istituzionalismo
Insieme di approcci di studio che mirano a colmare il vuoto che la teoria tradizionale aveva lasciato circa la rilevanza economica delle istituzioni sia economiche (sistema bancario, codice commerciale, mercato del lavoro, sistema scolastico ecc.) sia politiche (modello di democrazia, sistema elettorale, forme di governo ecc.). La teoria tradizionale pretende di spiegare le scelte degli agenti economici, le loro interazioni e i risultati aggregati sotto un duplice assunto: per un verso, che motivazioni e preferenze dei soggetti siano dati a priori e siano formalizzabili mediante una ben definita funzione di utilità (➔ utilità, funzione di p); per l’altro, che l’assetto istituzionale entro cui i soggetti operano le loro scelte sia anch’esso esogeno, cioè sia un dato che, mentre condiziona le scelte individuali, non è da esse condizionato. Dunque, mentre l’economia tradizionale studia la scelta entro vincoli dati, l’i. si occupa della determinazione dei vincoli, ponendosi alla ricerca di strutture istituzionali ottimali.
Il ‘vecchio’ i. è associato ai nomi di T.B. Veblen e J.R. Commons e dei loro eredi, come D. Dillard, A. Gruchy, J.K. Galbraith, W.J. Samuels, K.E. Boulding e altri ancora. Esso conobbe la massima popolarità nel 1918, quando W.H. Hamilton presentò all’American Economic Association (➔ AEA) una relazione dal titolo The institutionalist approach to economic theory. Alla base del successo vi era la crescente presa del modo di fare economia dell’i. sull’opinione pubblica e sui leader politici. Il New deal (➔) di F.D. Roosevelt sembrò dare ragione alle aspettative ottimistiche degli artefici dell’i., i quali, di fronte alla situazione prodotta dalla grande depressione (➔), avevano soluzioni da proporre, che il governo adottò. Il pensiero istituzionalista era l’incarnazione dello spirito della frontiera, della capacità pubblica di influenzare positivamente il corso degli eventi.
Nel secondo dopoguerra, la teoria neoclassica, forte dell’assimilazione della rivoluzione keynesiana, divenendo egemone, finì con il provocare una graduale emarginazione degli studiosi istituzionalisti. La fondazione nel 1958 del «Journal of Law and Economics» all’Università di Chicago segnò la nascita del moderno neoistituzionalismo. Obiettivo centrale di questo programma di ricerca era l’indagine del modo in cui sistemi alternativi di diritti di proprietà e rapporti contrattuali a lungo termine concorrevano a determinare l’allocazione delle risorse (➔ allocazione) e a favorire il mantenimento nel tempo di posizioni monopolistiche o collusive. Rilevanti, a tale riguardo, sono stati i contributi di L. Hurwicz, J. Geanokoplos, J.E. Stiglitz e altri ancora.
Un campo di indagine di grande successo è quello inaugurato da D.C. North (Institutions and economic theory, 1992), il cui obiettivo principale è quello di correggere ed estendere la portata esplicativa della teoria neoclassica per consentirle di spiegare la nascita e l’evoluzione delle istituzioni economiche. Questo vasto progetto teorico ha trovato una felice applicazione allo studio della teoria dell’impresa e dei mercati. Perché esiste l’istituzione impresa? Perché si osserva una grande varietà di tipi d’impresa, di strutture gerarchiche, di diversificazione produttiva? A queste e simili domande ha dato risposta il contributo di O.E. Williamson (The economic institutions of capitalism, 1985). Riprendendo le iniziali intuizioni di R.H. Coase sulla natura dell’impresa del 1937, Williamson ha costruito l’approccio dei costi di transazione (➔), che gli ha permesso di delineare i vari passaggi organizzativi dell’impresa, dalla forma marshalliana classica alla grande conglomerata moderna.
Altro importante filone di ricerca del programma neoistituzionalista è quello della teoria dei diritti di proprietà, legato ai nomi di A.A. Alchian e H. Demsetz (The property rights paradigm, 1972) e di H.B. Hansmann (Ownership of the firm, 1988). Tesi centrale di quest’ultimo è che la proprietà dell’impresa deve essere attribuita alla classe di stakeholder (➔) che dimostra di essere capace di minimizzare la somma dei costi di contrattazione e dei costi di proprietà.