imitazione
Per inquadrare l’atteggiamento di M. rispetto al grande problema rinascimentale dell’i., e verificare come si nutra delle risultanze di un dibattito ormai più che secolare all’altezza del Principe e dei Discorsi, conviene prendere le mosse dalla famosa epistola a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, in cui il quondam Segretario narra le sue annoiate e immeschinite giornate. Racconta dunque M. che, dopo aver passato le giornate intere a «ingaglioffarsi» giocando a carte all’osteria, verso sera se ne torna a casa ed entra nel proprio «scrittoio», dove, spogliandosi della «veste cotidiana, piena di fango e di loto», indossa «panni reali e curiali», così da poter entrare, decorosamente vestito, nelle «antique corti degli antiqui huomini». L’immagine, notissima, metaforizza efficacemente l’attività di studio dei classici, che M. interroga con perizia, per ricevere lumi sulle «actioni» dei grandi uomini del passato; nelle quattro ore di tempo dedicate alla lettura, egli non patisce la noia, dimentica le preoccupazioni, la povertà e persino la morte: «tucto», scrive, «mi transferisco in loro».
Nel lessico di forte impronta latina del Segretario, il verbo transferire vale appunto per ‘trasportarsi’, ‘trasfondersi’ (lat.: trans-fero): si tratta cioè di un’accezione ben più ampia del semplice ‘pensare’ o ‘dedicarsi a’. La precisazione ci conduce alle sorgenti della riflessione umanistico-rinascimentale sul problema dei modelli, ovvero alla nota epistola di Francesco Petrarca a Giovanni Boccaccio dell’ottobre 1359 (Familiarium rerum libri XXII 2, in F. Petrarca, Opere, a cura di M. Martelli, 1° vol., 1975, pp. 1137-43), in cui l’autore del Canzoniere, constatando la necessità di apportare alcune modifiche al proprio Bucolicon Carmen, apre il discorso a considerazioni di più vasta portata sullo stile e sull’i. dei classici (Quondam 1999, pp. 84-85): secondo Petrarca, chi scrive di solito sbaglia in ciò che gli è più familiare, mentre appare più sicuro ed esente da mende in ciò che ha imparato meditandolo con maggior lentezza. Così, i testi di Virgilio, Orazio, Cicerone, letti «non una, ma mille volte», gli si sono imposti nella mente con «familiarità», sono entrati non solo nella sua memoria, ma persino nel suo sangue (medullis affixa sunt), immedesimandosi nel suo ingegno (unumque cum ingegno facta sunt meo), al punto che, avendo gettato le radici nell’intimo della sua anima (actis in intima animi parte radicibus), egli ne dimentica talvolta l’autore, «poiché», dice, «per il lungo uso e per il continuo possesso quasi per prescrizione essi son divenuti come miei, e da così gran turba circondato io non mi ricordo più di chi sono e se sono miei o d’altri» (Familiare XXII 2, in F. Petrarca, Opere, cit., p. 1139). Insomma, come dirà M. quasi due secoli dopo, egli ‘si transferisce’ tutto in loro.
Quello che è importante qui notare è l’idea di assunzione profonda di un modello che, se restasse in superficie, adultererebbe lo stile di un autore, il quale deve invece sempre essere personale e originale: l’immagine, famosissima, utilizzata da Petrarca per asseverare il proprio discorso, è quella dell’ape, che assimila e metabolizza il nettare prelevato di fiore in fiore.
La missiva di Petrarca fonda i concetti essenziali e finanche la terminologia del principio d’i., su cui poggerà tutta la tradizione classicistica almeno sino a Cinquecento inoltrato: una tradizione che sente di non poter fare a meno dell’eredità del passato ed è in grado di rinnovarla dopo averla meditata a fondo e introiettata fino a renderla parte di sé. La creazione passa dall’i., l’inventio non si dà senza imitatio, lo studio dei classici è parte essenziale del laboratorio poetico e, più in generale, di qualunque attività di interpretazione del presente (Ulivi 1959).
Non a caso, nella citata responsiva a Vettori, M. impiega un lessico di chiara matrice metaforica omogeneo a quello di Petrarca, che rilancia a sua volta due topoi ereditati dalla latinità: l’ingresso nelle antiche corti degli antichi uomini ci restituisce, su un piano visivo, l’idea della memoria come edificio; poco dopo, la formula, notissima, «mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui» traduce nei termini di una materialità quotidiana l’idea della lettura e dello studio come meditazione profonda, manducazione e digestione degli autori classici. Petrarca aveva detto più o meno la stessa cosa parlando di «atrio della memoria» (memorie vestibulo) come luogo aperto e accessibile dove sostano gli autori poco amati, letti una sola volta, l’esatto contrario dei recessi più riposti della casa; e usando poi la nota, e già tradizionale, immagine della ruminatio per spiegare la lenta, definitiva assimilazione degli autori più cari, che vengono divorati la mattina per essere digeriti la sera, si inghiottono da giovani per ruminarli (cioè appunto rimasticarli) da vecchi (mane comedi quod sero digererem, hausi puer quos senior ruminarem). Tuttavia, se c’è una cosa che a M. proprio non interessa è lo stile: il suo autore è Tito Livio più che Cicerone, il suo obiettivo imitare la «virtù» dei Romani, non le «clausule ample», le «parole ampullose e magnifiche» (Principe dedica 4) dei loro poeti e retori. Il grande precetto umanistico dell’i. egli lo svolge su un piano concretamente operativo, per ridare sostanza di verità a quelle storie antiche entro cui trovava l’antidoto migliore non solo alle sue giornate ‘ingaglioffate’, ma addirittura alla «malignità de’ tempi».
Anche Leon Battista Alberti, un autore che M. probabilmente conosceva, lamentava nel De re aedificatoria la rovina dei monumenti classici, e non casualmente la rifondazione dell’architettura passa per lui dalla visione diretta del documento materiale non meno che dallo studio della tradizione scritta (De Maria, Rambaldi 2007, pp. 134-35). Ma questi sono anche i cardini del metodo machiavelliano, lucidamente esposti nella dedicatoria del Principe, laddove l’autore dichiara di non potere donare nulla di più prezioso al proprio destinatario della «cognizione delle azioni degli uomini grandi», imparata attraverso «una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antiche» (§ 2). Si tratta forse, una volta di più, di una ripresa topica, che tuttavia illumina sulla formazione machiavelliana: la «cognizione» dell’operato degli antichi tornerà nel proemio dei Discorsi come «vera cognizione de le istorie» e racconta di un confronto costante, se non quotidiano, con i testi antichi, di cui è testimonianza esemplare la trascrizione giovanile di Lucrezio e di Terenzio, non meno che la richiesta a Biagio Buonaccorsi delle Vite di Plutarco, nel corso della seconda legazione al Valentino (cfr. la lettera di Buonaccorsi a M. del 21 ott. 1502). Il confronto, tuttavia, non può non essere misurato e corretto sulla pratica continua degli uomini e delle «cose» (cfr. la dedica dei Discorsi: «quanto io ho imparato per una lunga pratica e continua lezione delle cose del mondo»). La possibilità di far parlare i testi degli antichi storici, e ricavarne quanto di utile può esservi per la pratica politica, si impone come novità rispetto a tutta una tradizione che dimentica la loro «lezione», incapace di andare oltre una statica ed estatica contemplazione al massimoforiera di lode (Barberi Squarotti 1987, p. 214). È il grande motivo che anima i presupposti del proemio ai Discorsi, dove si deplora la scarsa attenzione alle «storie», più «lodate che imitate», sì da cancellare ogni vestigia di «quella antiqua virtù».
La possibilità di imitare il passato, su cui si fonda il grande edificio ideologico dei Discorsi, ovvero il tentativo di misurare le imperfette istituzioni moderne su quelle, ben più efficaci, dell’antica Repubblica romana, si dà in forza della sostanza immutabile della natura umana e delle sue passioni. L’incoercibile nucleo identitario entro cui si radica l’essenza stessa dell’uomo, con la fondamentale ripetibilità delle sue azioni all’interno di situazioni e contingenze simili, è tema presente nell’opera machiavelliana sin dai testi più antichi. Un passaggio in questo senso esemplare lo si trova nel Modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (1503), premessa indispensabile all’utilizzo di fonti antiche nella lettura di una situazione politica contemporanea: «Io ho sentito dire che la istoria è la maestra delle azioni nostre, e massime de’ principi, e il mondo fu sempre ad un modo abitato da uomini che hanno avuto sempre lemedesime passioni» (§ 18). È questo il primo testo in cui M. ricorre in maniera ampia e sistematica a un esempio tratto dalle Deche liviane (VIII xiii 11-18): l’episodio di Furio Camillo che, avendo appena vinto alcune popolazioni latine, dichiara in senato la necessità di mantenerle sottomesse e ne argomenta i modi possibili, in virtù della sostanziale identità delle passioni umane, serve a sferzare l’insipienza della classe dirigente fiorentina, indecisa tra crudeltà e blandizie nel trattare le popolazioni di Arezzo e della Valdichiana, appena riconquistate con l’ausilio delle armi francesi. Dunque, l’immutabilità dell’animo umano legittima il ricorso alla storia, secondo la famosa indicazione ciceroniana dell’historia magistra vitae, già adombrata peraltro nelle di poco precedenti Parole da dirle sopra la provvisione del danaio («Sono dunque queste due cose el nervo di tutte le signorie, che furno o che saranno mai al mondo», § 2).
Il tema dell’i. sarà ripreso con maggiore ampiezza argomentativa nel cap. vi del Principe, dove ne vengono discussi i possibili limiti in rapporto all’insufficiente virtù dei contemporanei: qui, infatti, il motivo dell’identità della natura umana non appare sufficiente a garantire al processo imitativo una riuscita completa. Riprendendo ancora una volta un’immagine topica del dibattito sull’i., M. sostiene che è ben vero che gli uomini camminano «sempre per le vie battute da altri» e che procedono «nelle azioni loro con le imitazioni», ma che non si possono «le vie d’altri al tutto tenere» e non sempre si può «aggiugnere» (ovvero ‘giungere’, ‘pervenire’) alla «virtù di quegli che tu imiti» (§ 2): dunque, M. ammette che le contingenze del presente possono non consentire un’i. compiutamente soddisfacente del passato, ma resta pur vero che occorre perseguire la virtù modellizzante degli antichi in nome della loro superiorità. Stando così le cose, sostiene M., si tratta di adottare il modello più alto e nobile, ovvero «entrare sempre per vie battute da uomini grandi, e quegli che sono stati eccellentissimi imitare» (§ 2). Il passaggio da un concetto baldanzosamente universalistico di i. a uno di più sfumata e problematica pertinenza non comporta una smentita sostanziale. Resta infatti fermo che i modi di comportamento dell’uomo sono i medesimi in tutte le epoche, e che dunque legittima sia l’i., pur ‘riscontrata’ di volta in volta sulle contingenze attuali: l’invito di M. a riferirsi agli esempi più fulgidi di virtù reca semmai sotto traccia il costante incitamento all’agire proprio dell’opera maggiore, stimolato dall’attenzione tutta rinascimentale verso un’umanità eroica e ‘grande’; e reca, insieme, quella coloritura idealizzante sempre presente nel Principe sino all’apertura utopistica dell’ultimo capitolo.
Del resto, il paragone scelto dal quondam Segretario per asseverare questo concetto di i. insiste sulla difficoltà dell’obiettivo e sui modi per raggiungerlo: bisogna fare, dice M.,
come gli arcieri prudenti, a’ quali parendo el luogo dove desegnano ferire troppo lontano, e conoscendo fino a quanto va la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta che il luogo destinato, non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere con lo aiuto di sì alta mira pervenire al disegno loro (Principe vi 3).
Se si riflette che l’immagine pare discendere dal primo capitolo dell’Etica Nicomachea, molto nota in ambiente fiorentino e già volgarizzata a metà Quattrocento (riecheggiata anche nell’introduzione al De re aedificatoria di Alberti; cfr. Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, 1952), dove la mira dell’arciere è puntata al bene supremo sì da individuare meglio quale sia la condotta da tenere per raggiungerlo, si coglierà la cifra idealizzante della teoria dell’i. enunciata nel cap. vi del Principe: e non a caso, gli «eccellenti» esempi citati di seguito rispondono a nomi sospesi tra il mito e la storia, fondatori di Stati come Mosè, Ciro, Teseo, Romolo e altri «simili».
In questo spazio dialettico tra la spinta propulsiva dell’esempio eroico e la verifica della realtà «effettuale», misurata su esempi recenti ben noti al possibile destinatario dell’opera (sia esso il pubblico ampio dei lettori o il sovrano alle prese con il mantenimento dello Stato), si gioca la riuscita tecnica, il successo pratico di quel bruciante prontuario politico che è il Principe, in una sorta di tensione agonistica con i tempi e le vicende contemporanee: come in epoche lontane e mitiche, Ebrei, Persiani, Ateniesi hanno trovato figure in grado di redimerli da uno stato di grave prostrazione e declino, così l’Italia potrà trovare un principe capace di condurla fuori dalla crisi, se solo sappia fare tesoro, e distillare delle regole, dall’azione di chi lo ha preceduto:
debbe el principe leggere le istorie e in quelle considerare le azioni delli uomini eccellenti, vedere come si sono governati nelle guerre, esaminare le cagioni delle vittorie e perdite loro, per potere queste fuggire e quelle imitare (Principe xiv 14).
«Cognizione delle storie» ed esperienza umana garantiscono uno sfondo concreto di fatti e persone su cui verificare l’immutabilità dell’animo umano: la storia appare così letteralmente ‘regolata’ da comportamenti e vicende pressoché identiche in tutte le epoche, e da esse vanno ricavate quelle norme possibili di condotta che forniscono il tipico tono apodittico del trattato.
«Storia» è uno dei termini (l’altro è appunto l’«esperienzia») su cui si fonda il ‘metodo’ di M., già pragmaticamente illustrato nel cap. iii, sede dell’ampia trattazione sui principati misti (→ principato: principato misto), in cui spicca l’esempio delre di Francia Luigi XII. È stato giustamente osservato che la «prima grande analisi del Principe è l’analisi di una sconfitta» (Inglese 2006, p. 59): nell’acuta interpretazione della politica estera di Luigi XII, nell’implacabile disamina delle ragioni che hanno determinato la perdita del ducato di Milano da poco conquistato, si misura ‘in negativo’ l’efficacia del legame tra ‘storia’ ed ‘esperienza’. Le ragioni del fallimento del re di Francia in Italia sono puntualmente riscontrate sulla sagace accortezza dei Romani: Luigi XII non ha saputo far tesoro delle loro azioni, non ha saputo leggere la storia per poterla così imitare a proprio vantaggio. L’efficacia paradigmatica dell’operato dei Romani e delle loro istituzioni, che regge l’ordito concettuale del Principe, è termine di confronto incoercibile proprio nell’avvedutezza saggia di quel popolo («e’ romani, veggendo discosto gl’inconvenienti, vi rimediorno sempre», Principe iii 29): al punto da far sostenere, con ragione, a Gennaro Sasso (1980, p. 369) che il Principe ci consegna non tanto un modello da imitare nella sola presunzione che gli uomini non mutano mai, tema declinato variamente nei Discorsi, ma più nella scoperta del nesso che lega politica e fortuna e della sfida che vede impegnata la prima nella lotta costante al disordine e all’irrazionalità.
Intersecare esempi antichi e moderni, porli a confronto, misurare la riuscita di un’azione sull’attenta lettura del passato significa appunto agire in questa direzione, antivedere i possibili rischi attraverso le maglie dell’esperienza congiunta allo studio delle storie, avendone distillato una regola valida universalmente e universalmente applicabile. Questo si è proposto M. («regolare e’ governi de’ principi», Principe dedica 5) e questo ha tentato di mettere in pratica nel suo prontuario, avvertendo dove ciò non era possibile: «e puosselo guadagnare [il favore del popolo] el principe in molti modi: e’ quali perché variano secondo el subietto, non se ne può dare certa regula, e però si lasceranno indrieto» (Principe ix 17).
Al principe-capitano, il quale «non deve mai levare el pensiero da questo esercizio della guerra» (Principe xiv 7), andrà sottoposto qualche esempio di «uomo eccellente» (si ricordi la necessità di mirare alto nella scelta dei modelli), tra coloro che hanno saputo, in maniera appunto strategica, coniugare la lettura del presente con lo studio della storia, imitando a loro volta esempi precedenti, «se alcuno innanzi a lui è stato laudato e gloriato», come si dice che abbia fatto Alessandro Magno con Achille, Cesare con Alessandro, Scipione con Ciro (Principe xiv 14).
La gloria da conquistarsi nell’i. degli antichi, quella stessa che si conquistò Scipione leggendo le imprese di Ciro nell’opera di Senofonte, da cui egli trasse l’esempio della sua «castità, affabilità, umanità, liberalità», dev’essere stimolo sempre operante proprio in quanto modello alto e ideale, per provare ad attingere da esso qualche «odore». Ma la menzione, in chiusura di capitolo, di qualità eminentemente morali, apre il varco alla discussione delle medesime nel fondamentale cap. xv, dove la distinzione tra «verità effettuale della cosa» e «immaginazione di essa» è premessa necessaria alla presa d’atto di una radice ferina dell’uomo che esclude semplicistiche soluzioni: ancora una volta esperienza dell’umano e lettura delle storie contribuiscono a creare un orizzonte pragmatico e complesso, dove si accampa la figura titanica di chi riesce a dominare la conflittualità perenne della politica per giungere (davvero con uno slancio fuori dall’ordinario) alla redenzione di un intero popolo, di un’Italia «stiava» degli oppressori stranieri (Principe xxvi 2-3), allo stesso modo in cui Ciro, Mosè, Teseo (i medesimi citati nel cap. vi) «redimerno le province loro», in una tensione mai sopita di realismo e utopia, di efficacia pratica e virtù modellizzante: perché la ‘regola’ della storia insegna che ogni grande crisi genera il proprio redentore (Inglese 2006, p. 58). Analogamente, in Discorsi I x, l’altrettanto titanica figura del fondatore di «republiche o regni» (§ 3), o di chi, «per fortuna o per virtù» (§ 10) diventi principe di uno Stato (in parallelo con i capp. vi-vii del Principe), dovrebbe ritrarre dalla lezione della storia un ideale di gloria non effimero, in grado di spronarlo alla costruzione di un corpo sociale là dove esso manca o è venuto a mancare. Ma, al solito, ciò che a M. appare naturale (la messa a frutto del passato), non è così scontato per i suoi contemporanei: «se leggessono le istorie, e delle memorie delle antiche cose facessono capitale [...]» (Discorsi I x 10).
Questo è appunto lo stimolo che dà avvio ai Discorsi, la constatazione di un discredito della storia, o di un suo scarso impiego nella pratica imitativa. Proprio i Discorsi intendono realizzare, nella forma di un commento a Livio, la compiuta parafrasi di un periodo della storia romana a partire dalle vicende recenti degli Stati italiani e in particolare della Repubblica fiorentina, sovrapponendo queste a quello, per verificarne lo scarto, e trarre così, dalla «bontà» degli «ordini» antichi, una guida per il presente. Come già nella dedica al Principe, M. avverte di intraprendere una strada del tutto nuova: l’avvilimento di cui dice nel proemio, alla constatazione di una storia antica più ammirata che imitata, nasce dalla parallela presa d’atto di un’inferiorità, in tale ambito, della politica rispetto ad altre discipline come la giurisprudenza o la medicina: come i moderni giudici ricorrono alle sentenze degli «antichi iureconsulti», e i medici adottano i «remedii» dei loro antichi predecessori, allo stesso modo i reggitori di Stati dovrebbero mettere a frutto gli insegnamenti recuperati sui libri di storia. La legittimità dell’i. in campo anche politico si inscrive in un pensiero irriducibilmente naturalistico (cfr. Raimondi 1998, p. 27, sulla scorta di un passo della Vita civile di Matteo Palmieri), che trascende qui la componente antropologica per aprirsi addirittura a orizzonti cosmologici:
Donde nasce che infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono, sanza pensare altrimenti di imitarle, giudicando la imitazione non solo difficile, ma impossibile; come se il cielo, il sole, li elementi, l’uomini fussino variati di moti, d’ordine e di potenza da quello che gli erono antiquamente (Discorsi I proemio A 8).
L’ineludibile costanza delle passioni umane si inscrive dunque dentro un più ampio concetto di eternità del mondo (→), che prevede un avvicendarsi di popoli, «sètte» e lingue nel quadro del permanere universale delle cose, come argomenta il lungo excursus filosofico in Discorsi II v. Il fatto tuttavia che resti nel presente gloriosa memoria, seppur scempiata, dei Romani, che la «sètta» cristiana non ne abbia spento la lingua, che non sia avvenuto per loro quanto essi stessi avevano procurato che accadesse alla precedente civiltà etrusca (ovvero la totale scomparsa di ogni suo vestigio), ne dichiara la grandezza, la bontà degli ordini, e per ciò stesso il vantaggio di imitarli (Sasso 1987, pp. 169 e segg.).
Non a caso il proemio ai Discorsi insiste sull’indicazione di cavare delle regole certe per la costituzione e il mantenimento di una repubblica attraverso il confronto di esempi antichi e moderni, sovrapponendo la storia delle istituzioni repubblicane fiorentine a quelle romane, secondo il proponimento di trarre qualche «utilità» dall’opera di Livio. Ma se nel primo libro la materia è svolta conformemente all’idea che Roma sia un modello sempre imitabile nella sua capacità di dare risoluzione su un piano istituzionale ai conflitti in grado di minacciare la vita della Repubblica, il proemio al secondo libro postula il caso di una «malignità de’ tempi e della fortuna» che non renda possibile l’i.; poiché le «cose umane» sono «sempre in moto», si accampa l’idea, dentro il ‘permanere’ del mondo, di un possibile mutamento, o corruzione, dei costumi:
E pensando io come queste cose procedino, giudico il mondo sempre essere stato a uno medesimo modo, e in quello essere stato tanto di buono quanto di cattivo, ma variare questo cattivo e questo buono di provincia in provincia; come si vede per quello si ha notizia di quegli regni antichi, che variavano dall’uno all’altro, per la variazione de’ costumi, ma il mondo restava quel medesimo (Discorsi II proemio 12).
L’atteggiamento di M. rispetto al principio di i. è problematico: qualcosa interviene sempre a complicare il mito dell’identità. Giustamente ha osservato Rinaldo Rinaldi (commento al Principe, 1999), che, se il sesto capitolo del Principe si concentra sugli «effetti individuali e operativi» che aprono tale incrinatura, i Discorsi insistono sulle «differenze spazio-temporali» (p. 158): «questi tempi» non concedono varchi all’azione, ed è perciò «offizio di uomo buono» (sempre dentro l’ottica di ‘utilità’ esposta nel proemio) darne insegnamento «ad altri, acciocché, sendone molti capaci, alcuno di quelli più amato dal Cielo possa operarlo» (Discorsi II proemio 25). Sasso ha rilevato come, nel passaggio dal primo al secondo libro, M. si faccia, da ‘teorico’, ‘ideologo’, in una sorta di dialogo con sé stesso e con altri (forse qui opera davvero il clima delle conversazioni negli Orti Oricellari) per persuadere (e persuadersi), adesso più che mai, della necessità di imitare i Romani. Qui non c’è più solo la voglia di indagare le ragioni della decadenza del presente, ma
di colpire, di condannare, in modo scientificamente inoppugnabile, la ‘viltà’ di coloro che, in luogo di ‘imitare’ i Romani e di sottrarre, così, i loro stati alla catastrofe che poi li colpì, avevano permesso che, alla prima occasione, il vento della fortuna li travolgesse (Sasso 1980, p. 537).
E proprio perché «la malignità de’ tempi e la fortuna» non hanno permesso a lui, M., di «operare» come avrebbe voluto, è giocoforza trasmettere i propri convincimenti a chi forse, in futuro, in condizioni più favorevoli, troverà modo di attuarli. Il paradosso che apre la strada alla contraddizione del II libro sta tutto nella verifica della distanza tra passato e presente, tra l’antica virtù e l’ignavia contemporanea, e nel tentativo di colmarla con l’i.: la quale, tuttavia, si dà in forza di un’identità che la renderebbe superflua (Sasso 1980, p. 541). Solo la constatazione che, in una sostanziale uniformità del mondo, muta in esso (nel tempo e tra i diversi popoli) il rapporto tra quanto c’è ‘politicamente’ di «buono» e quanto di «cattivo», ovvero tra la virtù di un popolo e le condizioni estrinseche che ne permettono l’affermarsi, risolve parzialmente l’aporia: ed è appunto perché ora nel mondo impera il «vizio» che non si può non lodare l’antica virtù e, intermessa la strada all’azione, consegnare ai posteri il compito di riattivarla.
Ma, procedendo ancora, le cose si complicano ulteriormente: tra il primo e il terzo libro, la teoria imitativa è costretta a fare i conti con l’idea dell’inesorabile corruzione del corpo statale e subisce un graduale offuscamento, sino a sparire del tutto in favore di formulazioni più pertinenti e pratiche: perché se è vero che, per ovviare alla progressiva corruzione, bisogna ridurre una repubblica ai propri «principi» originari e costitutivi (Discorsi III i), è anche vero che essi cambiano da città a città: le città che non hanno «la loro origine libera», come Firenze, non potranno ridursi agli stessi principi delle città nate libere come Roma (Discorsi I i); allo stesso modo, se è vero che ogni uomo ha una propria «natura» (chi procede «con impeto», chi «con rispetto e cauzione»), è vero anche che essa può risultare vincente solo in tempi appropriati, secondo la teoria del ‘riscontro’ esposta nel terzo libro: chi non sa «variare col procedere suo secondo che variano i tempi» (Discorsi III ix 9) incorrerà in un esito infausto del proprio agire politico. Così, quel naturalismo che sembra garantire inizialmente ai Discorsi l’individuazione di regole altrettanto certe di quelle enunciate nel Principe, contiene in realtà al proprio interno le premesse di una contraddizione insanabile, ben evidente nel terzo libro, dove la teoria dell’i. tace del tutto per dar luogo a un più drammatico rapporto tra lettura della storia e prassi politica (Inglese 2006, pp. 103-07, 124-27).
Tutto ciò non impedisce a M. di affidarsi nuovamente ai vantaggi dell’i. nell’Arte della guerra, dove questioni più strettamente tecniche consentono la risalita agli antichi modelli e ai trattati latini di condotta militare; il compito che si assume Fabrizio Colonna, protagonista del dialogo, è di «ridurre» la milizia «negli antichi modi e renderle qualche forma della passata virtù» (Arte della guerra proemio 10); l’ampio corredo esemplificativo, tratto soprattutto da Vegezio e Frontino, mira dunque a evidenziare la necessità di un esercito valido e preparato: ma l’ultima parte dell’opera, in cui Fabrizio dichiara, per la vecchiaia incipiente, il proprio fallimento nell’attuazione pratica di tale scopo, tradisce un senso di sconfitta nei confronti del progetto di una vita che è tutto e solo di M.; e insieme ribadisce la fiducia nel potere modellizzante degli antichi e nei valori dell’Umanesimo, se è vero che «questa provincia pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura» (Arte della guerra VII 247); cosicché le ultimissime parole del dialogo valgono come congedo malinconico dalle proprie ambizioni e dalle proprie speranze, in quello stesso atteggiamento di chiusura sul presente e di rilancio verso il futuro che informava il proemio al II libro dei Discorsi:
E veramente, se la fortuna mi avesse conceduto per lo addietro tanto stato quanto basta a una simile impresa, io crederei, in brevissimo tempo, avere dimostro al mondo quanto gli antichi ordini vagliono; e sanza dubbio o io l’arei accresciuto con gloria o perduto sanza vergogna (Arte della guerra VII 249).
Ennesima conferma della fiducia pressoché sconfinata negli esempi tratti dalle ‘istorie’ e della sfiducia altrettanto grande nella incapacità dei contemporanei di metterli a frutto.
Bibliografia: F. Ulivi, L’imitazione nella poetica del Rinascimento, Milano 1959; G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, Bologna 1980; G. Barberi Squarotti, Machiavelli o la scelta della letteratura, Roma 1987; G. Sasso, De aeternitate mundi (Discorsi II V), in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 1° vol., Milano-Napoli 1987, pp. 167-399; E. Raimondi, Politica e commedia. Il centauro disarmato, Bologna 1998; A. Quondam, Rinascimento e classicismo, Roma 1999; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006; S. De Maria, S. Rambaldi, Leon Battista Alberti archeologo, in Alberti e la cultura del Quattrocento, Atti del Convegno internazionale, Firenze 16-18 dicembre 2004, a cura di R. Cardini, M. Regoliosi, 2 voll., Firenze 2007, pp. 123-71.