di Marco Varvello
Secondo un suggestivo parallelo storico-politico, Angela Merkel in Germania ha goduto dei frutti delle riforme varate dal suo predecessore Schröder, proprio come nel Regno Unito Tony Blair governò un paese ammodernato dalle drastiche riforme di Margaret Thatcher. Nei suoi primi due governi da cancelliere la conservatrice Merkel ha infatti potuto vantare il calo progressivo dei disoccupati (da 5 agli attuali 3 milioni) e il miglioramento dei conti pubblici e della bilancia commerciale tedesca, grazie alle riforme del mercato del lavoro, dei sussidi, delle pensioni contenute nell’‘Agenda 2010’ del socialdemocratico Gerhard Schröder. Provvedimenti impopolari, così tanto che gli elettori punirono Schröder alla prima occasione, aprendo la strada all’ascesa della Merkel. Era insomma stata la sinistra riformista a mettere mano al sistema Germania per snellire lo stato sociale e ridare capacità competitiva all’economia guardando al futuro. Merkel ha gestito l’applicazione di quelle riforme, ne ha goduto gli effetti.
Nel primo governo (2005-09) era inevitabile che ciò accadesse. Era un governo di Grande coalizione proprio con i socialdemocratici orfani di Schröder. Occorreva far ‘digerire’ ai tedeschi le riforme. Nel suo secondo governo (2009-13) l’alleanza con i liberali in crisi di idee e di leadership e la progressiva perdita della maggioranza al Bundesrat avevano frenato le misure più incisive. Unica scelta vigorosa era stata la svolta energetica, con la decisione di uscire dal nucleare entro il 2022, imposta personalmente dalla Merkel sull’onda dell’‘effetto Fukushima’, l’emozione dopo la catastrofe dell’impianto atomico giapponese.
Si doveva quindi attendere la vittoria dei cristiano-democratici alle elezioni del settembre 2013, preannunciata dai sondaggi, per vedere finalmente un programma di governo che esprimesse la visione della Merkel sul futuro della Germania, che puntasse a realizzare alcuni punti chiave, con cui lasciare una traccia nella storia tedesca non legata solo al suo primato di donna cancelliere. Ma ancora una volta il risultato elettorale ha costretto a una Grande coalizione. L’annientamento degli alleati liberali (FDP per la prima volta sotto la soglia di sbarramento e quindi fuori dal Bundestag) ha spinto di nuovo Angela Merkel sul terreno che in fondo forse le è più consono: la mediazione, non gli slanci ideali, l’accordo di compromesso più che i principi da perseguire.
Il Koalitionsvertrag tra Unione (CDU-CSU) e socialdemocratici (SPD) esprime in 185 pagine questo bisogno di accordo senza scosse, di politica pragmatica che si fa buona amministrazione e poco più. Proprio quello che i tedeschi dimostrano di gradire in Merkel e nella classe politica in generale. I punti qualificanti comunque non mancano e sono le sfide che il terzo governo Merkel, probabilmente il suo ultimo, deve ora perseguire. Ma sono quasi tutti punti qualificanti altrui, della SPD o della CSU bavarese. La Merkel ha mediato e fatto accettare al suo partito l’accordo finale. In sintesi, ecco i punti principali:
1) Mindestlohn, il salario minimo garantito, rivendicazione storica della sinistra. Sarà introdotto dal 2015, con deroghe possibili fino al 2017. 8 euro e 50 l’ora, oneroso per il sistema produttivo soprattutto nelle regioni dell’Est.
2) Più garanzie per il lavoro interinale e parttime. Riducendo la flessibilità introdotta dall’Agenda 2010, contratti a termine limitati a 18 mesi, altrimenti poi scatta l’assunzione. Dal nono mese in poi il salario degli interinali sarà equiparato a quello dei dipendenti.
3) Pensioni minime a 850 euro al mese dal 2017. Nuove deroghe alla pensione a 67 anni: ad esempio, con 45 anni di contributi si potrà andare in pensione a partire dai 63 anni di età. Tutte riforme dunque richieste dall’SPD, che imporranno un esborso notevole alle casse pubbliche.
4) Si aggiunge la promessa elettorale dei cristiano-democratici di una Mütterrente: già dal 2014 aumento delle pensioni alle mamme che hanno avuto figli prima del 1992, finora escluse da un beneficio introdotto per gli anni successivi.
5) L’altra novità clamorosa per un paese di automobilisti, con 12.000 chilometri di autostrade, sarà l’introduzione di un pedaggio per gli stranieri, richiesto dai bavaresi e a cui la Merkel aveva inizialmente detto di no.
Si vede dunque come l’agenda del suo terzo governo sia di fatto imposta dai partner di governo. Merkel sembra essersi ancora una volta limitata a fare da arbitro, salvo imporre la sua linea ormai consolidata nella politica europea: solidarietà e responsabilità sono due facce della stessa medaglia. Quindi no alla condivisione del debito (Eurobond e affini). Aiuti solo a fronte di riforme strutturali e tagli ai bilanci pubblici indebitati. No ad ogni ipotesi di ‘bail-out’ ed anzi ‘bail-in’ dei creditori e correntisti delle banche in crisi, come avvenuto per Cipro.
Nessuna sorpresa dunque: scontata su questi temi l’adesione della SPD, che sulla politica europea negli anni scorsi ha sempre votato con la maggioranza, con la sola differenza di un maggiore accento (nei toni più che nella sostanza) sugli incentivi alla crescita.
Nessun grande slancio. Al massimo il terzo governo Merkel dovrà affrontare l’oggettiva difficoltà di imporre ancora in Europa una austerità che il nuovo programma di Grande coalizione contraddice nei fatti. Si prevedono 23 miliardi di investimenti in quattro anni. Anche se formalmente l’obiettivo di azzerare il deficit del bilancio statale è confermato per il 2015, sono in pochi a credere che Wolfgang Schäuble, riconfermato ministro delle finanze, riesca davvero a mantenere questa promessa. Questa rimane la sfida del governo Merkel.