TIVARONI, Jacopo
TIVARONI, Jacopo. – Nacque a Padova il 15 marzo 1877 da Carlo e da Marianna Keller Foscarini.
Il padre (v. la voce in questo Dizionario), dalmata di nascita, era stato garibaldino ed esponente di spicco nei moti insurrezionali del Trentino, eletto deputato nel 1882 nelle fila dell’estrema sinistra e poi prefetto di Teramo e Verona, infine autore di una monumentale Storia critica del Risorgimento italiano (I-IV, Torino-Napoli-Roma 1888-1897).
Al carattere esuberante del padre corrispose la personalità schiva e modesta del figlio Jacopo, il quale comunque ne assorbì in gioventù l’influenza politica: dichiarandosi radicale e vicino ai socialisti, non mancando di collaborare alla Critica sociale, e occupandosi della questione dell’irredentismo nelle pagine della rivista La vita internazionale. Conclusi gli studi liceali si iscrisse nel 1894 alla facoltà di giurisprudenza di Padova, già con l’intento di approfondire gli studi economici per dedicarsi all’insegnamento. Qui ebbe come docenti Achille Loria per l’economia politica, Carlo Francesco Ferraris per la statistica e Giulio Alessio per la scienza delle finanze. Più che dalla singolare concezione economica di Loria – nei cui riguardi fu però sempre rispettoso e che certo frequentò nell’ambito della sezione padovana dell’Unione morale, associazione italiana per la cultura etico-sociale, di cui entrambi erano membri – Tivaroni fu influenzato dalla visione storica ed empirica della scienza economica propria della scuola tedesca, cui erano affini Ferraris e Alessio. Una visione che fu rinforzata dagli studi che condusse a Monaco nel 1901, discepolo di Lujo Brentano, Walter Lotz e Georg von Mayr, quest’ultimo allora in Europa noto esperto di statistica amministrativa e finanziaria.
Tivaroni economista fu per tutta la sua vita uno studioso accurato, privo di attitudine teorica, ma capace di intendere e divulgare la teoria, eminentemente empirico e convinto della natura storica e sociale dei fenomeni economici e specialmente finanziari, la cui dinamica doveva essere indagata attraverso il costante ricorso all’indagine statistica. A valergli nel 1901 la libera docenza nell’Università di Padova fu un lavoro statistico sulla misurazione del Patrimonio e reddito di alcune nazioni civili (Torino 1901). Si trattava di uno studio meticoloso per mole di dati riferiti, che rilevava per l’Italia una diminuzione del patrimonio a partire dal 1889. Nel Giornale degli economisti (1901, vol. 23, pp. 312 s.) il libro fu favorevolmente recensito da Bernardo Attolico, ma anche criticato in un articolo di Carlo A. Conigliani (Sul preteso decremento del patrimonio nazionale italiano, pp. 611-616), che ne contestò il risultato appuntandosi correttamente sulle approssimazioni del metodo di calcolo del patrimonio nazionale, già in precedenza adottato da Maffeo Pantaleoni (Dell’ammontare probabile della ricchezza in Italia, Roma 1884), basato sui valori trasferiti per successione ereditaria da ciascuna generazione. In particolare, Tivaroni aveva riportato le variazioni della ricchezza nazionale su medie quinquennali non coerenti con il metodo di calcolo, oltre ad aver trascurato l’evasione e la variabilità ciclica di alcune categorie di redditi. Pur con questi limiti, lo stesso Conigliani riteneva apprezzabile lo studio, che manteneva l’impegno espresso in premessa dall’autore di fornire al legislatore una base conoscitiva per il disegno dell’imposizione e dei possibili effetti distributivi: un tema sul quale Tivaroni sarebbe ritornato a più riprese a partire dal 1905 (Traslazione ed incidenza delle imposte, Padova) fino al 1935 (La pressione tributaria attraverso il tempo, in C. Gini, Trattato elementare di statistica, IV, Milano).
All’indagine della distribuzione della ricchezza in Italia, egli dedicò un successivo volume (Come correggere l’odierna distribuzione della ricchezza, Torino 1902) che mostrava una maggiore solidità e confermava lo scrupolo nel ricorso alle fonti statistiche, questa volta utilizzate descrittivamente per analizzare gli istituti sindacali, di beneficenza e cooperativi in rapporto alle funzioni dello Stato. Il proposito ambizioso era quello di individuare nello studio concreto dei fatti economici un programma di riforma sociale ispirato al temperamento tra le posizioni socialiste e liberali. Delle prime Tivaroni dichiarava di accogliere la lotta di classe come principio volto a spiegare la statica e la dinamica dei fatti dell’economia pubblica, osservati nelle politiche attuate con il sostegno della borghesia liberale più attenta alle istanze della società. Il riformismo era dunque l’esito di una solidarietà sociale che riteneva avesse già animato scelte finanziarie rilevanti del Parlamento italiano. Di qui la sua critica alla teoria politica della finanza pubblica, che Loria e Conigliani ritenevano caratterizzata dal dominio egoistico degli interessi della classe dominante su quelli della classe lavoratrice. Tivaroni sosteneva che questa concezione non fosse confermata nelle scelte di politica sociale e finanziaria che, sotto la necessaria pressione delle organizzazioni dei lavoratori e attraverso l’azione nei Parlamenti delle rappresentanze socialiste, si erano spesso tradotte in interventi di spesa pubblica e legislazione sociale sostenuti anche da una parte delle classi economicamente dominanti. Ne era pure evidenza la crescita progressiva delle spese pubbliche secondo la legge individuata dall’economista tedesco e «socialista della cattedra» Adolph Wagner, al cui riformismo sociale Tivaroni esplicitamente si ispirava (Come correggere l’odierna distribuzione della ricchezza, cit., p. 5). Sul piano della teoria della finanza pubblica, l’osservazione di questi fatti lo conduceva non solo alla critica della concezione politica della finanza, ma anche alla discussione più generale del movente utilitaristico delle scelte finanziarie sul quale era impostata l’interpretazione economica dell’imposizione come prezzo dei beni e servizi pubblici, secondo la teoria di cui erano stati artefici sul finire dell’Ottocento Maffeo Pantaleoni, Antonio De Viti De Marco, Giuseppe Ricca Salerno ed Emil Sax. Tivaroni riteneva che i fenomeni della finanza pubblica, pur trovando nel movente politico un dato perturbatore delle scelte finanziarie teoricamente fondate sull’ipotesi economica del prezzo-imposta, avevano come criterio regolatore il principio sociologico riconoscibile nell’evoluzione storica dei sistemi di imposizione. Con ciò egli si iscriveva solo apparentemente alla cosiddetta scuola sociologica della finanza pubblica. Infatti, la derivazione della sua concezione non era dalla sociologia di Vilfredo Pareto, che avrebbe influenzato l’opera di economisti rappresentativi come Gino Borgatta e Guido Sensini, ma dall’indagine istituzionale ed empirica dei sistemi tributari e dei bilanci pubblici, nei quali riconosceva il gioco della contrapposizione democratica tra gli interessi delle classi sociali presenti nel Parlamento. Con l’esito frequente di scelte finanziarie che manifestavano il prevalere di forme di solidarietà tra gli interessi politici in gioco: così nelle vicende storiche del debito pubblico italiano, che aveva scandagliato in una sua opera giovanile (Storia del debito pubblico del Regno d’Italia, Pavia 1908-1910); nel disegno delle Imposte dirette sulla ricchezza mobiliare e sul reddito (Torino 1904), che mostravano un progressivo alleggerimento sui redditi minori; nell’evoluzione dell’Imposta sulle successioni nella finanza contemporanea (Torino 1916), che riteneva tendesse a svincolarsi da storici condizionamenti di carattere politico. A questa impostazione metodologica della scienza delle finanze egli rimase sempre fedele (Contributo allo studio del carattere dell’attività finanziaria dello Stato, in Archivio finanziario, 1949, pp. 319-331), con un afflato sociale e una spiccata attenzione ai fatti concreti degli effetti della spesa pubblica, della pressione dei tributi e della misurazione della ricchezza, senza trascurare gli aspetti tecnici dei Metodi di accertamento della ricchezza imponibile (Torino 1912).
La vocazione all’indagine empirica, la critica della teoria politica e le riserve nei confronti della teoria economica della finanza pubblica non giovarono alla sua carriera accademica in un tempo in cui la scienza delle finanze italiana diede contributi teorici elevatissimi. Dopo il conseguimento della libera docenza ricoprì per breve tempo l’ufficio di vicesegretario nel ministero di Agricoltura, Industria e Commercio e nel 1904 entrò per concorso nell’insegnamento secondario, come docente negli istituti tecnici: a Cremona, a Pavia dal 1905 al 1911, a Padova fino al 1923 e infine, come preside, a Udine fino al 1925. L’insegnamento fu interrotto dalla partecipazione alla Grande Guerra con il grado di sottotenente, ma assegnato al Commissariato per gli approvvigionamenti e consumi come addetto al Bollettino e stampa. Quell’esperienza gli consentì di considerare con favore l’azione statale nel controllo dei consumi alimentari, al tempo criticata da Umberto Ricci e Maffeo Pantaleoni, e lo stimolò alla preparazione nel dopoguerra di una breve monografia sui Monopoli governativi del commercio e le finanze dello Stato (Bari 1920).
Al termine del conflitto Tivaroni affrontò, nel 1918, la perdita della minore dei suoi due figli – il maggiore, Carlo, sarà poi avvocato, seguendo la tradizione familiare – nati dal matrimonio contratto nel 1903 con Elena Malgarini, figlia del giurista Alessandro. E tornò all’insegnamento. Della sua qualità come docente hanno scritto due suoi studenti illustri, Sergio Steve e Antonio Uckmar, ma la vera testimonianza è nel successo che riscosse il suo Compendio di scienza delle finanze, pubblicato da Laterza la prima volta nel 1908 e aggiornato sino alla dodicesima edizione nel 1949. Si tratta di un manuale limpido e completo nell’esposizione degli istituti finanziari, apprezzato anche da un recensore attento come Benvenuto Griziotti (in Giornale degli economisti, 1919, vol. 49, p. 202), destinato formalmente all’insegnamento negli istituti tecnici, ma accolto anche in quello universitario. Contemporaneamente all’insegnamento secondario Tivaroni mantenne anche quello universitario come professore straordinario di scienza delle finanze dall’anno accademico 1913-14 nell’Università di Ferrara, dove ricoprì anche l’insegnamento della statistica. La modesta condizione economica dei professori straordinari non gli consentiva infatti di rinunciare all’insegnamento secondario, che lo vide anche attivamente impegnato nella Federazione nazionale degli insegnanti della scuola media, e che abbandonò soltanto nel 1925, quando fu nominato per concorso professore ordinario nell’Università di Cagliari, dove rimase sino al 1927, anno del trasferimento nella sede definitiva dell’Università di Genova.
Rispetto al fascismo Tivaroni si tenne appartato. Politicamente era stato democratico e anche iscritto al Partito radicale, nelle cui fila nel 1913 aveva partecipato senza successo alle elezioni comunali di Padova. Il corporativismo non ebbe posto nella sua produzione scientifica, salvo il necessario riferimento alla finanza corporativa nel suo Compendio di scienza delle finanze. Fu fascista per richiesto giuramento da insegnante al cui ruolo non voleva né poteva rinunciare, come egli stesso tenne a dire nei suoi Ricordi di un vecchio docente di scienze economiche (in Rivista di politica economica, XXXIX (1949), pp. 871-894). La sua produzione scientifica negli anni Venti e Trenta fu essenzialmente concentrata sugli studi del colonialismo e della spesa pubblica, prevalentemente pubblicati in Giornale degli economisti, Rivista di politica economica e Rivista internazionale di scienze sociali. Allo studio degli effetti economici delle colonie si era dedicato mosso dalla preoccupazione per la sovrappopolazione italiana in rapporto alla capacità di assorbimento di forza lavoro da parte del sistema produttivo nazionale; inoltre, aveva indagato la struttura e i flussi della finanza coloniale, non solo italiana. Gli studi che condusse sulla spesa pubblica furono paralleli a quelli sui problemi di misurazione dei redditi e della pressione tributaria. Della spesa pubblica accoglieva l’interpretazione produttivistica della tradizione tedesca della scienza delle finanze. Il rapporto tra imposte e spesa pubblica era cioè di impiego, cosicché la produttività della spesa era nella capacità di tradursi in beni e servizi pubblici corrispondenti ai bisogni della collettività e anche funzionali alla produzione di beni privati. Tivaroni, classificando la spesa pubblica in relazione ai suoi scopi, ne indagò gli effetti sia sull’efficienza produttiva sia sulla distribuzione dei redditi. L’aspetto distributivo lo condusse a discutere i metodi di misurazione dei redditi, sul piano teorico ed empirico, anche muovendo alcune critiche apprezzabili al metodo di Irving Fisher sulla confrontabilità tra i bilanci famigliari (Il metodo statistico di Irving Fisher per la misura della utilità finale ed una recente critica ad esso rivolta, in Rivista di politica economica, XIX (1929), pp. 1060-1071). La questione del rapporto tra spesa pubblica e svalutazione monetaria, accennata negli studi degli anni Trenta, lo stimolò alla scrittura di quello che fu il suo ultimo lavoro di carattere divulgativo (Dialoghi su la moneta, Bari 1948) sulla teoria monetaria classica e sulle funzioni della moneta, non a caso simpatetico con il Keynes del Treatise on money (London 1930). Nel 1948 aggiornò ancora il suo Compendio di scienza delle finanze e nel 1949 scrisse un profilo autobiografico, specialmente della sua esperienza di insegnante. Ma non ne vide la stampa.
Morì a Genova nel giugno dello stesso anno.
Fonti e Bibl.: Notizie su Tivaroni sono reperibili a Ferrara, Archivio storico dell’Università. Per una bibliografia sufficientemente completa degli scritti si rimanda a quella riportata nel volume Finanza pubblica contemporanea. Studi in onore di J. T., a cura di C. Arena et al., Bari 1950, pp. 9-16; S. Steve, J. T., in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, dicembre 1949, p. 332; A. Uckmar, Necrologio, in Annuario della Università di Genova, a.a. 1950-51, pp. 529 s.; D. Fausto, La scienza delle finanze in Italia nel trentennio 1915-1945, in Studi economici, 2013, 111, pp. 69-168; R. Braccia, La facoltà di giurisprudenza di Genova tra fascismo e Liberazione (1938-1950), in Giuristi al bivio. La facoltà di giurisprudenza tra regime fascista ed età repubblicana, a cura di M. Cavina, Bologna 2014, pp. 123-140.