Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La crisi del Trecento non rappresenta sempre, per la vita rurale, una cesura brusca, ma innesca processi di riadattamento che avviano una ripresa già percepibile verso la metà del Quattrocento. Le principali direttrici del recupero riguardano una nuova fase di espansione colturale, una parziale riconversione dei coltivi e una maggiore diffusione dell’allevamento, praticati in modo fortemente differenziato, a livello locale, per caratteri, modalità e tempi di attuazione.
Nel Quattrocento, il mondo rurale è ancora lontano dall’avere riassorbito il dissesto indotto dal collasso demografico. Tuttavia strutture produttive, rapporti di proprietà e tecniche di lavoro non devono essere ricostituiti ex novo, anche perché molte fra le maggiori proprietà fondiarie sono sopravvissute, grazie a ricchezze tanto ingenti da permettere di superare le fasi più critiche, ad amministratori preparati, ad archivi ordinati.
Nei primi decenni del Quattrocento, chiusa la fase più acuta delle carestie, avviata la ripresa demografica, raggiunta anche una maggiore stabilità politica per via dei processi di costruzione statale in corso, queste proprietà – non sempre di origine signorile – ricominciano a crescere, benché i loro introiti siano ancora inferiori rispetto a un secolo prima.
Man mano che il numero degli uomini aumenta, si determinano le condizioni e si presenta l’esigenza di rimettere a coltura le terre abbandonate.
Le prime a essere valorizzate sono quelle che già in passato offrivano rese migliori: l’Île -de -France, per esempio, o l’Italia centro-settentrionale, per cui è determinante anche la vicinanza dei mercati urbani, a riprova del fatto che le possibilità di commercializzazione orientano ormai stabilmente le scelte dei proprietari fondiari. Verso la fine del secolo, i coltivi rioccupano – talora solo per pochi decenni – anche zone più marginali.
Spesso, per ottenere la rimessa in valore delle terre, vi si attirano i contadini con salari più alti, censi ridotti e contratti agrari di lunga durata, che garantiscono stabilità al lavoratore e favoriscono uno sfruttamento attento a non esaurire la fertilità dei suoli. Là dove i signori dispongono del controllo personale sui contadini, si fa ricorso anche all’alleggerimento dei gravami servili, come avviene in alcune aree tedesche, francesi o scozzesi.
Ma questa linea di condotta non sempre viene mantenuta nel tempo, né viene adottata ovunque: una parte dei proprietari sceglie invece di far leva sui propri poteri di coercizione (reazione signorile) per rimettere in auge privilegi caduti in disuso, ma anche per imporre nuove esazioni o addirittura una nuova fase di servaggio che – colpendo la terra e non le persone – si estende a tutti gli abitanti di un determinato luogo. Adottate anche in aree della Francia e dei Paesi Bassi, queste misure hanno carattere più generale e stabile in Spagna, in Italia centro-meridionale e in Europa orientale.
La condizione contadina, peraltro, può inasprirsi anche là dove gli oneri vengono ridotti, poiché la riscossione dei canoni diventa più precisa e aumentano determinazione e rigore nella persecuzione degli insolventi: sono gli effetti di un’amministrazione che si è fatta più attenta e meglio organizzata. Le stesse caratteristiche, gradualmente, sono assunte dalla fiscalità pubblica, che pure si scarica sui contadini.
L’Italia centro-settentrionale mostra un altro volto della ripresa agraria, in controtendenza rispetto al prolungamento dei contratti d’affitto, ma in sintonia con una ripresa che non si accompagna, se non per breve tempo, all’alleggerimento delle condizioni dei lavoratori rurali. I proprietari toscani ed emiliani approfittano del dissesto demografico per riorganizzare le aziende agricole, costituendole in unità territorialmente compatte e dotandole di case coloniche e infrastrutture (appoderamento); i poderi vengono affittati mediante contratti che prevedono anche la fornitura di sementi, attrezzi e animali, ma non offrono stabilità ai contadini (la durata oscilla fra uno e cinque anni), li impegnano a pesanti lavori di miglioria e, soprattutto, impongono la consegna di una quota importante del raccolto, di solito la metà (da cui il nome di mezzadria dato ai nuovi contratti). In questo modo, i proprietari si garantiscono sia dalle fluttuazioni dei prezzi (che svalutano i censi in denaro), sia dalla rigidità della contrattualistica parziaria a lungo termine, che – oltre a prevedere canoni più modesti – impedisce di profittare di condizioni favorevoli nel momento della rinegoziazione.
Una delle vie della ripresa rurale è la riduzione della cerealicoltura: i produttori hanno ormai appreso che la coltivazione dei grani è poco remunerativa (se raffrontata ai profitti offerti dalle colture industriali, dalla frutta, dalla carne), e ancor più lo è diventata dopo il calo demografico e il relativo aumento salariale dei lavoratori agricoli. Ciò appare con particolare evidenza dove è più sensibile l’influsso del mercato urbano e più forte la presenza, nel ceto proprietario, di elementi provenienti dalla borghesia degli affari: si tratta, ancora una volta, di una condizione tipica delle campagne dell’Italia centro-settentrionale, ma anche di vaste aree inglesi e francesi.
Le terre sottratte alla cerealicoltura hanno destinazioni colturali diverse: leguminose (piselli, fagioli, vecce), radici commestibili (rape soprattutto), piante da foraggio. Anche lo spazio destinato alle colture tessili si accresce, laddove le condizioni dei suoli lo consentono e vi è la possibilità di assicurare la manodopera necessaria: è il caso, per esempio, della valle della Mosella, ove si diffonde il lino. Anche la vite, l’olivo, il gelso, il riso, la canapa, lo zafferano, gli alberi da frutto e gli ortaggi guadagnano terreno, in estese zone della Francia e dell’Italia centrale e settentrionale.
Un aspetto importante, in questa trasformazione, è rappresentato dall’attenzione alle vocazioni colturali dei suoli, meno considerate nei secoli altomedievali per la difficoltà degli scambi e in quelli del pieno Medioevo per l’eccessiva pressione demografica.
Fra gli impieghi cui si destina la terra liberata dalla cerealicoltura, uno dei più remunerativi è l’allevamento del bestiame. Gli animali, soprattutto gli ovini, rappresentano un bene facilmente deteriorabile, per la vulnerabilità al clima e alle malattie infettive; essi richiedono tuttavia poca manodopera e forniscono numerose derrate: carne, latte, burro, lana, cuoio. Ciononostante, in passato, l’allevamento era stato poco diffuso, a causa della difficoltà di destinare a pascolo grandi superfici, in tempi di elevata domanda di cereali e di agricoltura estensiva. A partire dalla seconda metà del XIV secolo, il decongestionamento demografico crea le condizioni per dare slancio all’economia pastorale, soprattutto nelle vicinanze delle città, che offrono facile smercio sia per la carne, sia per i prodotti destinati alla lavorazione artigianale.
L’allevamento bovino si diffonde maggiormente in Norvegia, Danimarca, Polonia, Ungheria, Olanda, nelle regioni alpine. Ma l’aspetto più vistoso del fenomeno riguarda l’allevamento ovino. In Inghilterra, ove era già diffuso prima della crisi, fra Trecento e Quattrocento cresce fino a determinare la trasformazione del paesaggio rurale, che dagli open-fields a coltura cerealicola e dalle terre comuni passa a un sistema di recinzioni (enclosures), mediante le quali i maggiori proprietari si impadroniscono dei campi aperti (a danno della comunità rurale), li accorpano alle proprie terre, li destinano a prato e li affidano a mercanti di lana o di bestiame. L’impatto sulla popolazione rurale è tale da indurre Tommaso Moro a scrivere nell’Utopia: “Le vostre pecore [ ] cominciano a essere così voraci e indomabili da mangiarsi financo gli uomini, da devastare, facendone strage, campi, case e città”; nel lungo periodo, tuttavia, le trasformazioni tardo-medievali costituiranno un’importante precondizione dello sviluppo manifatturiero inglese. Diverse saranno invece le sorti di altre aree (Pirenei, Spagna, Italia meridionale, Sicilia, Sardegna), ove pure la debole coesione delle comunità contadine facilita l’invasione delle greggi e rafforza la grande proprietà fondiaria, disgregando l’habitat rurale.