conoscenze empiriche disponibili espressa da Boerhaave. Egli, sulla base delle osservazioni di Malpighi sulla natura dei capillari, giunse a definire, secondo un metodo analogico, tutta la struttura dei solidi fisiologici in termini di arteriole, rami linfatici, vasi sierosi e venule. Partendo dalle descrizioni malpighiane relative alla struttura follicolare delle ghiandole e dalle osservazioni di Frederik Ruysch (1638-1731) tese a generalizzare il modello vascolare a tutti i dispositivi secretori, propose di applicare a ogni struttura organica lo stesso modello, già inficiato dall'uso di analogie sospette: "Queste arterie, queste vene, questi canali linfatici e i loro annessi […] trasferiteli nel tessuto membranoso, inseritevi dei nervi, applicategli delle fibre elastiche, appallottolate il tutto e avrete la struttura della ghiandola […]. Comprendete l'importanza di questa dimostrazione? Il corpo è costituito pressoché interamente da un aggregato di ghiandole!" (ibidem, p. 155).
La teoria del muscolo rappresentava un esempio di questa generalizzazione della struttura vascolare: il tessuto muscolare era scomposto in fibre che riproducevano su scala ridotta la struttura globale dell'organo stesso. In ultima analisi, la fibra era concepita come uno stretto canale nervoso dalle pareti soggette a dilatazione e contrazione per effetto del succo nerveo, il più sottile dei fluidi organici. Questo sviluppo sistematico dell'analogia nella spiegazione delle strutture solide era tuttavia del tutto arbitrario.
Il ricorso alla sistematizzazione a priori è ancora più evidente nella concezione dei fluidi organici che, con i loro movimenti, governavano e conservavano la vita. L'applicazione delle leggi della meccanica a questi fluidi era resa possibile ipotizzando l'esistenza di corpuscoli, la cui aggregazione formava il corpo liquido: questi corpuscoli erano concepiti a tutti gli effetti come solidi e la loro azione reciproca era spiegabile in termini geometrici e meccanici. Da qui la possibilità, una volta avuto accesso alla struttura elementare, di stabilire, per dimostrazione certa, le leggi che regolavano il funzionamento e la composizione dei fluidi vitali. Tuttavia, ogni fluido vitale sembrava possedere, al di là delle determinazioni meccaniche generali, proprietà specifiche di elasticità, peso, densità, viscosità, adesività, velocità e direzione; ed erano proprio queste specificità della struttura interna a determinare l'economia delle funzioni vitali. Ma era possibile costruire modelli adeguati? Per farlo, si doveva prima formulare una valida teoria dei processi vitali, che non si limitasse a una rigida applicazione dei principî dell'idrostatica; Boerhaave si accontentò quindi di presumere che si potesse fare a meno di un'analisi così dettagliata, e di servirsi di un modello generale e schematico che ignorasse la specificità dei fenomeni interni all'economia vitale, in particolare quelli chimici. "Di fatto, i fenomeni di cui il nostro corpo, sano o malato, è teatro sono molto più sovente il risultato delle proprietà generali dei liquidi, studiate dai geometri, che non delle condizioni interne, difficilmente osservabili e prodotte per lo più dall'opera degli stessi chimici" (ibidem, p. 165). Perché dunque non ignorare del tutto tali condizioni accessorie?
Nella realizzazione del suo progetto, Boerhaave attenuò quindi di molto le esigenze metodologiche da lui stesso poste in partenza, scegliendo di dedurre le cause prossime dei fenomeni vitali in base a un modello univoco e riduttivo del movimento dei fluidi vitali e di ignorare le procedure, giudicate troppo indeterminate, che sarebbero state necessarie per una reale scomposizione analitica rispettosa della complessità del vivente. Così facendo, accettò implicitamente di sospendere quella inferenza a posteriori che avrebbe consentito di avvicinare il modello meccanicistico alla complessità del fenomeno osservato e introdusse nella spiegazione alcune ipotesi meccanicistiche, fondate sulle analogie che gli sembravano più plausibili.
Nella fisiologia di Boerhaave, la modellizzazione meccanicistica è presentata come l'unica via per raggiungere una spiegazione intelligibile delle funzioni vitali, ma nel passaggio dall'enunciazione dei principî alla loro applicazione, i modelli boerhaaviani non appaiono all'altezza degli obiettivi prestabiliti. Sono questi stessi modelli a suggerire tuttavia le modalità del loro superamento. Nel commentario di Haller alle Institutiones del suo maestro, pubblicato nelle Praelectiones academicae (1739-1744), sono abbozzate le norme di un nuovo tipo di analisi, volto a mettere in relazione le proprietà specifiche manifestate dai diversi dispositivi organici con ragioni sufficienti di tipo nuovo, direttamente legate all'esperienza delle strutture e dei processi in gioco. L'individuazione di tali ragioni sufficienti sarebbe potuta avvenire solamente attraverso uno sforzo di interpretazione dei fenomeni volto a stabilire le proprietà essenziali e irriducibili dei diversi dispositivi strutturali; e tra queste proprietà, quelle caratteristiche dei diversi tipi di fibre avrebbero dovuto articolare la spiegazione e servire da 'principî' per lo sviluppo di una nuova teoria, più conforme a una metodologia di tipo newtoniano.
L'opera di Friedrich Hoffmann (1660-1742), professore all'Università di Halle, illustra in modo esemplare i contenuti del tardo iatromeccanicismo, con la sua audacia speculativa e i suoi problemi metodologici. Dall'esame delle sue opere principali, Fundamenta medicinae ex principiis naturae mechanicis, del 1695, e Medicinae rationalis systematicae, pubblicata tra il 1718 e il 1741, si desume che per Hoffmann l'idea stessa di un sistema meccanicistico dell'essere vivente implicava la necessità di servirsi di modelli fisico-chimici adeguati a rappresentare la meccanica vitale. Le generalizzazioni di tipo induttivo, fondate sull'osservazione dei fenomeni, restavano una delle basi della fisiologia scientifica, ma la spiegazione degli stessi fenomeni richiedeva un procedimento deduttivo a partire dai principî generali, geometrici e meccanici, della filosofia della Natura.
L'accento posto su una certa meccanica vitale, in particolare quella legata alla circolazione dei fluidi, e le ricerche microstrutturistiche dell'anatomia sottile potevano agevolare il raggiungimento di questo obiettivo. Nella prefazione all'opera Medicinae rationalis systematicae, per esempio, Hoffmann affermava:
Ho tratto dalla meccanica i principî e le ragioni necessarie alla spiegazione di diversi fenomeni dell'economia animale. In effetti, era del tutto naturale ricercare queste ragioni in una scienza che ha per oggetto la conoscenza dei movimenti, della loro natura, delle loro cause e delle leggi che li regolano, conoscenza che essa applica a tutti i casi immaginabili. Dopo la scoperta della circolazione del sangue e le innumerevoli altre scoperte che hanno permesso all'Anatomia di progredire prodigiosamente, non si oserà più negare che dal movimento del sangue e dei solidi sia possibile dedurre le cause della vita e della morte, della salute e della malattia. (ed. Bruhier, I, p. LXXXII)
Tuttavia, poiché si trattava dei fenomeni vitali, questa deduzione poteva essere tratta soltanto servendosi di modelli analogici che presupponessero un'organizzazione particolare dei corpuscoli costitutivi dei corpi solidi e fluidi, come pure una particolare coordinazione delle interazioni di questi corpuscoli. Questi modelli potevano essere ritenuti validi solamente nella misura in cui rendessero possibile una spiegazione dei fenomeni organici sulla base della composizione corpuscolare e dei movimenti che ne dipendono, escludendo l'intervento di qualsiasi principio di tipo psicologico.
All'epoca della pubblicazione dei Fundamenta, Hoffmann si serviva del concetto di 'etere' quale principio materiale animatore delle strutture organiche e s'ispirava alla fisica di Robert Boyle, secondo la quale le particelle più sottili immanenti ai fluidi della natura esterna e responsabili in particolare della luce, del calore e della proprietà pneumatica (ressort) dell'aria esercitavano la propria azione sui e nei diversi corpi naturali. Hoffmann ne dedusse che un analogo principio interno di attivazione delle strutture organiche era responsabile di una serie di effetti fisiologici nei diversi dispositivi dell'automa vitale; l'impetus necessario era fornito originariamente dalle particelle di etere contenute nell'atmosfera, le quali, dopo essere penetrate nel sangue attraverso la respirazione, vi producevano movimenti vorticosi che coinvolgevano i diversi corpuscoli sanguigni.
Gli urti di questi corpuscoli contro le pareti dei vasi erano responsabili del calore animale. L'afflusso del sangue polmonare, ricco di particelle eteree e quindi di potere calorifico, provocava l'espansione della parte sinistra del cuore (diastole) e le fibre elastiche di questo muscolo reagivano all'afflusso di sangue attraverso l'azione antagonista degli spiriti animali contenuti nei muscoli cardiaci, dando luogo a una contrazione attiva (sistole); l'alternarsi di sistole e diastole si comunicava alle arterie, producendone la pulsazione, grazie al tonus delle loro pareti. Il cuore e gli altri muscoli, ossia tutti gli organi, erano attraversati da fibrille nervose nelle quali scorreva il fluido nerveo (spiriti animali), che era il prodotto di una secrezione ottenuta a partire dal sangue nel cervello, considerato ‒ secondo la visione malpighiana ‒ un organo di natura prevalentemente ghiandolare. In esso esercitava la sua attività l'agente vitale principale, concepito come un'anima animale, quintessenza di corpuscoli materiali. Certo, nel caso del soggetto umano, questa anima si trovava in relazione con una mens incorporea che poteva interferire in alcuni processi organici e sottometterli alle funzioni intellettive e volitive; ma a parte questa presunta connessione, le funzioni e i processi biologici dipendevano da leggi specifiche, concepite in modo analogo alle determinazioni fisico-chimiche che governavano la materia inorganica. Le particelle di materia sottile che costituivano il fluido nerveo, dotate di grandissima leggerezza e rapidità, circolavano nei nervi e mettevano in azione i dispositivi funzionali degli organi innervati. La circolazione di questo fluido dipendeva, a sua volta, dal tono specifico delle pareti nervose, che poteva determinare variazioni negli effetti oscillatori e vibratori.
Il fluido nerveo non era soltanto il principale responsabile delle funzioni sensitive e motorie tradizionalmente attribuite all'anima animale, ma interveniva anche nell'attivare e nel regolare l'insieme dei processi organici; Hoffmann giunse ad attribuirgli un ruolo morfogenetico nella formazione e nella crescita dell'organismo sin dai primi stadi dello sviluppo dell'embrione. L'ovulo femminile conteneva una combinazione di particelle materiali indispensabili allo sviluppo del nuovo organismo ed era dunque concepito come una struttura latente, conformemente ai dettami del preformismo ovista. La fecondazione era attribuita all'azione dei corpuscoli sottili presenti nel seme maschile, prodotti a loro volta da un processo di secrezione circolatoria analogo a quello del fluido nerveo: penetrando nell'ovulo, questi corpuscoli causavano la comparsa di movimenti vitali nella struttura latente. Era possibile, tuttavia, anche un'interpretazione diversa di questo fenomeno, che attribuiva alle parti sottili del seme maschile il duplice compito di veicolare la forma o il progetto della struttura organica dell'embrione e di realizzarlo nell'uovo fecondato (secondo quanto affermato dal preformismo animalculista). Nell'organismo sviluppato, gran parte dell'analisi fisiologica riguardava i processi nutritivi, secretivi ed escretivi, che si cercava di ricondurre alla struttura interna degli organi, tutti formati da diverse combinazioni di fibre tubolari. Le strutture arteriose e venose, ma anche quelle linfatiche, nervose e ghiandolari, erano il prodotto dell'integrazione delle diverse fibre; tutto l'organismo consisteva in effetti in un sistema estremamente complesso di reti vascolari, in cui si svolgeva la circolazione, altamente differenziata, dei vari fluidi vitali. I corpuscoli veicolati da questi fluidi interagivano con le strutture solide attraverso specifiche reazioni chimiche, inducendole ad agire in conformità con il mantenimento dell'economia vitale. La malattia e la morte erano la conseguenza di movimenti inadeguati delle parti fluide e solide dell'organismo.
Nell'opera Medicinae rationalis systematicae si ritrovano gli stessi schemi, inseriti però in un contesto epistemologico più evoluto. Ispirandosi tra l'altro alla dinamica di Leibniz ‒ come testimonia per esempio la Dissertatio medica de vera perpetui mobilis in homine vivo idea (1731) ‒ Hoffmann infatti non esitò a includere nella propria teoria modelli fisici basati sull'ipotesi dell'esistenza di forze specifiche: in particolare, se ne servì per ridisegnare la sua teoria del fluido nerveo. Più in generale, veniva ipotizzata l'esistenza di forze soggiacenti alle strutture, di effetti di risposta elastica dovuti al tono delle parti organiche e di interazioni funzionali tra i dispositivi elementari che, associandosi tra loro, formavano l'organismo.
La scienza fisiologica implicava la costruzione di modelli analogici di meccanismi integrati, che fossero in grado di rappresentare l'insieme dei fenomeni osservati, e i processi vitali erano visti come il risultato dell'azione di dispositivi strutturali complessi, sottoposti all'azione fisico-chimica dei fluidi vitali. Secondo il Commentarius de differentia inter F. Hofmanni doctrinam medico-mechanicam et G.E. Stahlii medico-organicam (1731), occorre ricercare la ragione formale e l'essenza della vita nei movimenti che si producono nella macchina del nostro corpo, così ingegnosamente costruita sfruttando l'elasticità delle parti solide e una combinazione di innumerevoli tubi di diverse grandezze, forme e figure, da meritare l'appellativo di idraulico-elastica. Fintanto che i fluidi agiscono sui solidi e i solidi sui fluidi, che i solidi mantengono la capacità dei movimenti sistolico e diastolico, ovvero contrattile e dilatatorio, e che i fluidi di diverso genere, costituiti per l'essenziale dalla massa sanguigna, percorrono con un movimento circolare il complesso sistema vascolare che forma il corpo, si può dire che il corpo è vivente, che in esso è presente la vita. (Operum omnium physico-medicorum supplementum, I, pp. 21b-22a)
La spiegazione delle funzioni vitali iniziava con l'esposizione della teoria del calore. Le particelle di materia eterea causavano reazioni interne nei fluidi dell'organismo, dovute alla forza espansiva propria degli umori. Questa componente del sangue, resa più sottile, acquisiva la forza necessaria a suscitare i movimenti di sistole e di diastole; e questa forza, esercitandosi sulle pareti vascolari, produceva una reazione elastica responsabile dei movimenti e delle trasformazioni dei fluidi vitali. La macchina organica era così ben congegnata, che bastava un movimento infimo per avviare processi funzionali ampi e complessi; essendo elastiche, le fibre erano infatti portate naturalmente a distendersi dopo essere state compresse dall'impatto di un flusso di corpuscoli e, grazie alle connessioni tessutali che le univano, potevano verificarsi reazioni a catena.
In questa nuova versione della teoria fisiologica, la sostanza eterea era concepita come principio di stimolazione vitale. Anche il duplice movimento del cuore era interpretato allo stesso modo: se il sangue, affluendo copiosamente nei ventricoli, causava la diastole, grazie anche alla forza espansiva della sua componente eterea, era il fluido sottile trasportato attraverso i nervi e le arterie coronarie fino alla parete cardiaca a causare la sistole, dilatando i pori di questa stessa parete. Tale concezione associava a un modello meccanicistico tradizionale un nuovo principio, la stimolazione vitale, che implicava l'esistenza di una forza immanente alle strutture fibrillari. Se il fluido sottile era ancora il principale agente motorio, solamente la presenza di adeguati dispositivi all'interno delle strutture stesse gli consentiva di esercitare la sua funzione regolatrice.
A proposito della circolazione, Hoffmann perfezionò il modello idraulico degli iatromeccanici della prima generazione: in seguito all'impulso cardiaco, il sangue si distribuiva nei vasi in proporzione alla loro capacità e al loro grado di tensione laterale; occorreva tenere conto però anche delle variazioni del grado di tensione e di reazione dei vasi, dovute alle differenze di elasticità e di tono delle loro fibre. Particolarmente significativa appare a questo proposito l'analisi della circolazione polmonare: nei polmoni, la pressione del sangue arterioso e della sierosità provocava una distensione dei capillari a cui corrispondeva una compressione delle vescicole polmonari. L'ingresso dell'aria nei polmoni causava il rigonfiamento delle ramificazioni della trachea e delle vescicole; dapprima ripiegate su sé stesse, le ramificazioni si distendevano consentendo la chiusura del circuito della 'piccola circolazione'. Il ricambio del sangue era visto come il prodotto di un'azione puramente meccanica: la pressione dell'aria sulle pareti vescicolari causava una ricombinazione interna delle parti eterogenee del sangue, grazie alla quale la massa sanguigna era in grado di circolare più liberamente, in modo da preservare l'integrità della struttura vitale. Niente penetrava nel sangue dall'aria attraverso le pareti vescicolari. L'azione di questo elemento era interamente mediata e si esercitava attraverso le modificazioni che essa induceva nel tono e nell'elasticità delle fibre e, di conseguenza, nel grado di rarefazione o di condensazione della massa sanguigna, da cui dipendeva la liberazione di una parte del potenziale dinamico delle componenti del sangue.
Hoffmann escludeva qualsiasi ipotesi di un'attrazione specifica tra le diverse particelle: poiché l'unica azione intelligibile dal punto di vista meccanico era quella che implicava il contatto tra i corpi, l'analisi dei fenomeni chimici della respirazione doveva soddisfare questa condizione. Nello stesso modo veniva spiegata, in Medicinae rationalis systematicae, la formazione del sangue (ematopoiesi), come il risultato della disposizione strutturale dei corpuscoli e delle proprietà funzionali che questi stessi corpuscoli acquisivano entrando a far parte di un tutto organico:
La filosofia sperimentale ci insegna che la forma, le virtù e le proprietà dei corpi dipendono dalla situazione, dalla figura e dalla connessione delle loro parti; e che, mutando queste ultime, anche le loro qualità e proprietà si modificano. Volendo dunque mutare un corpo in un altro, bisogna iniziare col distruggere il tessuto originario e combinare poi le parti separate, nello stesso modo in cui sono disposte quelle del corpo che si desidera produrre. (ed. Bruhier, I, pp. 224-225)
Date queste condizioni, non aveva molto senso attribuire la formazione del sangue a uno specifico fermento presente nel fegato, nel cuore o in qualche altro organo; si trattava piuttosto di un processo legato alla complessa struttura dei sistemi digerente e circolatorio, in cui le varie microparticelle giocavano ruoli interdipendenti.
Nell'analisi delle secrezioni e delle escrezioni, Hoffmann affiancava alla sua teoria micromeccanicistica una concezione delle proprietà funzionali intese come forze specifiche, secondo la quale le secrezioni e le escrezioni erano funzioni correlate del processo generale di nutrizione. Nel quadro dell'ipotesi preformista, la struttura dell'organismo era già data in partenza nel seme. Il succo nutritivo doveva penetrare nei pori più sottili della struttura embrionale e il movimento delle sue particelle doveva essere di conseguenza caratterizzato da un'estrema delicatezza; d'altra parte, era necessario un movimento impulsivo che causasse l'unione delle particelle nutritive con le parti solide già costituite. Hoffmann supponeva che, perché ciò avvenisse, dovesse essere presente nei fluidi un "principio di risposta elastica" in grado di suscitare la reazione tonica delle strutture solide e l'integrazione delle particelle nutritive; tale principio era associato all'idea dell'esistenza di una vis nervosa che avrebbe esercitato la sua azione su tutta la struttura organica attraverso i fluidi in essa circolanti. Ma questa 'forza nervosa' non avrebbe avuto alcun effetto reale, se i microdispositivi organici non fossero stati responsabili di secrezioni differenti, in grado di variare le modalità d'esercizio di questo potere metabolico e morfogenetico. Il chylus veniva separato nelle cavità intestinali e i succhi riparativi all'estremità dei vasi; il fluido sottile circolante nei nervi proveniva dal sangue arterioso contenuto nel cervello; allo stesso modo, lo sperma, il latte, il succo pancreatico o la saliva erano prodotti nei rispettivi organi. La 'forza nervosa', costituita dalle particelle più delicate dell'organismo, conferiva poteri specifici alle diverse strutture organiche, stimolate dall'afflusso dei fluidi vitali.
La teoria della nutrizione-secrezione era al centro della fisiologia hoffmanniana. La natura e la proporzione del succo nerveo presente nelle combinazioni umorali determinavano la specificità degli umori secreti dalle ghiandole; il succo nerveo appariva così responsabile della funzione dinamica degli umori. La forza nervosa, tuttavia, esercitava un ruolo altrettanto cruciale nelle strutture solide dell'apparato secretorio, dove causava effetti di risposta elastica alle stimolazioni umorali. Ogni parte possedeva una specifica forza di reazione, che si traduceva nelle funzioni esercitate dai diversi organi:
Non vi è in effetti nel corpo un solo canale che sia privo di elasticità e di movimento. La massa del fegato, interamente vascolare, il dotto biliare, quello epatico, quello cistico e il coledoco, le arterie, la vescica, i villi intestinali, le ghiandole salivari, in una parola, tutto è dotato di un movimento di contrazione e di dilatazione. Non c'è alcun dubbio che la differenza nella capacità di risposta elastica delle varie parti corrisponda a una diversità degli umori che esse secernono. (ibidem, pp. 373-374)
La correlazione dei movimenti delle parti solide, corrispondente alle disposizioni dinamiche dei fluidi, costituiva la legge generale del funzionamento dell'organismo; e a questa legge erano riconducibili un numero infinito di casi, a seconda del tipo di interazione tra le parti solide e quelle fluide proprio di ciascun microdispositivo.
Secondo Hoffmann, dunque, il corpo vivente era un meccanismo complesso, capace di armonizzare le sue diverse funzioni e corrispondente al modello di un dispositivo circolare, in grado di preservare la propria struttura e la propria attività nelle più diverse circostanze. Le forze specifiche e il potere di regolazione che un tale modello richiedeva erano attribuite inizialmente alle particelle di materia subtilissima; l'autore di Medicinae rationalis systematicae però, benché non abbia mai rinunciato a questo modello, si orientò sempre più verso una spiegazione delle funzioni che collegava l'attività organica all'interconnessione e all'armonia dei dispositivi strutturali. Come dimostra la sua teoria della nutrizione e della secrezione, il funzionamento dell'organismo presupponeva infatti una stimolazione delle strutture da parte dei fluidi organici. Le parti solide e quelle liquide obbedivano al 'principio di risposta elastica', cioè reagivano tra loro utilizzando forze specifiche adeguate ai dispositivi complessi in funzione in quel momento. All'impetus delle particelle eteree tendeva a sostituirsi una concezione più organicistica delle forze in gioco e dei sistemi di microdispositivi a esse collegati.
Come teorico della medicina, Georg Ernst Stahl (1660 ca.-1734) è noto per aver sostenuto una forma specifica di antimeccanicismo nella spiegazione dei fenomeni fisiologici e patologici. La teoria animista, associata al suo nome, si sviluppò alle soglie del XVIII sec. in risposta alle tesi della medicina meccanicistica e chimica, giudicate indebitamente riduzionistiche. Tutte le forme di vitalismo del secolo dei Lumi sembrano aver avuto origine dal paradigma stahliano, di cui condividevano la convinzione dell'incapacità dei modelli meccanicistici di spiegare in maniera adeguata le strutture, le funzioni e le patologie del vivente. La posizione di Stahl fu indubbiamente importante, come testimonia in particolare la sua celebre polemica con Leibniz, seguita alla pubblicazione dell'opera più importante del medico e chimico di Halle ‒ la Theoria medica vera (1708) ‒ e incentrata sul concetto di organismo, propugnato da Stahl in polemica con ogni ipotesi di riduzione del vivente in conformità ai modelli meccanicistici. Per riprendere un passo di Georges Canguilhem: "Stahl definisce l'organismo, concetto nuovo per le lingue latina e francese, come un composto eterogeneo di corpi misti. Questa eterogeneità di composizione espone i corpi viventi al rischio di un'improvvisa dissoluzione e di una rapida corruzione. Malgrado ciò, il corpo vivente perdura e si conserva in virtù di una causa particolare e intrinseca, estranea all'ordine dei corpi misti non viventi" (1970, p. 223).
Stahl incentrò il suo progetto di fisiologia sul concetto di vita, concepita dapprima in un senso non tecnico. Secondo questa concezione, la vita si definiva a partire da un fatto empirico facilmente verificabile, l'intrinseca corruttibilità del corpo organico, da cui discendeva la necessità del rapporto del corpo vivente con la morte. La struttura del corpo vivente, da cui dipendeva l'esecuzione degli atti caratteristici degli esseri vegetali e animali, risultava da un composto chimico instabile, suscettibile di un'improvvisa dissoluzione nel momento in cui la persistenza stessa di questi atti vitali si metteva in gioco. Date queste premesse, la vita poteva essere formalmente ricondotta alla capacità di conservare nella sua organizzazione e nella sua attività l'aggregato complesso e fragile che costituiva il corpo vivente: "Questa conservazione di una cosa così corruttibile, indispensabile a evitare che essa si corrompa a causa della sua stessa attività, è esattamente ciò che si deve intendere con la parola vita, come viene correntemente usata; ed è sotto questo rapporto che i semplici corpi misti si differenziano e si contrappongono ai corpi in quanto viventi" (Theoria medica vera, ed. 1737, p. 200).
Il contrasto con il meccanicismo riguardava appunto principalmente il modo di concepire quest'attività di conservazione, che si identificava con la vita dell'organismo. L'attribuzione ai diversi organi di fini strumentali, conformi alla conservazione dell'insieme organico, implicava l'esistenza di "una conformazione e una proporzione" ben determinate. Queste ultime non potevano essere sorte spontaneamente dagli elementi materiali del corpo, ma dovevano essere il risultato di una proporzione e di un ordine imposti a priori agli elementi e ai congegni da essi formati. D'altra parte, quale fosse la disposizione meccanica delle parti organiche, essa non avrebbe mai potuto determinare la necessità meccanica assoluta di un dato movimento, come dimostrava l'influsso che le passioni dell'anima esercitavano sui diversi processi fisiologici. L'effetto strumentale non era mai l'ineluttabile conseguenza di una disposizione degli organi e la stessa struttura organica, d'altra parte, era potenzialmente in grado di dar luogo a una pluralità di sequenze motorie, che formavano un ampio spettro di possibili risposte alle condizioni vitali date. Di conseguenza, lo stato di salute consisteva nel mantenimento dell'integrità strutturale e funzionale del corpo vivente, inteso come combinazione di dispositivi organici adeguatamente integrati, ma anche nell'esercizio incessante degli atti che formavano e conservavano la struttura integrativa del corpo e ne assicuravano il dinamismo.
Per ciò che riguarda la disposizione materiale dell'organismo alla vita, bisognava tener conto del fatto che la combinazione di ingredienti chimici, caratteristica del composto corporeo, tende spontaneamente alla fermentazione, o perfino alla putrefazione, in un rapporto direttamente proporzionale alla crescita del calore e dell'umidità, fattori peraltro favorevoli alla vita. Stahl notava che se la struttura era la ragione formale del corpo organico, il materiale idoneo sia alla formazione dell'organismo sia allo svolgimento delle funzioni alle quali l'organismo era destinato, era sempre costituito da una miscela di particelle. La sua concezione degli elementi della realtà fisica era di tipo corpuscolare: se questi corpuscoli e le strutture più complesse da essi formate erano necessariamente dotati di proprietà geometrico-meccaniche ‒ estensione, figura, solidità, mobilità ‒ gli elementi chimici si presentavano più precisamente come componenti ultimi di tipo corpuscolare, dotati di forza specifica e caratterizzati dalla tendenza a combinarsi tra loro per formare delle miscele relativamente stabili, empiricamente attestabili e sperimentalmente analizzabili. A un livello superiore, queste miscele si combinavano ulteriormente tra loro per formare composti, che davano luogo a tre tipi di agglomerati distinti: gli aggregati omogenei meccanici, quelli omogenei organici o gli aggregati eterogenei. Johann Juncker (1679-1755), discepolo di Stahl, sottolineando la distinzione tra miscele e aggregati osservava che le parti delle prime erano costituenti e quelle dei secondi integranti. L'organismo si presentava nel suo complesso come un aggregato eterogeneo, formato da una pluralità di aggregati omogenei organici che corrispondevano alle strutture responsabili di una funzione specifica. L'integrazione di queste diverse funzioni presupponeva l'esistenza di un agente capace di assicurare l'attività e la conservazione dell'aggregato eterogeneo, attraverso la correlazione dinamica delle parti strumentali omogenee che lo componevano.
Se i normali rapporti chimici tra minima corpuscula davano luogo abitualmente a fenomeni di corruzione, la struttura aggregativa formata dalle miscele organiche non poteva che esserne alterata o addirittura distrutta. Per prevenire la dissoluzione e opporsi a essa, la Natura si serviva di movimenti interni che davano luogo a modificazioni impercettibili nelle profondità della struttura organica; e lo scopo di questi movimenti era quello di eliminare le particelle dissolventi, asportandole dalle loro sedi originarie e mantenendo così l'integrità coesiva delle parti sane, costitutive dell'organismo. Ma se la dissoluzione avanzava oltre lo stadio in cui questi movimenti conservavano la loro efficacia, il contagio si propagava all'intera struttura. Di fatto, la mescolanza delle particelle integranti possedeva un ordine di priorità superiore rispetto alla struttura che ne risultava, dato che quest'ultima dipendeva da una particolare disposizione tessutale legata alla connessione chimica tra le particelle sottili. La dissoluzione dei legami tra le particelle comportava necessariamente la decomposizione della struttura, mentre una lesione poteva danneggiare soltanto marginalmente o non danneggiare affatto la mescolanza delle particelle elementari ed essere quindi tollerata o riparata senza troppa difficoltà. Le alterazioni della mescolanza delle particelle potevano essere impedite soltanto dall'intervento di movimenti sottili ma dotati d'intensa efficacia, in assenza dei quali l'intera struttura minacciava di corrompersi e risultava incapace di svolgere la propria funzione di strumento vitale. Quando la Natura vivente diveniva impotente a determinare i movimenti vitali di secrezione, di escrezione e di sostituzione degli elementi corporei, le leggi della Natura organica tornavano a imporsi con tutta la loro forza sul corpo organico nel suo insieme, come se quest'ultimo si fosse venuto a trovare improvvisamente privo delle condizioni del mantenimento vitale.
Alcune parti erano considerate più putrescibili di altre: in particolare il sangue, avendo una "composizione mucido-lipidica" particolarmente soggetta a fermentare. L'economia vitale non poteva prescindere dunque da un'azione diretta alla conservazione del sangue, e questo compito era assolto dalla circolazione, che preservava la mescolanza sanguigna dalla corruzione ma contribuiva parallelamente al mantenimento dell'integrazione funzionale di tutte le altre parti: il processo circolatorio produceva infatti i movimenti interni responsabili della conservazione del sangue, ma assicurava contemporaneamente la necessaria eliminazione delle particelle dannose e la loro sostituzione con nuovi ingredienti organici. Nelle pubblicazioni anteriori alla Theoria medica vera, e in particolare nel De motu tonico vitali, la cui prima versione apparve nel 1692, Stahl aveva sviluppato il concetto di 'movimento tonico' delle arterie, per indicare una capacità di reazione funzionale non riconducibile a rigide ragioni di tipo geometrico-meccanico, ma responsabile della regolazione del flusso sanguigno attraverso una sequenza di contrazioni. Il suo scopo era quello di fare propria la dottrina di Harvey sul movimento cardiaco e la circolazione sanguigna e di confutare le interpretazioni meccanicistiche della sua descrizione di questi processi funzionali, che pretendevano di analizzarli senza prenderne in considerazione la destinazione finale e la capacità di adattamento alle circostanze vitali.
La circolazione, secondo la concezione di Stahl, era prima di tutto un insieme integrato di mezzi capaci di impedire la stagnazione degli umori nei vasi e la loro conseguente dissoluzione nelle parti integranti. I sintomi dell'infiammazione dovevano essere quindi interpretati proprio come uno dei mezzi strumentali utilizzati dall'organismo nella sua lotta contro la corruzione del sangue. Albert Lemoine riassunse efficacemente le considerazioni di carattere patologico che motivavano la posizione critica di Stahl, citando il caso del sistema della vena porta: "Il sistema della vena porta è lo stesso di tutte quelle parti del sistema vascolare generale nelle quali il sangue trova maggiori difficoltà a circolare, a causa dell'assenza di valvole e della grande quantità di sangue che la milza riversa all'interno di vasi sempre più sottili. Il risultato di ciò è che in queste parti il sangue tende a stagnare e si corrompe più facilmente" (Lemoine 1864, pp. 45-46).
Secondo Stahl, l'esperienza indicava costantemente come i fenomeni infiammatori e, al contrario, la stasi del sangue fossero fonte di diverse malattie e come i processi circolatori dipendessero dall'equilibrio dinamico dei movimenti in essi implicati, e in particolare dei movimenti tonici. In numerose affezioni organiche ‒ eccezion fatta per quelle parti solide e poco corruttibili, quali membrane, tendini, ghiandole, legamenti, ossa e cartilagini, nelle quali l'azione correttiva si esercitava in modo più meccanico e continuativo ‒ l'apporto vitale dei micromovimenti appariva legato a uno stato intenzionale di sollecitudine o di timore da parte del principio vitale, cioè dell'anima. Da qui la possibilità di un blocco affettivo, per così dire, del processo di mantenimento vitale, che poteva dare libero corso alla corruzione degli umori.
L'insieme dei processi circolatori e delle loro variazioni adattative era collegato da Stahl con una finalità che inglobava anche le funzioni vitali di secrezione ed escrezione: se il sangue conservava sempre una composizione chimica e uno stato fisico adeguati, ciò si doveva al fatto che i suoi movimenti determinavano una filtrazione costante attraverso le pareti molli e porose del sistema circolatorio, chiamate 'tessuto spugnoso'. Lo stesso ragionamento si poteva poi estendere per dimostrare l'utilità delle escrezioni nella conservazione della funzione circolatoria: questi processi integrati e funzionali determinavano infatti ‒ e mantenevano costante ‒ la disposizione del sangue a circolare. Questa funzione regolatrice si presentava, così, come "l'ultimo organismo formale della vita", e la teoria delle secrezioni, che Stahl legava ai processi funzionali di circolazione del sangue e degli umori, era l'esatta trascrizione di questa posizione teorica.
A proposito del meccanismo delle secrezioni e della sua destinazione finale, Stahl avanzò una critica molto elaborata delle tesi meccanicistiche, secondo le quali il processo funzionale della secrezione poteva essere spiegato interamente con la densità delle particelle d'umore e con la corrispondenza tra la figura e le dimensioni di tali particelle e quelle dei meati, o pori, presenti nei parenchimi ghiandolari. L'analisi stahliana, al contrario, si basava in larga misura su una serie di osservazioni empiriche relative al rapporto tra i movimenti e le strutture, evitando di ipostatizzare un rapporto micromeccanico tra particelle e strutture sottili. Stahl rilevava infatti come i capillari, nella transizione dalle arteriole alle venule, si trovassero in un costante stato di 'pienezza', se non di compressione. La circolazione incontrava delle resistenze che la rallentavano e gli umori, sottoposti in queste strutture di passaggio a una serie di oscillazioni, tendevano a evacuare le loro parti più sottili e più leggere attraverso i meati linfatici o ghiandolari, mentre le parti più consistenti venivano sospinte nel sistema venoso. In seguito, nei ricettacoli ghiandolari si producevano altre separazioni, con ritenzione più o meno prolungata degli umori spessi (prima della loro diffusione ed evacuazione) e trasmissione quasi immediata delle particelle più leggere attraverso il parenchima. Questi processi sembravano corrispondere alle modalità di secrezione della linfa, dello sperma e del latte, se non addirittura a quelle delle principali escrezioni organiche.
Stahl avvertiva tuttavia la necessità di integrare questa modellazione a posteriori con una concezione a priori degli atti fisiologici implicati in questi processi. Ciò lo indusse ad abbozzare un modello basato sull'ipotesi di una corrispondenza tra la dimensione dei meati e dei pori, da una parte, e il grado di consistenza degli umori, dall'altra, evitando le forzature delle ipotesi iatromeccaniche. La composizione degli umori e le alterazioni della loro consistenza nel corso della secrezione sembravano dipendere da un 'metodo' che si esprimeva nella sequenza dei processi implicati. Il fattore determinante di questi processi sembrava essere la durata: essi non erano forse caratterizzati dalla lentezza rispetto al flusso circolatorio del sangue e non procedevano in modo regolare e continuo, culminante in una serie di evacuazioni periodiche? Queste caratteristiche indicavano l'esistenza di un rapporto di ordine strutturale e funzionale, inscritto in qualche modo nella dinamica dei movimenti vitali; ma la coordinazione di tali movimenti non implicava necessariamente l'esistenza di un agente responsabile della loro armonizzazione e della loro coordinazione, in modo da mantenere l'organizzazione e l'equilibrio dei fenomeni secretori? Doveva trattarsi di un unico agente per tutto l'organismo dei fluidi vitali, capace inoltre di coordinare la molteplicità degli atti sequenziali che lo caratterizzavano.
Sul concetto di conservazione si innestava così l'idea regolativa di un principio unico, capace di armonizzare sostanze e movimenti mediante un controllo integrale, assicurando così la persistenza della costituzione corporea. Quest'ultima non dipendeva da un rapporto puramente meccanico tra le sue parti, ma dall'ordine integrato e finalizzato di esse e dei loro movimenti; e un tale rapporto 'organico' richiedeva la presenza di un agente capace di dare attuazione al disegno organizzativo funzionale in un contesto di perpetua alterazione. Stahl ipotizzò l'egemonia di un unico principio di carattere animistico, preposto alla formazione, alla gestione e alla preservazione dell'economia globale delle micromacchine organiche. Per questo la fisiologia ‒ come egli la concepiva ‒ doveva concentrare le sue analisi sulle condizioni formali del mantenimento vitale, ovvero sulle sinergie di movimenti conformi alle finalità dell'organismo, benché esse implicassero alcuni dispositivi materiali correlati tra loro in base a caratteristiche puramente meccaniche. È significativo, in proposito, un brano relativo alle secrezioni e alle escrezioni come effetti di movimenti tonici suscitati e regolati dall'anima fisiologica, nel quale Stahl espresse in poche righe il programma di una fisiologia orientata allo studio della teleologia immanente nei fenomeni organici:
[Dalla considerazione analitica dei movimenti vitali] si trae la vera ragione di una fisiologia propriamente medica, poiché è questa che ci permette di comprendere che l'intero processo delle secrezioni e delle escrezioni non è fondato unicamente sulla proporzione di materia che deve essere spostata, piuttosto che su una qualsiasi altra necessità proveniente dagli organi, ma che l'autentico e solido fondamento di una determinazione motoria che si eserciti su questo tipo di sostanze deve essere ricercato puramente e semplicemente in uno scopo, o per meglio dire in un fine prefissato, ponderatamente e intenzionalmente, vale a dire, che sia preservata l'integrità del corpo, non solo in quanto attualmente organico, ma in quanto destinato a rimanere tale. (Theoria medica vera, ed. 1737, p. 430)
La struttura globale del corpo secondo Stahl comportava una specifica mescolanza tra le sue parti, una loro distribuzione particolare e reciproca e un'organizzazione interna molto complessa, formata da pori, meati, fibrille ecc., combinati tra loro secondo un ordine raffinato. Questo effetto poteva essere attribuito solamente all'intervento di un "agente attivo", capace di produrre un tale ordine creando e regolando la struttura corrispondente. Da ciò derivava inoltre la necessità che l'agente vitale fosse dotato di una qualche forma di conoscenza delle diverse modalità della mescolanza organica posta sotto il suo controllo e che fosse in grado di crearla a partire da elementi inorganici estranei alla sua natura, come si poteva osservare nella formazione dei vegetali. Era più plausibile supporre che la selezione e la raccolta degli ingredienti della mescolanza armoniosa venissero operate con una qualche forma di consapevolezza, piuttosto che ammettere che i corpuscoli necessari a una determinata mescolanza giungessero meccanicamente nell'organismo e adottassero spontaneamente, soltanto in virtù delle loro caratteristiche fisiche, i rapporti di ordine, di numero e di disposizione richiesti dalla struttura globale. Stahl quindi contestava, per esempio, l'ipotesi di una corrispondenza meccanica tra le particelle e i pori degli organi costituiti, la quale avrebbe consentito il processo di assimilazione vitale.
Nella sua tesi relativa alla struttura è possibile discernere alcune caratteristiche fondamentali: in primo luogo, la formazione del corpo si realizzava a partire da mescolanze di particelle elementari che costituivano i minima dell'integrazione organica, e queste strutture minime si combinavano secondo un criterio quantitativo e spaziale (situs) per dare origine ai diversi organi, la cui struttura globale si sviluppava mantenendo sempre un rapporto di proporzionalità con l'insieme dell'individuo vegetale o animale. In queste condizioni, le considerazioni relative all'ordine o alla disposizione delle parti elementari od organiche dovevano considerarsi subordinate ai fini strumentali che queste stesse parti assumevano nell'organismo globale. In altre parole, l'elemento meccanico presente nell'uso e nella costituzione delle parti rispondeva in effetti a un intento architettonico che ne determinava la costruzione in vista del raggiungimento delle finalità organiche del vivente. Di conseguenza, bisognava attribuire quest'atto e i movimenti finalizzati che servivano a realizzarlo all'anima, "questo principio attivo che comprende e governa tutte le determinazioni ad agire (actionum momenta), che regola l'azione nel suo complesso e la dirige verso lo scopo prefissato" (ibidem, p. 218).
Il movimento, inteso come movimento vitale, era concepito a tutti gli effetti come "qualcosa di incorporeo, che viene ad aggiungersi al corpo e che è genericamente della stessa natura e della stessa disposizione universale (universae habitudinis) dell'anima" (ibidem, pp. 428-429). L'aggiunta del movimento vitale al corpo non significava che il rapporto che si veniva così a stabilire fosse puramente estrinseco, dato che esso si costruiva tenendo conto il più esattamente possibile delle condizioni generali d'esercizio del movimento, sia di quelle che dipendevano dalla configurazione geometrica globale del corpo, sia di quelle relative alla mescolanza generale e specifica del corpo e dei suoi organi. Stahl si opponeva soprattutto alla propensione dei fisiologi moderni ad assimilare i movimenti vitali ad atti interamente dipendenti dalla disposizione materiale del corpo, compiuti per necessità e senza alcuna determinazione finale. Se l'origine di questi movimenti fosse stata esclusivamente fisica, le innumerevoli cause perturbatrici che assalivano il corpo organico avrebbero provocato in esso alterazioni e modificazioni così profonde, che una disposizione puramente meccanica non sarebbe stata in grado di neutralizzarle assicurando il ristabilimento dell'equilibrio organico globale. Al contrario, egli sosteneva che
i movimenti vitali sono regolati ed eseguiti mediante l'azione dell'anima stessa; sono atti interamente organici determinati negli strumenti corporei da una causa attiva superiore, allo scopo di produrre effetti ben precisi, e non solo genericamente determinati, specificamente necessari, ma in un modo del tutto speciale, essendo particolarmente e sottilmente proporzionati alle necessità derivanti dalle diverse circostanze di tempo e alle cause esterne accidentali. (ibidem, pp. 428-429)
Ma il punto più importante della dimostrazione riguardava il fatto che l'anima costituisse un principio sufficiente a regolare, stimolare e muovere il corpo, senza che fosse necessario fare ricorso a nessun altro fattore di movimento. Stahl criticava sia le ipotesi che pretendevano di spiegare le operazioni vitali in termini puramente meccanici, sia quelle che presupponevano l'esistenza di forme sostanziali ad hoc: poteri o facoltà che avrebbero fornito la ragion sufficiente dei fenomeni biologici, prescindendo da ogni operazione meccanica e senza intervento alcuno di un intelletto vitale, incaricato di concepire e realizzare le operazioni funzionali dell'organismo. Presupporre principî incorporei ‒ anima vegetativa e anima animale ‒ distinti dall'anima razionale e a essa inferiori, obbligava di fatto a presumere che le anime inferiori fossero in grado di esercitare una qualche forma di conoscenza, senza la quale non avrebbero potuto concepire il tipo di ordine da imporre ai fenomeni organici. Scomponendo l'anima umana in modo da introdurvi la facoltà vegetativa e quella senso-motoria, si otteneva soltanto il moltiplicare astrattamente le forme sostanziali. Anche postulando l'esistenza di spiriti ‒ parti materiali sottili che avrebbero realizzato nella struttura gli atti funzionali decisi dalle forme o facoltà ‒ ci si limitava a introdurre, senza un fondamento empirico verificabile, strumenti organici ad hoc, destinati a servire da veicoli alle intenzioni dei principî incorporei, sia per lo svolgimento di funzioni localizzate (spiritus insiti), sia per la trasmissione a distanza degli effetti funzionali (spiritus influi).
Jan Baptista van Helmont (1579-1644) aveva suggerito un'ipotesi fisiologica fondata sulla diversificazione dell'anima vegetativa in una molteplicità di agenti psicomorfi. Il medico fiammingo subordinava agli archaei l'attività degli spiriti immanenti e influenti, e moltiplicava il numero di questi ultimi in base a quello degli organi situati sotto il loro dominio. Van Helmont, del resto, sembrava attribuire a tutti questi enti o agenti alcuni poteri conoscitivi indipendenti dai poteri dell'anima spirituale propriamente detta, ma analoghi a quelli; seguendo questa strada, però, non sarebbe stato più semplice ricondurre questa funzione strumentale alle strutture anatomiche nelle loro molteplici correlazioni, per esempio quelle dell'apparato nervoso e cerebrale nel caso dei cosiddetti spiriti animali?
Al contrario, Stahl sottolineava il carattere profondamente unitario e integrato degli atti che regolavano la vita organica. Dato che alcuni di essi manifestavano chiaramente il dominio dell'anima sui fenomeni fisiologici (per es., le passioni dell'anima che provocavano i movimenti spasmodici e involontari, o anche le fantasie della madre, che influenzavano la formazione del feto), era logico porre in relazione l'insieme delle funzioni fisiologiche di livello inferiore con un unico principio di tipo animistico. Per rispondere all'obiezione di quanti rilevavano il carattere non cosciente e non deliberato degli atti fisiologici, sottraendoli per questo motivo all'imperio dell'anima, Stahl introdusse la sua celebre distinzione tra due tipi di poteri cognitivi: il logos, che rappresentava l'intellezione più immediata e più semplice, priva di apparato discorsivo, e il logismos, che implicava l'esecuzione di molteplici confronti e inferenze e presupponeva in particolare una coscienza dei dati sensibili o immaginativi alla base del ragionamento. Ora, la prevalenza della conoscenza intuitiva, fondamentalmente non cosciente perché non sensibile, traspariva al limite della percezione sensibile degli odori, dei sapori, dei colori, dei suoni e delle impressioni del tatto, laddove era possibile cogliere in modo spontaneo sottili distinzioni delle quali non si sarebbe saputo rendere conto oggettivamente. Allo stesso modo, al limite della conoscenza riflessiva si raggiungeva un'intuizione non discorsiva dell'anima come principio d'azione; al limite degli atti di determinazione volontaria, si riusciva a valutare diversi gradi di piacere e di dolore nonché l'intensità e la proporzionalità dei diversi movimenti del corpo diretti a realizzare le intenzioni coscienti. Era sufficiente partire da questo e riconoscere, per inferenza analogica, il ruolo attivo ma cieco dell'anima nella determinazione dei processi vitali.
Tenuto conto di questo quadro concettuale, il modo in cui Stahl concepiva la fisiologia è ben illustrato da alcune sue considerazioni relative alla nutrizione: essa consisteva infatti nell'assimilazione di nuove particole da parte degli organi già costituiti o in via di costituzione. Questo processo richiedeva che le particole fossero adatte ai diversi organi e disponibili in quantità adeguata per l'assimilazione, e che la costruzione organica nella quale erano utilizzate riproducesse la configurazione esterna propria di ciascun organo. Per soddisfare la prima di tali condizioni, i moderni ‒ che avevano rinunciato a ipotizzare la propensione del simile ad allearsi con il simile, caratteristica della fisiologia antica ‒ ipotizzarono che l'aggregazione organica si realizzasse attraverso la semplice corrispondenza di figura e di dimensione tra i pori degli organi e le particole da assimilare, sconfessando a giusto titolo quella forma misteriosa di conoscenza che avrebbe dovuto sottendere l'attrazione selettiva e reciproca delle particole. Allo stesso modo, si sbarazzarono anche della forma vegetativa che, secondo Aristotele, si sarebbe imposta alla materia per determinarla organicamente. Ma l'opinione dei meccanicisti moderni, completamente basata sugli urti, sulla combinazione, la compressione e la coesione delle particole, era comunque insufficiente a spiegare quella capacità di 'coordinazione' esatta e armoniosa delle parti manifesta sin dalla formazione dell'embrione e per tutta l'esistenza del corpo. Non c'era più traccia, è vero, di disposizioni attive, di propensioni (nisus) e appetizioni inerenti alle parti materiali, ma il progetto analitico si limitava ormai al tentativo di ridurre l'organico all'inorganico: via senza sbocchi, essendo del tutto inconcepibile che i raggruppamenti di materia che compongono le più complesse architetture organiche, nella loro raffinatezza, potessero prodursi da sé stessi, senza l'intervento di un agente esterno agli elementi materiali capace di ordinarli, adattarli, selezionarli e disporli in strutture armoniose.
Stahl, è vero, individuava nel movimento la causa efficiente di quest'ordine organico vitale, compiuto e preservato dal processo nutritivo. Il movimento di cui si parlava, però, era di tipo puramente architettonico e comportava quindi necessariamente una dimensione teleologica e funzionale che corrispondeva all'intervento di un agente psichico, responsabile del progetto integrale realizzato nell'organismo. Rifiutando ogni ipotesi di preformazione integrale degli organismi, e contestando l'idea che una struttura preordinata di questo tipo potesse svilupparsi seguendo alcuni processi puramente meccanici, Stahl postulava che la struttura vitale fosse l'effetto di un agente volto al perseguimento dei propri fini, ovvero alla realizzazione di un progetto unitario di svolgimento delle funzioni vitali. Date queste premesse, la nutrizione non poteva dipendere dalla struttura meccanica o strumentale degli organi, ma doveva risultare da un atto di determinazione vitale che realizzasse il raggruppamento, la coordinazione e la combinazione interna delle particole affini secondo un disegno razionale, mirante alla conservazione nel tempo della struttura integrativa del vivente.
Il conflitto tra l'animismo di Stahl e gli ultimi sistemi iatromeccanici, rappresentati in primo luogo dalle fisiologie di Boerhaave e di Hoffmann, fu l'indice di uno stato di crisi della rappresentazione del vivente. I secondi si proponevano di fondare una scienza conforme alla metodologia di ricerca empirista, mediante la quale la sistematizzazione dei dati forniti dall'osservazione e dall'esperienza doveva permettere di stabilire alcune corrispondenze ben precise tra le microstrutture organiche, collegate e incastrate l'una nell'altra, e le proprietà funzionali che si esprimevano nel corso dei processi vitali. Ma, al tempo stesso, costoro privilegiavano un percorso che li portava a costruire taluni modelli geometrici e meccanici dotati di rapporti analogici il più possibile aderenti ai fenomeni funzionali caratteristici dell'essere vivente. In definitiva, questi studiosi conservavano la speranza di giungere a una convergenza definitiva tra le loro ipotesi e una rappresentazione perfettamente congruente dei fenomeni vitali nella loro dimensione specifica; e questo obiettivo veniva perseguito sviluppando l'analisi delle correlazioni tra le microstrutture dell'organismo e le proprietà fisiologiche osservabili.
Stahl denunciava, appunto, l'artificiosità delle grandi costruzioni iatromeccaniche, la loro ambizione deduttivista, la loro irriducibile eterogeneità rispetto a quell'ordine vitale di cui avrebbero voluto dar conto. Allo stesso tempo, tuttavia, la dottrina stahliana riproduceva esattamente le difficoltà dei sistemi che mirava a soppiantare. Anche in essa, infatti, si postulava l'intervento di un agente estraneo al mondo organico, l'anima, responsabile della produzione e della direzione, mediante un suo specifico logos, delle operazioni relative alla formazione, alla conservazione e al funzionamento di un microcosmo vitale ridotto a una meccanica fisico-chimica, perpetuamente soggetta alla dislocazione, all'alterazione e alla corruzione. Tutto sommato, la teoria di Stahl delineava la forma vuota di una fisiologia che cercava di rappresentare a sé stessa il principio unico determinante l'integrazione dell'organismo e la correlazione funzionale delle sue operazioni. In seguito, la fisiologia dell'Illuminismo tentò di colmare questo vuoto e di superare l'antinomia tra iatromeccanicismo e animismo, basandosi sull'adozione di modelli organicistici e sulla nozione di forze vitali specifiche.