MASSIMO, Innocenzo
– Nacque a Roma il 16 nov. 1581, quarto degli otto figli di Alessandro, appartenente al ramo della famiglia Massimo detto di Aracoeli, e di Olimpia di Girolamo De Cupis, nipote del cardinale Giovanni Domenico De Cupis.
I genitori appartenevano a famiglie dell’antica nobiltà civica romana. Il padre del M. non era tuttavia un personaggio di primo piano e si limitò a ricoprire alcune cariche all’interno del suo rione come, dopo di lui, fecero alcuni fratelli del Massimo.
Mentre il primogenito, Domenico, si assumeva il compito di garantire la continuità familiare e la presenza dei Massimo nelle cariche civiche, il M. fu ben presto avviato alla carriera ecclesiastica. Dal 1600 al 1605 frequentò l’Università di Perugia, dove ottenne la laurea in diritto civile e canonico e strinse amicizia con Scipione Borghese Caffarelli, in seguito cardinal nipote di Paolo V. Nel 1605 divenne referendario di Segnatura e cominciò a essere impiegato nell’amministrazione temporale dello Stato della Chiesa. Dal 1607 al 1614 ricoprì la carica di vicelegato di Ferrara, a fianco del cardinale legato Orazio Spinola, occupandosi delle delicate trattative con il governo veneziano per la regimazione del Po e disimpegnando una serie di compiti di fiducia per i Borghese, segno dell’esistenza di un solido rapporto di fedeltà con la famiglia del pontefice.
Il 20 maggio 1613 il M. fu nominato vescovo di Bertinoro in Romagna e, poco dopo, fu incaricato della sua prima missione diplomatica, come inviato straordinario in Lombardia. Suo compito era quello di favorire una soluzione pacifica della controversia da poco insorta tra Savoia e Gonzaga in merito al possesso del Monferrato, che aveva portato Carlo Emanuele di Savoia a occupare militarmente una vasta porzione del Marchesato.
I tentativi del M. di ottenere la firma di un armistizio non ottennero però successo e la sua azione fu rapidamente superata dai negoziati nel frattempo apertisi a Milano. Nella primavera del 1616 la S. Sede conferì l’incarico di seguire questa nuova sessione di trattative ad Alessandro Ludovisi, suo padrino e futuro papa Gregorio XV, con il quale il M. strinse un rapporto di salda collaborazione e reciproca stima.
Nell’ottobre del 1615 il M. cessò dalla carica di vicelegato e rientrò a Bertinoro, con la speranza di essere richiamato a Roma per assumere qualche carica amministrativa. Per motivi non chiari, il pontefice non ritenne però di accedere alle richieste del M., che rimase nel suo vescovato fino alla morte di Paolo V.
Le cose cambiarono con l’elezione di Gregorio XV, nel febbraio 1621. Già in marzo il M. fu nominato nunzio ordinario presso la corte medicea. Si trattava di un incarico diplomatico relativamente tranquillo, come riconosceva la stessa istruzione consegnata al Massimo. Poiché «non pendevano negotii di momento fra la Sedia ap.ca et il Granduca» (Die Hauptinstruktionen Gregors V.), il M. doveva limitarsi a informare Roma dell’evoluzione degli equilibri interni alla corte fiorentina in seguito alla recente morte del granduca Cosimo II e a curare gli interessi della S. Sede sia relativamente a sempre possibili tensioni giurisdizionali, sia relativamente a controversie di confine, specie nell’area della Valdichiana. Il M. rimase in Toscana solo fino al giugno 1622 e la sua attività si limitò sostanzialmente all’ordinaria amministrazione della nunziatura.
Il 4 luglio 1622 il M. fu nominato nunzio in Spagna al posto di Alessandro del Sangro, del quale il governo papale era poco soddisfatto. Portò con sé, tra gli altri, il letterato faentino Ludovico Zuccolo, che, di lì a qualche anno, gli dedicò una nuova edizione dei suoi Dialoghi (Venezia 1625) e, in qualità di maggiordomo, l’erudito pisano Paolo Tronci, che lasciò un accurato resoconto del viaggio (Diario del viaggio in Spagna di P. Tronci (1623-24), a cura di C. Simoni Amante, in Boll. stor. pisano, XLIV-XLV [1975-76], pp. 369-426).
Oltre a occuparsi delle non infrequenti tensioni giurisdizionali tra Spagna e S. Sede, che avevano segnato pesantemente l’azione del suo predecessore, il M. dovette affrontare soprattutto due grandi questioni politico-diplomatiche: la sistemazione della Valtellina e il progetto di matrimonio tra Maria d’Asburgo, sorella di Filippo IV, e il principe di Galles, il futuro Carlo I d’Inghilterra.
La questione della Valtellina, apertasi con la rivolta antiprotestante del 1620 e l’intervento militare austro-spagnolo, aveva trovato una provvisoria soluzione nel corso del 1622, quando le potenze interessate avevano concordato che la Valtellina sarebbe stata affidata in deposito al pontefice o ad altri sovrani ugualmente graditi a Francia e Spagna in attesa di un definitivo accomodamento. Nonostante questo accordo, non era però chiaro se il governo spagnolo avrebbe rinunciato ai suoi tentativi di penetrazione nell’area. La morte di Baltazar Zúñiga e la definitiva affermazione di G. de Guzmán y Pimentel conte duca di Olivares, nell’autunno del 1622, diedero modo al M. di ottenere un ammorbidimento delle posizioni spagnole che, nel febbraio del 1623, portò alla firma di una convenzione, successivamente ratificata dalla Francia, con cui la Spagna si impegnava a cedere al Papato il controllo delle fortezze della Valtellina e della contea di Chiavenna. Già nel luglio del 1623, dunque, le truppe papali poterono ricevere in consegna le fortezze valtellinesi.
Anche la vicenda del matrimonio tra il principe Carlo e l’infanta di Spagna Maria Anna d’Asburgo aveva alle spalle una lunga storia, quando il M. cominciò a occuparsene. Nel 1621-22 i negoziati avevano già portato a un accordo di massima, ma era rimasta aperta la questione della dispensa papale, necessaria per rendere valido il matrimonio tra una cattolica e un anglicano. Il Papato aveva infatti più volte manifestato la volontà di subordinare il proprio consenso all’introduzione di una limitata tolleranza per i cattolici in Inghilterra e ciò era stato di non lieve ostacolo alle trattative. All’inizio del 1623 sembrò determinarsi una svolta. Il principe Carlo si recò privatamente in Spagna, accompagnato dal fidato George Villiers, duca di Buckingham. Di fronte a questa mossa e all’offerta di una limitata tolleranza per i cattolici che avessero seguito privatamente il proprio culto, Gregorio XV abbandonò una parte delle sue riserve. Mentre il M. riproponeva ai negoziatori inglesi le richieste già avanzate dalle commissioni cardinalizie, da Roma gli pervenne, alla fine dell’aprile 1623, una nuova istruzione, che concedeva la dispensa a patto che fosse garantita la libertà di culto per il seguito dell’infanta e la cessazione delle persecuzioni anticattoliche. Il M. avrebbe dovuto mantenere segreta la cosa ed esibire la dispensa solo dopo aver accertato la serietà delle proposte inglesi ma, dopo un colloquio con Olivares, la notizia cominciò a trapelare. Nel luglio del 1623 la maggior parte dei punti controversi erano ormai stati risolti e il contratto di matrimonio fu sottoscritto da Filippo IV e dal principe di Galles. Per renderlo effettivo mancava solo una dichiarazione del re Giacomo I d’Inghilterra e il definitivo gradimento del pontefice. Ma la morte di Gregorio XV (8 luglio 1623), le crescenti resistenze della corte spagnola e il deteriorarsi del quadro politico internazionale, a seguito dell’occupazione del Palatinato da parte delle truppe cattoliche, fecero definitivamente tramontare il progetto di matrimonio.
La morte di Gregorio XV segnò la fine delle fortune del Massimo. Nel 1623 Urbano VIII, deciso a sostituire i collaboratori del suo predecessore con prelati a lui fedeli, lo richiamò a Roma, senza concedergli il sospirato cappello cardinalizio. Questa sconfitta personale coincise con una fase non felice della storia della famiglia del M., avviata all’estinzione, essendo tutti i fratelli del M. rimasti celibi o senza figli.
Nel maggio del 1624 il M. lasciò la Spagna, dopo aver ottenuto da Filippo IV il placet per la sua nomina al vescovato di Catania, una diocesi piuttosto importante e dotata di una ricca mensa vescovile. Il M. non raggiunse immediatamente la sua nuova destinazione, ma si trattenne per alcuni mesi a Roma nel vano tentativo di recuperare credito presso Urbano VIII. Nonostante l’appoggio della monarchia spagnola, il prelato rimase in disgrazia e fu anzi sottoposto a un’inchiesta per le spese compiute nel corso della nunziatura, ritenute eccessive dalla Camera apostolica. Nel maggio 1625 il M. lasciò Roma, in dicembre era a Napoli, dove giocò un qualche ruolo nella liberazione di Tommaso Campanella. Nel corso della seconda metà dell’anno raggiunse Catania, dove rimase per alcuni anni, spostandosi di tanto in tanto a Palermo e a Roma per seguire i propri interessi.
L’episcopato catanese del M. fu caratterizzato da una forte tensione tra le autorità religiose e quelle civili. Appena giunto nella città, nel 1625, il M. avviò una politica di rafforzamento del governo episcopale e delle strutture diocesane, promuovendo, tra l’altro, il restauro e l’ampliamento del palazzo vescovile. Ben presto, però, la sua azione si dovette scontrare con le élites politiche locali e si determinarono una serie di conflitti sia a Catania, dove oggetto del contendere furono i diritti di sfruttamento del bosco etneo, sia in altri centri della diocesi.
Il conflitto più grave si sviluppò nel corso di una visita vescovile nella città di Castrogiovanni (oggi Enna) nell’estate del 1627. In quell’occasione si determinò una vera e propria rivolta urbana, che costrinse il M. a rifugiarsi nel locale collegio dei gesuiti e ad abbandonare precipitosamente la città e che mise a rischio la vita di alcuni dei suoi collaboratori. La vicenda non è stata ancora pienamente chiarita da ricerche attendibili. Secondo la storiografia locale, la rivolta maturò a causa del duro fiscalismo del M. e dei comportamenti predatori dei suoi collaboratori, ma si tratta di un’interpretazione che appare riduttiva e troppo appiattita sulle cronache coeve. Il presunto fiscalismo del M. non va infatti interpretato come una scelta personale, ma inquadrato in uno sforzo di difesa ed estensione della giurisdizione ecclesiastica che il M. perseguiva, coerentemente con gli indirizzi che gli venivano da Roma.
La rivolta di Castrogiovanni produsse un aspro e lungo conflitto. Il 27 ag. 1627, il M., confortato dall’appoggio delle istituzioni romane, mise la città sotto interdetto e ottenne il sostegno delle autorità civili che, dopo aver occupato militarmente Castrogiovanni, avviarono un processo contro i responsabili della rivolta. Il processo si concluse con alcune condanne a pene detentive, ma lasciò uno strascico di risentimenti, nonostante il perdono concesso dal M. nell’aprile del 1628. Così, all’inizio degli anni Trenta, un contrasto tra il delegato vescovile e alcuni notabili locali mise nuovamente in difficoltà il M., che fu sconfessato dalla corte pontificia con l’invio di un delegato apostolico, il vescovo di Martorano, Luca Cellesi. Conclusasi la missione di Cellesi, nel 1632, la vicenda si trascinò con alterne sorti e alla morte del M. non era ancora conclusa.
Il M. morì a Catania il 21 ag. 1633.
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