L'autocoscienza dell'artista
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’incontrastato prestigio riconosciuto al committente, l’anonimato degli artisti e l’identificazione dell’arte con l’artigianato allontanano l’autore medievale dell’opera d’arte dall’élite di quanti praticano le più nobili arti liberali: poeti, letterati, filosofi, musici. Solo nel XII secolo la situazione sembra realmente mutare, il segnale inequivocabile di un ritrovato orgoglio degli artefici si coglie non solo nel proliferare delle firme, ma soprattutto nella moltiplicazione dei solenni attestati pubblici, celebrativi e autocelebrativi. L’artista inizia a riconoscere il proprio apporto e le proprie capacità, si avvia una rinnovata ascesa sociale che porta con sé anche un miglioramento delle condizioni economiche.
Su uno smalto inglese del 1150 campeggia l’iscrizione “L’arte è superiore all’oro e alle gemme. Ma superiore a tutto è il committente”. Queste frase è sicuramente emblematica di come, durante i lunghi secoli del Medioevo, il ruolo del mecenate sia di assoluto primo piano, anche e soprattutto rispetto all’esecutore materiale di un’opera d’arte. Lo schiacciante prestigio del committente nei confronti dell’artista risulta evidente dalle numerose iscrizioni destinate a celebrare l’attività di mecenatismo e dalle numerose fonti medievali che con zelo eternano figure di grandi sostenitori dell’arte, come Suger di Saint-Denis o Bernardo di Hildesheim, lasciando nel più totale anonimato il “braccio armato” di questa operosità, ovvero l’artista. Già l’artista. In realtà è proprio in questa definizione e nel ruolo sociale che ha l’autore di opere d’arte nel Medioevo che è insito il problema.
L’inserimento dell’attività figurativa nelle arti meccaniche, sistematizzato nel V secolo da Marziano Capella ed ereditato concettualmente dall’impero romano, allontana gli artisti dall’élite culturale del tempo, costituita da coloro che esercitano invece le arti liberali, come poeti, letterati, filosofi e musici. L’artista diventa, quindi, un artigiano, non meritevole di riconoscimenti di tipo intellettuale, ma solo di ambito tecnico-manuale. Ed è un pregiudizio, questo, duro a morire. Tanto che, quando Dante nell’XI canto del Purgatorio (91-102) pone sullo stesso piano due miniatori, due pittori e due poeti, genera ancora indignazione tra alcuni dei suoi primi commentatori. Con Dante siamo comunque già agli albori di una nuova epoca, pronta alla rivalutazione sociale della figura dell’artista. Nei quasi mille anni che precedono la stesura della Divina Commedia, l’artista conosce, invece, un certo declino o, forse, sarebbe più corretto dire, una funzione diversa nella società.
Scomparsi il collezionismo e il mercato privato, il ruolo didattico che la Chiesa ha assegnato all’immagine non ha sicuramente come esigenza primaria l’apprezzamento estetico dell’opera e la glorificazione dell’artista. Le affermazioni di Paolino da Nola “Ho messo nella mia chiesa immagini bibliche per contadini non privi di religione, ma incapaci di leggere” o di papa Gregorio Magno “Ciò che è la scrittura per coloro che sanno leggere è la pittura per gli analfabeti” contribuiscono a creare una distanza incolmabile tra la dignità della parola scritta e il valore dell’immagine, destinata la prima a un pubblico colto e la seconda fondamentalmente agli ignoranti. Inoltre la destinazione comunicativa e propagandistica di gran parte delle opere d’arte comporta la “sottomissione” dell’artista ai potenti, religiosi o laici che siano, che finanziano la creazione e soprattutto si occupano, coadiuvati o meno, anche di dettare i programmi iconografici. Così l’autore dell’opera d’arte diventa più semplicemente un artifex, allontanandosi in modo irreparabile dalla nostra attuale concezione dell’artista, spesso unico e geniale, e perdendosi nel mare dell’impersonalità. Questa dell’anonimato è, infatti, una costante dell’artista medievale, solo raramente sovvertita: l’inventiva individuale è schiacciata dalla subordinazione alla volontà della committenza e dal valore dogmatico attribuito alla tradizione figurativa.
Il Medioevo si presenta pertanto ai nostri occhi con un patrimonio straordinario di opere e monumenti senza padre, il cui alto valore artistico, riconducibile a figure di alto spessore, ha portato spesso alla creazione di personalità di comodo, individuate dalla denominazione “Maestro di ”, come per il geniale miniatore di epoca ottoniana chiamato Maestro del Registrum Gregorii o per l’acuto scultore definito Maestro di Cabestany, dalla piccola località presso Perpignan dove scolpisce uno dei suoi capolavori. Se da un lato è stata questa un’azione utile, soprattutto per fini classificatori, i suoi limiti sono emersi a pieno nel rischio di soffocare il ruolo chiave svolto nel Medioevo dalla bottega dell’artista e nell’errore di creare solo singoli protagonisti della storia dell’arte, come dal Rinascimento in poi. Tuttavia, in questo mare magnum di opere adespote emergono, per i secoli dall’alto Medioevo al XII, alcune interessanti eccezioni, che permettono di acquisire importanti informazioni sul ruolo sociale dell’artista, o artigiano, nella società medievale.
Non esistendo nel Medioevo una storiografia artistica, alla Vasari per intenderci, i nomi e le notizie sugli artefici si debbono ricavare da altre fonti, quali lettere, contratti, necrologi delle cattedrali, vite di eminenti personaggi religiosi e politici, nonché le opere firmate dagli stessi esecutori. La firma, che racchiude in sé una forte spinta autoreferenziale, è infatti assai rara nell’alto Medioevo, pur non mancando qualche eccezione. Nella fronte dell’altare principale della chiesa di San Pietro in Valle a Ferentillo (Terni), commissionato da Ilderico Dagileopa, duca di Spoleto tra il 739 e il 742, attira l’attenzione una curiosa figura maschile, colta nell’atto di brandire uno strumento appuntito e individuata dall’iscrizione “Ursus magester”, che “fecit” l’opera. Ursus, pertanto, non solo lascia la sua firma, ma addirittura si ritrae sull’altare, probabilmente anche accanto al committente. L’autorappresentazione è, insieme alla firma, uno dei primi segnali di affermazione della propria personalità da parte dell’artista. Un caso eccezionale in tal senso è costituito dal Vuolvino che realizza, tra l’824 e l’859, l’altare d’oro della chiesa di Sant’Ambrogio a Milano: qui l’artista, sulla faccia posteriore, firma l’opera e si ritrae in adorazione del santo milanese. Tale onore può essere giustificato dal fatto che Vuolvino è forse un religioso, un monaco, e dal suo ruolo di orefice; rispetto agli altri artigiani, infatti, nella cultura medievale chi si occupa di oreficeria è tenuto in maggior credito, come già il famoso sant’Eligio, sia perché impegnato a trattare materiali di estremo pregio, sia perché destinato a realizzare principalmente reliquiari e oggetti liturgici, che godono all’epoca di grande considerazione.
A parte i casi anomali di Ursus e Vuolvino, la conoscenza degli artisti prima dell’anno Mille si limita solamente a isolate firme, come quella del magester Iohannes della lastra dell’abate Cumiano a Bobbio, del Paganus, che autografa l’intradosso di una delle finestre del Tempietto di Cividale del Friuli, o degli artefici del ciborio di San Giorgio in Valpolicella (Verona), Ursus, Iuventino e Iuviano, che si inseriscono nell’iscrizione dedicatoria dopo il re Liutprando. Anche le cronache, come quella di San Gallo, scritta intorno alla metà dell’XI secolo, forniscono a volte preziose informazioni sugli artisti e sul loro status. Uno dei protagonisti del racconto del monastero di San Gallo è sicuramente Tuotilo, artista-monaco della fine del IX secolo, “eloquente, brillante nel canto […] elegante nell’arte del cesello e della pittura”. La versatilità dell’attività artistica di Tuotilo rispecchia perfettamente il modello di artista poliedrico e polivalente proprio dell’età carolingia, con il suo carattere intellettualistico.
Il sistema artistico fondato sul predominio del committente, sull’anonimato degli artisti e sull’identificazione dell’arte con l’artigianato inizia a vacillare nel XII secolo. Accanto agli orafi, pure gli architetti conseguono un certo successo personale, dal momento che vengono riconosciute loro le cognizioni teoriche, oltre che pratiche, necessarie alla stesura di un progetto edilizio. Trattati con un discreto riguardo sono anche i miniatori che, con una certa fierezza, si rappresentano all’interno dello scriptorium con gli strumenti del mestiere, proprio come fa Hugo, che, alla fine dell’XI secolo, si raffigura con penna e raschietto, sottolineando di essere “pictor et illuminator” (Oxford, Bodleian Library, ms. 717, f. 287v).
Il segnale inequivocabile di un ritrovato orgoglio degli artefici si coglie non solo nel proliferare delle firme, ma soprattutto nella moltiplicazione dei solenni attestati pubblici, celebrativi o anche autocelebrativi. Nel duomo di Modena due lapidi commemorano rispettivamente l’architetto dell’edificio, Lanfranco, e lo scultore, Wiligelmo. Buscheto, il costruttore del duomo di Pisa, è inumato in un sarcofago posto sulla facciata della chiesa, mentre una lapide lo paragona a Dedalo, il mitico ideatore del labirinto di Creta; un’iscrizione commemora anche Rainaldo, che ha ingrandito il duomo pisano, definendolo “prudente costruttore e maestro”. Analogamente Nicolò è celebrato sulla facciata della cattedrale di Ferrara, mentre un’iscrizione sul pergamo del duomo di Pisa (ora a Cagliari) loda l’autore, Guglielmo, come il più capace tra gli artisti contemporanei. Ancora a Tolosa lo scultore Gilabertus è elogiato come “vir non incertus”.
In particolare il riconoscimento delle qualità e le parole di estremo elogio rivolte a Modena a Lanfranco – “famoso per ingegno, dotto e capace” – e a Wiligelmo – “tra gli scultori degno di onore” – lasciano oramai intendere un maggior contributo dell’artista e della sua sensibilità all’opera d’arte, rispetto all’esclusiva ingerenza dei committenti. In una ritrovata autocoscienza di sé, l’artista inizia a riconoscere di nuovo il proprio apporto e le proprie capacità, come mostra con orgoglio Bonanno Pisano che, dopo aver elogiato la bellezza dei battenti bronzei posti in opera nel duomo di Pisa nel 1180, si vanta di averli completati grazie alla propria perizia in un solo anno. Un interessante esempio di forte presa di coscienza è dato dalle famiglie di marmorari, come i Cosmati e i Vassalletto, attivi a Roma dal principio del XII secolo, quali veri e propri imprenditori del marmo. Il formulario delle loro firme, in cui è sempre e insistentemente rimarcata la romanità, attesta un’energica consapevolezza di sé, della propria arte e del loro essere in continuità con la Roma antica. Questa rinnovata ascesa sociale dell’artista porta con sé anche un miglioramento delle condizioni economiche, tanto che l’orafo Godefroy de Huy può permettersi di offrire all’abbazia di Neufmoûtier un prezioso reliquiario e il maestro vetraio Gerlachus donare al monastero di Arnstein una vetrata con il proprio nome accanto a un sommario autoritratto. Una straordinaria corrispondenza tra un orafo e l’abate Wibaldo di Stavelot informa sulla situazione difficile in cui può trovarsi un artista quando i committenti non lo pagano: “La mia borsa è vuota e nessuno di coloro che ho servito mi paga”. In fondo pecunia non olet anche nel Medioevo.