Introduzione alla scienza e tecnologia di Roma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La domanda: “Perché la civiltà greca non riuscì a sviluppare tecniche all’altezza della sua scienza?” è stata accompagnata, e per diversi secoli, da una domanda assolutamente simmetrica: “Perché la civiltà romana non sviluppò conoscenze scientifiche all’altezza delle proprie competenze tecniche?” Al pari della questione sollevata a proposito della scienza greca, la domanda concernente la scienza romana pecca di anacronismo. Preconcetti di ordine storiografico ed epistemologico hanno a lungo impedito una corretta valutazione delle molteplici fonti testuali e archeologiche a nostra disposizione.
Non vi è dubbio che, al pari della civiltà egizia, la civiltà romana abbia lasciato monumenti che sono sopravvissuti al tempo e alle distruzioni della storia. Contrariamente agli Egizi, che per la maggior parte utilizzavano il fiume Nilo per i loro spostamenti, i Romani hanno lasciato una rete di strade e di acquedotti, città e fortificazioni sparsi su un territorio che comprendeva l’Europa Occidentale, il Nord Africa, il Medio Oriente. Per alcuni secoli, le tecnologie militari, dall’organizzazione e amministrazione degli eserciti, sino alle tecniche di combattimento, conferirono ai Romani una supremazia indiscussa nel controllo del loro vasto impero. Non mancavano certo limiti importanti alle capacità di intervento sui fenomeni naturali. Per esempio, le tecnologie navali romane non riuscirono mai a risolvere il problema dell’insabbiamento dei porti e di come contrastare il lento accumularsi di detriti e sabbie fluviali in porti spesso situati in prossimità o direttamente all’interno di foci di corsi d’acqua.
L’ammirazione per i risultati raggiunti dall’ingegneria e dall’architettura romane si unisce ad un certo stupore per le scarsissime notizie che ci sono pervenute sulle figure professionali cui erano affidate imprese di tale rilievo finanziario e strategico. Un solo trattato di architettura ci è stato tramandato, il De Architectura di Marco Vitruvio Pollione, forse il più famoso teorico dell’architettura di tutti tempi – anche a ragione della ammirazione che ha circondato la sua opera a partire dall’umanesimo – su cui tuttavia ben poco si sa, e quel poco lo si deduce da scarni cenni autobiografici inseriti nella sua opera. Al pari di centinaia se non di migliaia di ingegneri-architetti attivi a Roma e nei territori dell’impero, anche Vitruvio è un autore senza volto, di cui ignoriamo la data e il luogo di nascita e di morte, come pure le vicende della sua vita. Il che illustra probabilmente lo scarso peso sociale di cui tali figure godevano nella società romana, anche se le eccezioni erano ovviamente possibili: lo stesso Vitruvio potrebbe infatti aver goduto di una pensione elargita dall’imperatore Augusto. Vitruvio descrive nel suo testo le competenze professionali dell’architetto, che oggi sarebbero ripartite tra ingegneri, esperti in tecnologie militari e idriche, architetti e ingegneri ambientali. Di enorme importanza sono le sue descrizioni di macchine belliche e civili, che offrono un panorama esaustivo del livello tecnico raggiunto dalla civiltà romana. Di particolare importanza il suo soffermarsi sui mulini ad acqua, la cui presenza in diverse località dell’impero, dall’Inghilterra all’Algeria di oggi, dalla Germania alla Francia e a Israele, suggerisce una loro integrazione nel sistema di approvvigionamento idrico e alimentare di diverse aree rurali e urbane.
La storiografia antica e recente non ha mai dubitato delle grandi capacità tecniche dei Romani, anche se solo negli ultimi tre decenni l’integrazione di reperti testuali e archeologici ha permesso di apprezzare con dovizia di dettagli le grandi competenze sviluppate dagli ingegneri-architetti Romani. Si è invece dubitato, e molto, sul contributo dei romani allo sviluppo delle scienze. Non vi è stato, in parole povere, un Euclide romano, e il grande Tolomeo era un egiziano imbevuto della grande cultura scientifica del mondo ellenistico. Come per il mondo greco, anche se all’opposto, interrogarsi sul perché i Romani non abbiano lasciato un contributo scientifico al livello delle loro grandi competenze tecniche serve solo a mettere in rilievo la persistenza dell’approccio anacronistico con cui si guarda al passato. Come se, in primo luogo, le grandi imprese edilizie romane non avessero richiesto conoscenze approfondite sui materiali impiegati, sugli equilibri strutturali che dovevano reggere arditi ponti, templi e anfiteatri, su un insieme di operazioni, in breve, che avranno sicuramente richiesto capacità di calcolo e di astrazione. Competenze che non si tradussero in trattati, come l’eccezione costituita da Vitruvio sembra confermare, ma che debbono essere state presenti e trasmesse di generazione in generazione in modo uniforme e standardizzato per tutto l’impero, probabilmente attraverso sistemi di apprendistato a livello di botteghe e più probabilmente di strutture militari.
In realtà, il vero anacronismo è legato alla questione della definizione di cosa costituisca una scienza. Siamo talmente – sebbene da non più di un secolo – convinti che scienza sia in primis tutto ciò che si esprime in termini matematici, o prende a modello le scienze fisico-matematiche, da ignorare completamente tutta una serie di discipline scientifiche e di pratiche umane che sono “scienza” allo stesso titolo, si costituiscono cioè in corpi testuali, in forme di intervento sul mondo che ci circonda, in dibattiti su mutamenti di prospettive e di pratiche. Ad esempio, la sottovalutazione delle scienze agricole romane, solitamente trattate come una irrilevante appendice nelle storie della letteratura latina, e come prova della scarsa attitudine alle scienze dei Romani in molte storie delle scienze, non è giustificabile né a livello della tradizione testuale disponibile, né a livello della lunga influenza che tali discipline esercitarono nella cultura occidentale. I paragrafi del presente volume dedicati a questo aspetto della scienza romana forniranno i dettagli necessari alla comprensione di questo importante settore delle attività scientifiche e produttive del mondo romano.
Credo tuttavia sia interessante citare un solo esempio della lunga fortuna delle scienze agricole romane e di come per secoli le Georgiche, il grande poema di Publio Virgilio Marone, continuò ad essere letto per le informazioni che forniva sulla agricoltura romana e la conduzione di una tenuta modello. Nel corso degli ultimi due decenni del XVIII secolo William Petty, marchese di Lansdowne, eminente politico Whig e grande proprietario terriero, amava riunire i suoi amici per leggere e commentare Virgilio. I suoi importanti investimenti per migliorare la conduzione delle proprie tenute si ispiravano direttamente all’ideale virgiliano, sia per quel che concerneva i doveri e le competenze del buon proprietario, sia per la consapevolezza delle competenze tecniche da mobilitare per migliorare la produzione. Lansdowne ebbe la fortuna di rendersi conto, grazie a geologi quali William Smith (autore della prima carta geologica d’Inghilterra, e forse della prima carta geologica “moderna”) che sotto le sue terre si celavano immensi giacimenti di carbone. Non a caso Lansdowne fece parte di quella fazione dell’alta aristocrazia che favorì lo sviluppo dell’industria, propugnando forme di liberalizzazione dei commerci e dei traffici interni e con l’estero. La trasmissione del testo virgiliano non conobbe praticamente soste nella tradizione occidentale, e probabilmente da più di un secolo siamo noi “moderni” a non comprenderne più la portata conoscitiva.
Il mondo romano fu caratterizzato da una grande fioritura di tecniche e dalla presenza di una pluralità di figure professionali altamente specializzate di cui riusciamo appena a intravedere i contorni, molto raramente a scorgere qualche volto. Per quel che concerne le scienze, occorre prestare maggiore attenzione a quelle forme di saperi che la civiltà romana coltivò con continuità e successo, “scienze” a pieno titolo, anche se la nostra visione della scienza è spesso talmente limitata da non permetterci più di apprezzare il contributo delle scienze naturali, dell’agricoltura, della silvicoltura e delle tecniche di allevamento allo sviluppo di grandi civiltà del passato remoto e recente.