Parkinson, James
Il morbo di Parkinson: una testimonianza
Il primissimo effetto di una diagnosi del morbo di Parkinson, molto prima che i sintomi diventino veramente disturbanti, è quello di ‘derubare’ una persona del suo futuro. Perché quando si sa di avere una malattia cronica e degenerativa l’orizzonte inevitabilmente si restringe ogni anno che passa. Ed è chiaro come questo ‘furto’ del futuro sia tanto più drammatico quanto più si è giovani all’esordio dei sintomi. Il momento della diagnosi è cruciale per tutti, e non sorprende che una difesa psicologica spesso usata per assimilare la brutta notizia con la gradualità necessaria, sia convincersi che il medico sia in errore. D’altra parte una diagnosi di Parkinson può anche essere accolta con sollievo se giunge a fugare il dubbio riguardo all’eventualità di una malattia forse mortale.
È assai comune tra i pazienti parkinsoniani un’intensa sofferenza psichica, un malessere emozionale profondo di cui è in gran parte responsabile una fra le più penose peculiarità di questa malattia: la visibilità dei sintomi. Postura curva, passi piccoli e incerti, il caratteristico tremore, accanto ai quali, a qualche anno dalla diagnosi, fanno la loro comparsa gli effetti collaterali della terapia dopaminergica, le cosiddette discinesie: contrazioni muscolari incontrollabili che rendono i movimenti di una persona così strani che chi la osserva rimane come ipnotizzato e non riesce a distogliere lo sguardo. Il problema del deteriorarsi dell’aspetto è un problema vastissimo e sommerso e sicuramente ha una parte non da poco nell’isolamento cui si condannano molti pazienti. Gli esseri umani sono per loro natura socievoli e il sentimento della propria diversità è duro da sopportare.
C’è poi un complesso di sintomi in questa malattia che lede, a diversi livelli, la capacità di comunicare. Con la compromissione dell’eloquio, con la perdita dei movimenti spontanei e automatici ai quali è affidato lo scambio di quei segnali subliminali che tanta parte hanno nelle interazioni umane, con il venir meno del linguaggio del corpo, della mobilità e dell’espressività della voce e del viso, qualche cosa di essenziale va irrimediabilmente perduto. Come se qualche cosa si spegnesse ‘dentro’ e l’essenza stessa di una persona diventasse remota, opaca e irraggiungibile.
Tra le molte limitazioni imposte dalla malattia nella quotidianità, ci sono quelle relative ad attività sociali come andare al cinema, a teatro, a un concerto, luoghi dove si rischia sempre di sentirsi chiedere se, per favore, non ci si possa muovere un po’ meno. Ancora più difficile è pranzare al ristorante dove sarebbe inevitabile patire l’indicibile tortura di stare seduti, fermi, con tutta la compostezza richiesta a tavola, per più di dieci minuti. Decisamente più imbarazzante può risultare alloggiare in un albergo o andare a fare acquisti aspettando un tempo interminabile nei pressi di un negozio fino a cogliere il fuggevole momento in cui le discinesie si calmano ma non è ancora subentrata la successiva fase di blocco.
I modi in cui i pazienti reagiscono alle circostanze descritte sono diversi: molti si lasciano sopraffare dalle difficoltà, rinunciano alla lotta e si autoemarginano segregandosi tra i muri di casa. Altri, più determinati, assimilando il morbo di Parkinson a un acerrimo nemico, ingaggiano valorosamente molte battaglie, non tralasciando nulla di quanto può essere fatto per compensare i danni causati dalla malattia. In questi ultimi anni si è senza dubbio sviluppata una maggiore consapevolezza da parte di molti pazienti, che hanno imparato a conoscere le dinamiche basilari della malattia e della terapia e che sono in grado di discutere con il loro medico le scelte terapeutiche più opportune.
Ferma restando l’importanza fondamentale dell’informazione scientifica ai fini di un controllo ottimale dei sintomi, si presenta talvolta l’eventualità di una sua ipervalutazione. È invece importante ricordare che – in una prospettiva umanistica che consideri l’uomo nella sua totalità di corpo, mente e spirito – il tempo della malattia non è necessariamente un tempo perso e inutile ma, al contrario, può essere un periodo di fecondo risveglio interiore. In quest’ottica è essenziale, per la persona sofferente, la capacità di trovare dentro di sé la forza necessaria a operare il passaggio da una rassegnazione amara a un’accettazione serena della malattia. L’accettazione della malattia, a partire dal momento della diagnosi, è un processo graduale, lungo e faticoso, una discesa in sé stessi per venire a patti con la fine di sogni, progetti e speranze e con il degrado del corpo e delle sue funzioni. Vero viaggio iniziatico, dura prova per il corpo e per l’anima, dal quale è data però la possibilità di tornare con il sapere necessario a ricostruire la propria esistenza anche in presenza di una malattia cronica e grave.
Non è facile dare un significato positivo a un cerchio che restringe sempre di più l’orizzonte, ma col passare del tempo il paziente parkinsoniano incomincia a realizzare che molte delle cose a cui si è dovuto rinunciare erano cose superflue e che di molte di esse in realtà si può fare benissimo a meno. Il compito più difficile non è più, allora, tagliare i rami secchi della propria vita, ma scoprire nuove vie del pensiero e dell’azione lungo le quali cercare valori e idee con i quali riuscire a ridare anima e senso alle proprie giornate. Allora il paziente ansioso di conoscenze potrebbe finire con lo scoprire che quell’orizzonte che sembrava restringersi fino a soffocarlo, in realtà è andato dilatandosi sempre di più, aprendo prospettive insospettate sugli spazi infiniti del suo spirito.