Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel mondo della letteratura, il Novecento è il secolo che rischia di più, che sperimenta fino al limite, che mette in crisi più volte la funzione della parola scritta e la sua tradizione per poi più volte recuperarla. Forse lo si può definire, anche dal punto di vista letterario, un “secolo breve”, ma, a guardarlo da vicino, sembra lunghissimo, interminabile, diramato in tutte le direzioni, capace di ritornare su se stesso, fra strade e sentieri.
Il secolo inizia con l’esaltazione della velocità e termina con un ritorno alla lentezza, mette in crisi la concezione lineare del tempo e riscopre, nell’arco di un cinquantennio, lo spazio e il paesaggio, passa dalla fede nel progresso alla sua sfiducia, promuove la scomposizione (del racconto, del personaggio, delle forme poetiche) e finisce per ritrovare integro ciò che sembrava andato a pezzi, nasce nelle grandi metropoli europee (Parigi, Londra, Vienna, Berlino, Milano, Lisbona, Atene) e poi, con movimento centrifugo, torna alle periferie, alle province, ai microcosmi. Il Novecento conferisce alla letteratura una funzione conoscitiva centrale e questo mandato continua per tutto il secolo, anche se, soprattutto nel rapporto con la filosofia e la scienza, più volte il ruolo della letteratura rischia di essere abbassato a quello di un sottile gioco linguistico, e là dove si era intravista la ricerca del vero può tornare fuori, invece, l’intrattenimento, il kitsch. All’inizio del secolo le avanguardie sembrano rescindere ogni legame con il passato, all’insegna della modernità assoluta e della tabula rasa. I futuristi proclamano nello stesso tempo la fine della letteratura intesa come mezzo espressivo che segue regole tradizionali e la nascita di una nuova visione estetica complessiva dove sono coinvolte tutte le arti, dalla pittura alla musica al cinema, in una coesione che lascia in secondo piano proprio la parola scritta. Non è un caso che sia la vita delle nuove città industriali il centro del loro interesse, e che la parola venga potenziata attraverso nuovissime tecnologie, come la macchina o l’aereo. Dopo Marinetti, nessun artista esalterà come lui la bellezza superiore dell’automobile in corsa e tanto meno fingerà di scrivere teorie estetiche dalla carlinga di un aereo in volo. Ma la frantumazione della sintassi e la rottura della logica lineare mostrano anche un riflusso del futurismo verso linguaggi primitivi, irrazionali, fatti di evocazioni sonore. È l’aspetto notturno del movimento, quello che porta Marinetti a recuperare, dopo l’incontro con Mussolini e Julius Evola, fantasie arcaiche e sogni di palingenesi. Ed è anche quella componente ribellistica e anticonformista che offre appoggio alle tecniche sensazionalistiche sfruttate poi dall’industria culturale, come aveva intuito un secolo prima Tocqueville. L’apporto più notevole del futurismo, e del conseguente cubismo nel quale confluisce, consiste nelle sperimentazioni tecniche che, inseguendo il mito della velocità e della percezione simultanea, scompongono le forme letterarie con inedite operazioni di frantumazione e montaggio. Sono innovazioni che, assunte poi dal cinema, ritornano di nuovo a premere sulla letteratura, in particolare sul romanzo, per tutto il secolo. Dopo il futurismo, il surrealismo, fatto di tante anime diverse, porterà all’eccesso la sperimentazione, rovesciando il rapporto tra mondo della veglia e mondo onirico a favore del secondo, e prospettando una scrittura guidata dall’inconscio. Proclamerà il rappresentante maggiore del surrealismo, André Breton: “Trasformare il mondo, ha detto Marx, cambiare la vita, ha detto Rimbaud. Queste due parole d’ordine sono per noi una sola”. Molto di ciò che si era preparato alla fine dell’Ottocento arriva a maturazione nei primi due decenni del secolo nuovo. L’analisi del profondo, delle strutture psichiche e percettive, dei meccanismi dell’io, porta gli scrittori europei a elaborare grandi contenitori (romanzi, poemi, opere miste) dove questa analisi può inseguire nei particolari ogni sfumatura, insinuarsi negli interstizi, nelle zone d’ombra, portare alla luce l’inespresso. I nomi sono quelli di Proust, Joyce, Woolf, Mann, Kafka, Musil, Pirandello per la prosa, Rilke, Eliot, Pound, Valéry, Mandel’stam, Ungaretti, Montale, García Lorca, Pessoa, Gottfried Benn per la poesia. Con loro l’Europa letteraria, almeno fino agli anni Trenta, sembra una realtà coesa e sintonica. L’ipotesi che avvicina esperienze letterarie spesso tra loro dissimili sta nel valore di interpretazione totale del mondo che tutti questi scrittori sostengono. Anche quando nelle loro opere viene rappresentato l’assurdo, o l’inspiegabile, si tratta comunque di aspetti della realtà che hanno un valore esaustivo, e, soprattutto nel romanzo, i loro personaggi, pur scomposti in livelli multipli, diventano il prototipo dell’uomo europeo problematico. Nello straordinario romanzo La montagna incantata (Der Zauberberg, 1924), Thomas Mann immagina un personaggio, Hans Castorp, che si trova isolato in un sanatorio e partecipa ai dibattiti di idee che percorreranno tutta la prima parte del secolo, tra rivoluzionari e conservatori. Per quanto riguarda i narratori, l’innovazione fondamentale deriva dalla presa di coscienza che un evento non si può più narrare secondo una progressione lineare, secondo una catena logica di cause e conseguenze come fosse un insieme chiuso. Ora l’evento non si conclude mai, come avviene nella Recherche di Proust, ma torna ogni volta osservato da un’angolazione diversa, moltiplicato e con l’effetto di simultaneità tipico dei sogni. Oppure sono i dettagli, i particolari ininfluenti a venire a galla, unendosi, come avviene nell’Ulysses (1922) di Joyce, in catene di immagini (flusso di coscienza) che contengono tante microsituazioni possibili appena accennate e non sviluppate, ma aperte in tutte le direzioni del tempo. Dal punto di vista tecnico, questa è la grande e forse l’unica vera invenzione del Novecento: il montaggio di un insieme di unità (frasi, o al limite minimo, solo parole) che scorrono sulla pagina come scorrono nella coscienza, e ricordano il flusso delle merci sul mercato della nuova economia. Robert Musil, nell’Uomo senza qualità (1930-1933, ma letto dopo il 1950) descrive le vicende di Ulrich, per il quale è venuta meno la coerenza tra il prima e il dopo, e il mondo è ormai un insieme disgregato che il narratore non può più fingere di tenere insieme, così come il personaggio non può applicare le sue straordinarie qualità a nessuno scopo reale, anche se persegue sempre il principio dell’esattezza. E Pirandello arriva a far raccontare la propria storia a un uomo che in realtà non è ormai nessuno, non ha identità se non quella che gli viene appunto dal raccontare come ha perso ogni identità possibile (Il fu Mattia Pascal, 1904). Al contrario di quello che avveniva nell’Ottocento, nel romanzo ormai l’azione è un elemento da ridurre al minimo, e tutto il secolo cercherà di ritrovare il modo per riavvicinarsi alla realtà dei fatti senza cadere in un realismo che ignora la complessità. A risultare vincente, per parecchi decenni, sarà proprio la grande invenzione del flusso di coscienza (cioè il montaggio illogico e veloce di singoli pensieri lasciati liberi) che diviene subito lo strumento privilegiato per rappresentare le malattie dell’inconscio borghese (per esempio in Schnitzler), o per tenere insieme enciclopedicamente, come in Hermann Broch, la molteplicità incontenibile dei linguaggi (lirico, naturalistico, drammatico e filosofico). Ben presto il grande antagonista della letteratura diventa il cinema, e ben presto la letteratura non sembra potersi più permettere ciò che il cinema riesce a rappresentare efficacemente. Il cinema ha assunto dalla grande letteratura ottocentesca alcune tecniche (il dialogo, il montaggio, il trattamento del tempo) e ora le riesce a potenziare grazie alla sua specificità visiva. Se un film racconta in due ore una storia complessa come quella che riguarda un eroe, o un ricco uomo d’affari, e crea l’immagine di un viaggio interstellare, o di un mondo futuro, la letteratura deve rivolgersi all’invisibile, evocare l’inconscio, alludere a ciò che sta oltre la realtà, riaprire mondi che sembrano perduti, e riprendere le grandi narrazioni arcaiche, i miti e le allegorie, facendole funzionare di nuovo nel moderno. Come avviene spesso con i nuovi generi, quello che viene sfruttato con intensità in un certo momento culturale, difficilmente riesce a sopravvivere a lungo. Prima della metà del secolo, le grandi forme narrative e poetiche moderne sono già usurate, non corrispondono più a esigenze collettive. Mentre la prima guerra mondiale sembrava aver macabramente realizzato ciò che molte avanguardie auspicavano (l’esplosione delle forme, la simultaneità, la scomposizione, l’impatto violento del reale sull’uomo), la seconda guerra mondiale diventa un ricco, emozionante periodo di formazione esperienziale che, finita la guerra, alimenta racconti, poesie, meditazioni. Due sono i momenti centrali: la Resistenza contro i regimi totalitari e la tragedia della Shoah, dalla quale escono alcuni dei racconti più intensi del secolo (Primo Levi, Jean Améry, Danilo Kis , Jorge Semprún, Imre Kertész) e la poesia di Paul Celan e di Nelly Sachs. Lo sradicamento, l’inspiegabilità del male, il senso di colpa sono i temi di queste opere, che si ricongiungono alla linea portante della letteratura dell’assurdo e vedono, alla metà degli anni Cinquanta, nel romanzo e nel teatro di Samuel Beckett il loro culmine (sono gli anni in cui Artaud sognava il suo teatro della crudeltà, tra ebbrezza e violenza). Un’umanità monca e ansiosa di esprimersi attraverso la propria anomalia fisica si ricongiunge così con un’umanità ferita e oltraggiata. Se da una parte abbiamo linguaggi completamente slogati e sospesi, al limite del balbettio infantile o folle, dall’altra la lingua intensa e criptica elaborata da Celan rappresenta l’unico strumento per trovare una voce adatta a esprimere un’esperienza oltre il comunicabile, di là dal “soffocamento” della vita quotidiana. E ancora nel 1962 René Char parlerà di una “parola come arcipelago”, alludendo alla frammentazione, all’isolamento, alla dispersione. Dal momento che le esperienze vissute durante la guerra sono cariche di significati, non sembra necessario sottoporle a elaborazione eccessiva. E spesso sono personaggi giovani, alle soglie dell’adolescenza, a diventare protagonisti delle nuove avventure. Si crea così una vera e propria categoria antropologica, quella del mondo giovanile, che prende sempre più piede durante la seconda metà del secolo, fino a imporsi nelle due contestazioni del 1968 e del 1977. Come dirà Italo Calvino (un lettore di Conrad e Kipling), a proposito della sua prima opera, Il sentiero dei nidi di ragno, gli scrittori cercano in questo momento di rendere l’intensità collettiva delle vicende, la forza diretta del racconto orale, il rapporto nuovo con il paesaggio (e i modelli letterari vengono spesso dall’America). Si ritorna così al racconto tradizionale, alla poesia narrativa, alla scrittura di meditazione, a forme dall’apparenza neutra la cui intensità è direttamente proporzionale ai fatti tragici che vengono evocati. Si forma una memoria sociale in cui la letteratura, come poi il cinema, acquista una funzione predominante, di conservazione e di denuncia. Non è un caso che alcuni grandi scrittori della prima metà del secolo siano soprattutto intellettuali impegnati a trattare temi di portata politica e sociale: Albert Camus, George Orwell, Antonio Gramsci, Arthur Koestler, Ignazio Silone, Elio Vittorini, Simone de Beauvoir, Simone Weil, Jean-Paul Sartre. Dopo la metà del secolo, forse anche per un esaurirsi rapido dell’intensità liberata nel decennio centrale, la letteratura è sempre più intenta a guardarsi e indagarsi, a riutilizzare le tecniche esasperandone la portata. Nel 1956, il successo improvviso di un romanzo come Il dottor Zivago di Boris Pasternak sembra riproporre un ritorno alla tradizione ma in realtà mostra come, sotto la superficie, si sia frantumata l’oggettività realistica e il romanzesco tolstoiano sia diventato oggetto di una operazione raffinata, ai limiti della parodia. La trama degli incroci continui tra le vicende dei personaggi denuncia la convenzionalità del racconto, su cui domina una concezione epica della natura e della storia. All’inizio degli anni Cinquanta si è già fatta strada, soprattutto in Italia, l’esigenza di un’uscita dalle strettoie del realismo, imposte spesso per ragioni ideologiche. Si consolida la fama di un grande scrittore anomalo, Carlo Emilio Gadda, autore di esperimenti narrativi fondati sul principio della deformazione e dell’accumulo polifonico, anche se saldamente ancorati alla tradizione del naturalismo francese. Gadda può essere avvicinato all’altro grande irregolare francese Louis Ferdinand Céline, non per gli argomenti trattati ma per il tentativo di elaborare una prosa emotiva, al limite visionaria, costruita come un flusso di parole che risvegliano un movimento vorticoso di immagini. Con Gadda, e con gli scrittori che si vogliono suoi allievi (in particolare Giovanni Testori, Alberto Arbasino e Pier Paolo Pasolini), nasce un nuovo modo di guardare alla cultura italiana, sia essa quella borghese ricca e industrializzata (Arbasino) sia quella popolare e in via di estinzione (Pasolini, che porterà la sua ottica disperata fin dentro l’esperienza cinematografica). All’inizio degli anni Sessanta, la proliferazione delle teorie, delle analisi critiche, l’ansia dei metodi e delle nuove discipline fanno della letteratura uno spazio di indagine privilegiato. Spesso le nuove opere nascono a ridosso delle teorie che interpretano le opere vecchie, in uno scambio soffocante che ricorda i matrimoni tra consanguinei delle famiglie aristocratiche. Da questo momento ogni racconto sembra costruito sulla memoria di altri racconti, alludere a qualcosa di precedente, chiudersi nel perimetro delle propria autosufficienza, mentre la poesia spesso si riduce a complicato virtuosismo linguistico, a struttura sonora, a evocazione di linguaggi specifici. Anche se, dopo le esperienze paralizzanti delle neoavanguardie, è proprio la poesia a riscoprire spesso le realtà particolari, i microcosmi nazionali, i linguaggi sommersi, e a rilanciare a livello collettivo l’urgenza di nuove meditazioni sull’io, sulla storia, sulla natura, sull’oralità della parola (si pensi a René Char per la Francia, a Seamus Heaney per l’Irlanda, ad Andrea Zanzotto per l’Italia). La letteratura prende l’aspetto di un raffinato bricolage, capace di evocare ogni tipo di discorso (politico, filosofico, artistico) senza che si riesca più a scorgere un suo carattere specifico che non sia quello di un’ironia saggistica. Le esperienze dell’école du regard avevano riassunto l’epoca in cui l’Europa si era trovata in piena “civiltà dei consumi” e l’individuo sembrava quasi assorbito dagli oggetti che lo circondano. Così Robbe-Grillet faceva coincidere interamente l’atto del narrare con la descrizione minuziosa della realtà, rinunciando per sempre alla finzione del personaggio e della trama, o lasciandone la traccia indebolita sullo sfondo. E la poesia era diventata, sul modello recuperato di Pound, una lunga enumerazione di caotici linguaggi che spezzano per sempre l’idea di un linguaggio lirico unitario ed espressivo di uno stato riconoscibile del soggetto. In questo modo il grande peso della soggettività, messa in crisi in molti ambiti filosofici, viene allontanato, o perlomeno messo tra parentesi. Restano i frammenti del suo essere. In Italia, un grande poeta premio Nobel come Montale dedica l’ultima fase della sua produzione (la raccolta Satura, del 1971) a questa entrata del quotidiano e del dimesso nel mondo della poesia, dove la figura stessa del poeta sembra riprodurre il grigio borghese senza qualità, a cui è rimasto come unica difesa un riso sardonico di fronte allo sfaldarsi delle cose.
Alla ricerca di un difficile equilibrio
Alla fine degli anni Settanta sembra rinascere sotto varie forme la possibilità del racconto, così come la poesia viene presa da una nuova urgenza di comunicare, soprattutto in pubblico, diventando performance, spettacolo. Nella Vie: mode d’emploi (1978) di Georges Perec la descrizione di un caseggiato parigino di dieci piani viene trasformata da un narratore esterno e onnisciente nel racconto di tutte le vite degli individui che vi abitano e di tutti gli oggetti che li circondano, facendo di innumerevoli descrizioni altrettanti micro-intrecci che spesso si collegano e interferiscono tra loro: la vita non più come libro ma come catalogo. Il modello adottato da Perec è quello del puzzle, il gioco di ricostruzione di una figura scomposta in frammenti irregolari. Nel 1980, Il nome della rosa di Umberto Eco sembra ridare forza all’insieme delle prospettive umanistiche che si alleano per sostenere un intreccio di indagine e ricerca spostato nel Medioevo ma continuamente allusivo al presente. Nel suo caso il puzzle è costituito dagli indizi che devono risolvere un giallo dal valore metafisico (nella linea che va da Chesterton a Brecht), ma nello stesso tempo il termine può essere riferito all’incastro di rimandi storico-eruditi che definiscono l’atmosfera del racconto, fruibile a livelli diversi: l’indagine, la ricostruzione storica, l’allusione filosofica. È l’inizio di una nuova epoca per il romanzo, che prende sempre più piede negli ultimi 20 anni del secolo per merito di alcuni autori le cui opere acquistano diffusione europea (Christa Wolf, Thomas Bernhard, Milan Kundera, Ian McEwan, Iosif Brodskij, Czeslaw Milosz, Martin Amis, José Saramago, Javier Marías, Umberto Eco, Antonio Tabucchi, Michel Tournier, Marguerite Yourcenar, Michel Houellebecq). Al di là delle poetiche che si rifanno al postmodernismo, di cui viene assunto come emblema lo scrittore argentino Borges, e che implicano una parodia di tecniche e forme, un gioco continuo e a volte irridente con le citazioni del passato, sembra ritornare in vita l’idea della letteratura come ricerca e indagine conoscitiva, senza niente di definitivo o di predeterminato. Arriva così al suo estremo l’ipotesi che aveva mosso la letteratura moderna, la visione dell’individuo come pluralità di esistenze, come incrocio di realtà possibili, addirittura compresenti negli stessi luoghi. Solo che ora non si tratta più di un io sprofondato nel tempo, moltiplicato in piani di visione successivi ma simultanei, né di un flusso di immagini che riassume la percezione densa e insostenibile della vita metropolitana. Il personaggio con cui si chiude il secolo è interamente portato sulla superficie, costruito come un collage di immagini e una collezione di istantanee. Non a caso l’ultima opera di Italo Calvino è dedicata a un individuo perplesso, il signor Palomar, che vorrebbe mettersi in rapporto con il mondo attraverso piccole porzioni di esso, e fallisce quasi sempre nel suo compito. E solo negli ultimi anni si afferma in tutta Europa la fama di uno scrittore modernista come il portoghese Pessoa, inventore di personalità multiple ognuna caratterizzata dall’uso di uno stile diverso: a lui il Nobel José Saramago dedica uno dei suoi romanzi più affascinanti, L’anno della morte di Ricardo Reis. Nello stesso tempo diventano internazionali alcuni autori che rappresentano il passaggio tra lingue e culture diverse, come il praghese francesizzato Milan Kundera o il russo americanizzato Vladimir Nabokov, o il giapponese anglicizzato Kazuo Ishiguro, supportati inoltre dall’industria cinematografica e giornalistica. La traduzione da una lingua all’altra, l’uso di linguaggi specifici, il passaggio dalla scrittura al cinema sono i segnali più rilevanti del destino della letteratura tra la fine del secolo e l’inizio di quello successivo: l’essere un ponte di comunicazione tra esperienze diverse, tra mondi piccoli e grandi, tra centri e periferie, tra punti di vista marginali e opinioni condivise pubblicamente. Così la letteratura è ancora alla ricerca di nuovi equilibri e di nuove esperienze tra i due poli del locale e del globale.