di Gennaro Gervasio
Il 3 luglio 2013 il ministro della difesa Abdel-Fattah al-Sisi annunciava alla nazione e al mondo di avere rimosso il presidente Mohammed Mursi, eletto solo un anno prima nelle fila del partito ‘Giustizia e libertà’, espressione politica dei Fratelli musulmani (FM), dando inizio a una crisi politica di lunga durata. La ‘luna di miele’ tra i vertici militari, raccolti nel Consiglio supremo delle forze armate (SCAF nella sigla inglese), e i FM era cominciata ai tempi del primo referendum post-rivoluzionario nel marzo 2011. Da un lato, lo SCAF aveva riconosciuto nei FM la forza politica moderata con cui allearsi per gestire la ‘transizione’ post-Mubarak, dall’altro, gli islamisti avevano correttamente individuato nei militari l’istituzione alla quale appoggiarsi sia per uscire dal limbo di semi-legalità in cui li avevano confinati i regimi di Sadat e Mubarak, sia per disinnescare le energie rivoluzionarie e le richieste di cambiamento reale espresse dai ‘giovani di piazza Tahrir’. Dalla vittoria nel referendum del 2011 il ‘matrimonio di interessi’ era sopravvissuto a non poche crisi, restando uno dei cardini del sistema politico dell’Egitto post-Mubarak. In particolare, non solo lo SCAF aveva accettato la vittoria alle presidenziali di un presidente islamista (giugno 2012), ma quando Mursi, a poche settimane dall’insediamento, aveva destituito i vertici dell’esercito, peraltro poco popolari sia tra la popolazione sia tra gli ufficiali stessi – nominando proprio al-Sisi nuovo ministro della difesa e capo delle forze armate (agosto 2012) –, sembrava che il patto d’acciaio fosse diventato indistruttibile, come confermato dal rinnovo dei privilegi dati ai militari nel dibattito costituzionale dell’autunno 2012. La coabitazione tra esercito e Fratellanza ha cominciato a vacillare a fine autunno, con la reazione popolare alla dichiarazione costituzionale del 22 novembre, con cui il presidente Mursi si attribuiva poteri speciali, ancorché temporanei, ponendosi di fatto al di sopra di ogni controllo istituzionale. L’intensità delle proteste popolari, che riuscivano a resuscitare perfino la moribonda opposizione, e l’incapacità della dirigenza dei FM a gestire il dissenso popolare e ad attuare politiche più inclusive in un contesto già ampiamente polarizzato – dopotutto Mursi aveva vinto con poco più del 51% dei consensi – suonavano come un campanello d’allarme per i militari, sicuri di avere consegnato il paese al gruppo meglio equipaggiato per la transizione e più rispettoso dei loro privilegi storici. Benché i FM includessero nella contestata bozza costituzionale le garanzie richieste dai militari, nel contempo proprio gli scontri tra sostenitori del regime e oppositori, del dicembre 2012, dimostravano che il rapporto non era davvero invulnerabile. Quando al-Sisi aveva invitato le forze politiche a un incontro riconciliatore offrendo la mediazione dello SCAF, era stato proprio Mursi a rifiutare, quasi a sancire il ruolo oramai marginale dell’esercito nella politica egiziana. Si trattava di un duro colpo al prestigio dell’istituzione che aveva guidato il paese dal 1952. Probabilmente, lo smacco subito, unito ai chiari segni di scarsissima capacità di governo offerti dai FM, dimostrati dalla prosecuzione delle proteste per tutte la prima metà del 2013 e dalla riattivazione di meccanismi autoritari e repressivi per reprimerle, avevano causato un primo cauto distanziarsi dei militari dal governo. Lo dimostrava il rifiuto dell’esercito di assicurare la difesa delle sedi dei FM e del partito, durante i numerosi attacchi compiuti dai manifestanti dell’opposizione. Da questi presupposti non è difficile capire perché le forze armate si siano schierate con le proteste del movimento Tamarrud, in cui, oltre ai giovani rivoluzionari, avevano trovato posto parte delle vecchie forze reazionarie (i cosiddetti felul), e anche moltissimi elettori di Mursi, da lui profondamente delusi. Gli eventi dal 3 luglio non hanno finito di dispiegare i loro effetti. Da un lato, la decisione dell’esercito, di fronte al rifiuto dei manifestanti islamisti di sgomberare i sit-in di protesta contro il golpe, di usare massicciamente la forza a costo di centinaia di vite, hanno ulteriormente polarizzato il paese, e ridotto al lumicino le speranze di una transizione verso forme più aperte di pratica politica. D’altro canto, il rifiuto ostinato di ogni compromesso da parte dei FM ne ha facilitato non solo la messa fuori legge, attuata attraverso la antica ma sempre efficace accusa di terrorismo, ma li ha pure relegati ai margini della scena.
Nella possibilità di recuperare i Fratelli musulmani, dopo una necessaria autocritica e non senza garanzie da parte del potere, all’interno del sistema politico egiziano – almeno come forza politica legittima di opposizione – risiede una buona parte delle speranze di evitare che un movimento popolare di massa, pur capace di liberarsi del suo vecchio padre-padrone, finisca fagocitato da un nuovo regime a carattere spiccatamente autoritario, guidato da un ‘uomo forte’ (al-Sisi). Resta vero che la popolarità di al-Sisi sembra resistere nonostante che i soprusi e le violazioni commessi dalle forze di polizia e dallo stesso esercito contro ogni dissenso, non solo quello di matrice islamica, siano oramai peggiori di quelli praticati negli ultimi mesi del regime mubarakiano.