Incompatibilità a testimoniare e regime degli avvisi
In sede di esame dibattimentale di imputato di reato connesso ai sensi dell’art. 12, co. 1, lett. c), c.p.p., o collegato ex art. 371, co. 2, lett. b), c.p.p. che sia disposto a norma dell’art. 210, co. 6, c.p.p., l’avvertimento contemplato dall’art. 64, co. 3, lett. c), c.p.p., deve essere dato non solo se il soggetto non ha «reso dichiarazioni» – come testualmente prevede il co. 6 dell’art. 210 c.p.p. – ma anche se egli abbia già deposto erga alios senza aver ricevuto tale avvertimento. L’omissione dell’avviso di cui all’art. 64, co. 3, lett. c), c.p.p. determina l’inutilizzabilità della deposizione testimoniale.
A fronte delle oscillazioni registrate in ordine all’utilizzabilità delle dichiarazioni rese da un soggetto indagato o indagabile per reato connesso o collegato, non assistito dal difensore e non previamente avvertito a norma dell’art. 64, co. 3, c.p.p., le Sezioni Unite1 sono state chiamate a stabilire se la mancata applicazione – in sede di esame dibattimentale di un imputato di reato connesso o collegato – delle disposizioni di cui all’art. 210 c.p.p. relativamente alle dichiarazioni testimoniali rese da chi avrebbe dovuto essere sentito come teste assistito, determini inutilizzabilità, nullità a regime intermedio o altra patologia della deposizione testimoniale.
Il tema delle conseguenze derivanti dalla violazione della disciplina posta dagli artt. 197 bis e 210, co. 6, c.p.p. ha visto la giurisprudenza divisa su tre fronti diversi.
Un primo indirizzo, valorizzando il riferimento all’art. 64, co. 3, lett. c), c.p.p. contenuto negli artt. 210, co. 6, c.p.p. e 197 bis c.p.p., ha ritenuto che la conseguenza del mancato avviso nei confronti di un indagato connesso ai sensi dell’art. 12, co. 1, lett. c), c.p.p. o collegato, sia l’inutilizzabilità delle dichiarazioni assunte, ferma la possibilità di una valida riassunzione con l’osservanza della previsione sugli avvertimenti di rito2.
Questa prospettiva non è ritenuta condivisibile da un diverso orientamento che fa leva, innanzitutto, sull’assenza di un divieto di procedere all’esame dell’imputato in procedimento connesso o collegato3; al contrario, essendo prescritto che esso sia assunto secondo determinate formalità, la relativa inosservanza non integra un caso di prova assunta «in violazione dei divieti stabiliti dalla legge» (art. 191, co. 1, c.p.p.) ma una nullità a regime intermedio, non eccepibile dall’imputato – privo di interesse ex art. 182 c.p.p. – ma solo dal dichiarante4. Anche il dato testuale, in tale ottica, esclude che possa configurarsi una inutilizzabilità delle dichiarazioni assunte in violazione della norma di garanzia, stante l’assenza – negli artt. 210, co. 6, e 197, co. 2-bis, c.p.p. – di un richiamo alla norma che espressamente prevede siffatta conseguenza nel caso di inosservanza dell’art. 64, co. 3, lett. c), c.p.p.5 (art. 64, co. 3-bis, c.p.p.).
Un terzo orientamento, infine, ha considerato pienamente utilizzabili le dichiarazioni assunte in modo irregolare in dibattimento; in quest’ottica, l’esclusione di conseguenze processuali dall’omesso avviso ex art. 64, co. 3, lett. c), c.p.p. è spiegata considerando che l’art. 64, co. 3-bis, c.p.p. non è richiamato dall’art. 197 bis, co. 2, c.p.p. e dall’art. 210, co. 6, c.p.p. e che a questo dato testuale corrisponde una ratio che risiede nel collocarsi dell’interrogatorio in un ambiente estraneo al contraddittorio delle parti. In altri termini, l’art. 210, co. 6, c.p.p. e l’art. 197 bis c.p.p. disciplinano «esami» destinati, come tali, a svolgersi nel contraddittorio delle parti, mentre l’art. 64 c.p.p. si riferisce al solo «interrogatorio», e cioè ad un atto che, per sua natura, si svolge al di fuori del contraddittorio, di tal che trova giustificazione il maggior rigore adoperato dal legislatore a tutela dei diritti dei terzi eventualmente coinvolti nelle dichiarazioni rese dall’interrogato.
Le Sezioni Unite hanno aderito alla tesi dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da chi – nonostante si fosse trovato in una posizione sostanziale di imputato o indagato di reato connesso “debolmente” ex art. 12, co. 1, lett. c), c.p.p. o collegato ex art. 371, co. 2, lett. b), c.p.p. – non sia stato previamente avvisato ai sensi dell’art. 64, co. 3, lett. c), c.p.p.
A sostegno di tale interpretazione, il Supremo Collegio valorizza le ragioni ispiratrici della l. 1.3.2001, n. 63 ed il ruolo centrale che, nel sistema, assume l’avviso di cui all’art. 64, co. 3, lett. c), c.p.p. In particolare, con l’introduzione della figura del cd. testimone assistito, la l. n. 63/2001 ha comportato la riduzione dell’incompatibilità a testimoniare dell’imputato o indagato connesso ex art. 12, co. 1, lett. c), c.p.p. o collegato, chiamato appunto – anche prima della definizione del suo procedimento con sentenza irrevocabile – a deporre come teste su fatti concernenti la responsabilità di altri; nondimeno, la peculiare posizione di tale soggetto comporta che le sue dichiarazioni «per assumere la forma … ed il valore giuridico della testimonianza» debbano essere ancorate ad una scelta del dichiarante, «resa consapevole ed efficace dal sistema di avvisi previsti dall’art. 64, comma 3, c.p.p., e in particolare da quello ex lettera c, con le conseguenze stabilite dal comma 3 bis».
Si tratta di una prospettiva – avallata dalla Corte costituzionale6 e già nitidamente delineata dalla dottrina7 – indirizzata a valorizzare la centralità nel sistema dell’avviso contemplato dall’art. 64, co. 3, lett. c), c.p.p., anche in relazione alla necessità che esso preceda l’esame ex art. 210 c.p.p. in tutti i casi di «legame debole» in cui il soggetto non è stato previamente avvisato.
L’avvertimento, pertanto, deve essere dato non solo se l’interessato non ha «“reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato” (come testualmente prevede il comma 6 dell’art. 210), ma anche se abbia deposto erga alios ma in modo non “garantito”, ovvero non preceduto dal richiamato avvertimento».
Risolta in questi termini la questione devoluta dall’ordinanza di rimessione, il Supremo Collegio affronta le implicazioni scaturenti dal caso concreto. Tra queste, di particolare interesse risulta – oltre che la riaffermazione della prospettiva secondo cui il giudice deve valutare in termini sostanziali la veste del dichiarante8 – il tema relativo ai presupposti per l’insorgenza dello status di imputato o indagato connesso o collegato quando, come nella vicenda sottoposta ad esame, gli elementi indizianti del reato di false informazioni al p.m., favoreggiamento o calunnia siano emersi proprio dalle dichiarazioni rese nel corso della testimonianza. Due le premesse interpretative che consentono alle Sezioni Unite di verificare se in tali circostanze insorga una posizione di incompatibilità a testimoniare. Da un lato, si riafferma l’indirizzo – espressivo del principio della conservazione degli atti e della regola del tempus regit actum – secondo cui sono pienamente utilizzabili le dichiarazioni rese dal soggetto che al momento della deposizione rivestiva lo status di persona informata sui fatti, a nulla rilevando che, successivamente, abbia acquisito lo status di indagato o di imputato; dall’altro, e con specifico riferimento alla portata da attribuire alle dichiarazioni indizianti (art. 63, co. 1, c.p.p.), si è sottolineato che tali sono solo quelle rese da un testimone o da una persona informata dei fatti che riveli circostanze da cui emerga una sua responsabilità penale per fatti pregressi, con esclusione, dunque, di quelle attraverso cui tale soggetto realizzi una condotta penalmente rilevante. Da queste considerazioni discende che il mutamento di ruolo del dichiarante possa configurarsi solo quando emerga una responsabilità nel reato cui la sua deposizione si riferisce; al contrario, non sono da considerare imputati connessi o collegati coloro che siano sottoposti a procedimento penale in relazione a reati che integrano solo il tessuto della loro deposizione.
Note
1 Cass. pen., S.U., 29.7.2015, n. 33583, in CED rv. n. 264480, Lo Presti.
2 In tal senso, tra le molte, Cass. pen., sez. V, 27.5.2014, n. 29227, in CED rv. n. 260320, Cavallero.
3 Cass. pen., sez. I, 16.10.2012, n. 43187, in CED rv. n. 253748, Di Noio.
4 Tra le molte v., Cass. pen., sez. V, 23.5.2014, n. 41004, in CED rv. n. 260796, Saviano.
5 Cass., pen., sez. III, 11.6.2004, n. 38748, Mainiero, rv. 229614.
6 In particolare, v. C. cost., 27.3.2003, n. 76; C. cost., 4.6.2003, n. 191; C. cost., 12.11.2002, n. 451; C. cost., 26.6.2002, n. 291.
7 Grevi, V., Prove, in Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso, V. Grevi e M. Bargis, Padova, 2014, 359360; Tonini, P.Conti, C., Il diritto delle prove penali, Torino, 2014, 275; Nobili, M., Giusto processo e indagini difensive: verso una nuova procedura penale?, in Dir. pen. e processo, 2001, 10; Patanè, V., Il diritto al silenzio dell’imputato, Torino, 2006, 206.
8 Cfr., Cass. pen., S.U., 25.2.2010, n. 15208, in CED rv. n. 246584, Mills.