GATTILUSIO, Jacopo
Figlio secondogenito di Jacopo (Francesco II) e di Valentina Doria, nacque probabilmente intorno al 1390 a Mitilene. La sua famiglia, genovese di origine, aveva ricevuto in feudo nel 1355 l'isola greca di Lesbo. Dopo l'improvvisa morte del padre (che fu signore di Lesbo con il nome dinastico di Francesco II) avvenuta nel 1403, essendo già morto il fratello maggiore, Giorgio, fu proclamato nuovo signore di Lesbo sotto la reggenza del prozio, Niccolò (I) signore di Enos. Alla morte di quest'ultimo, nella primavera del 1409, il G., nonostante l'età, fu considerato maggiorenne e poté quindi iniziare il proprio governo personale, mentre il più giovane dei suoi fratelli, Palamede, ricevette in eredità la signoria di Enos, la cui reggenza venne affidata allo stesso G. almeno fino al 1413, come attestano una serie di rogiti notarili dell'epoca. In seguito, il G. attribuì all'altro suo fratello, Dorino, la signoria della città di Focea Vecchia, sulla costa dell'Asia Minore, che suo padre aveva ottenuto dalla Maona di Chio fin dal 1402.
Distaccandosi dalla linea di prudente equidistanza seguita dallo zio negli anni della reggenza, il G. orientò progressivamente la propria politica in senso più marcatamente filogenovese, pur non esitando a cooperare anche con i Veneziani quando le iniziative politiche di questi ultimi non erano in conflitto con gli interessi della madrepatria. Scopo principale di tale politica fu quello di arginare l'espansione della potenza ottomana, la cui minaccia si faceva sempre più chiara con il passare degli anni per il signore di Lesbo, costretto dagli eventi a seguire una politica di prudente equilibrio nei confronti dei potenti vicini.
La politica di intervento in favore degli interessi genovesi nell'area egea seguita dal G. è ben esemplificata, tra l'altro, dall'azione di sostegno militare da lui intrapresa nel 1413-14 nei confronti del principe d'Acaia Centurione II Zaccaria, di origine genovese, nella guerra sostenuta da questo contro Leonardo Tocco, signore di Zante, e Stefano Zaccaria, arcivescovo di Patrasso, dietro ai quali si muoveva la diplomazia di Venezia, interessata ad attrarre il principato d'Acaia nella propria orbita politica; in modo analogo può essere interpretato l'accanirsi delle navi pirata che avevano le loro basi a Lesbo, signoria del G., contro la navigazione commerciale veneziana. Le pur violente tensioni sorte negli avamposti cristiani dell'Egeo dovettero però essere rapidamente superate a causa della necessità di definire una politica comune nei confronti della minaccia rappresentata dai Turchi osmanli, l'entità della quale doveva essere ben presente agli occhi del G., cognato del coimperatore Giovanni VII Paleologo e del despota di Serbia Stefano Lazarević che ne avevano subito direttamente le conseguenze. La lega anti-turca stretta su impulso veneziano fra il G., la Maona di Chio e i cavalieri di Rodi nel 1415 subì però una curiosa evoluzione, dovuta probabilmente all'opera dell'appaltatore di Focea Nuova, Giovanni Adorno, aggregatosi a essa, che portò i collegati ad allearsi con il sultano osmanlo Maometto I per combattere la flotta pirata dell'emiro selgiuchide di Aydịn, Kara Djunayd: un chiaro esempio dei continui accomodamenti che la situazione politica dell'area imponeva ai potentati cristiani nei confronti degli Ottomani.
Come l'emiro di Aydịn, però, anche lo stesso G. non esitava a continuare a offrire riparo nei suoi porti a navi di pirati, con cui spartiva i proventi delle prede. Tale attività provocò spesso problemi con la sua patria di origine, come nel caso di un attacco contro Damietta che, nel 1425-26, provocò la rappresaglia egiziana contro i mercanti veneziani e genovesi, causando momenti di tensione con il signore di Lesbo. In questa occasione egli si lamentò, giudicandoli illeciti, dei tributi imposti ai suoi sudditi nel porto di Chio dalle autorità genovesi, come risarcimento dei mercanti danneggiati in Egitto.
Questa politica, nella quale era comunque sempre presente come elemento di fondo il sostegno alla politica orientale di Genova, non dovette certo favorire i rapporti fra Venezia e il G., il quale aveva inoltre, forse già nel 1420, esteso la propria signoria ottenendo dall'imperatore Manuele II l'isola di Taso. È quanto porta a pensare, per esempio, la sollecitudine con la quale, nella primavera del 1426, Jacopo Isolani, governatore di Genova per conto di Filippo Maria Visconti (allora signore della città) avvertì il G. dell'approssimarsi di una guerra tra il Ducato di Milano e le Repubbliche di Firenze e Venezia, che avrebbe potuto minacciare i suoi possedimenti, anche se, nell'esaltazione della potenza del duca Filippo Maria, il governatore riteneva che tale minaccia potesse considerarsi trascurabile.
Il G. e i suoi fratelli furono considerati elementi fondamentali dello scacchiere politico del Levante anche da un governo come quello visconteo, generalmente poco interessato agli eventi di quest'area, probabilmente in virtù della necessità di impegnare il più possibile le forze veneziane. È in questa prospettiva che deve essere interpretata l'offerta indirizzata ai Gattilusio di aderire al trattato di pace stipulato da Genova, dietro pressione del Visconti, con Alfonso V d'Aragona, che venne loro rivolta nel maggio 1428, pochi giorni dopo l'ufficializzazione del trattato stesso (9 maggio).
I rapporti fra Genova e la Corona aragonese erano infatti tesi per la lunga lotta che le opponeva per il controllo economico e militare della Corsica. Al fine di minare ulteriormente il governo genovese, Alfonso d'Aragona sosteneva inoltre in vario modo i ribelli riuniti intorno all'ex-doge Tommaso Fregoso, allontanati dalla città quando questa si era posta sotto la signoria viscontea. L'accordo di pace portava così alla stabilizzazione dei rapporti fra Genova e gli Aragonesi ed eliminava la pericolosa alleanza fra Alfonso e i ribelli.
In quello stesso periodo, tuttavia, il G. dovette morire, anch'egli in età ancora relativamente giovane come il padre e il nonno, in quanto la risposta positiva all'offerta genovese venne data nell'ottobre dello stesso anno da suo fratello Dorino, succedutogli nella signoria di Lesbo.
Tale successione tra fratelli conferma la supposizione che il G. avesse avuto dalla moglie, probabilmente Bona Grimaldi, solo una figlia, andata in sposa a Niccolò Crispo duca di Nasso, e nessun erede maschio, o almeno nessuno che gli fosse sopravvissuto.
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