Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La nozione di esperimento mentale è relativamente recente, essendo stata coniata poco più di un secolo fa. Tuttavia, gli esperimenti mentali o “ideali” hanno rivestito un ruolo cruciale nel Seicento, epoca in cui si afferma un nuova concezione di scienza rispetto ai secoli precedenti. Gli esperimenti mentali hanno suscitato un dibattito storico-epistemologico che ha abbracciato tutta la gamma che va da una visione discontinuista a una continuista nella storia della scienza. Certo è, tuttavia, che a partire da Galileo, Newton, Leibniz, Locke e altri pensatori coevi, si afferma una nuova metodologia scientifica che non rinuncia alle idealizzazioni e che fa degli esperimenti mentali uno dei veicoli per rifondare su basi solide e realistiche la concezione del mondo e il metodo per arrivare a una conoscenza oggettiva della realtà naturale, applicandosi al mondo fisico e a quello mentale.
Una nozione difficile e il dibattito storico-epistemologico
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La nozione di esperimento mentale non è ambigua, eppure è difficile darne una definizione univoca e ben determinata. Per comprendere cosa sia un esperimento mentale si può, d’altra parte, procedere per negazione: un esperimento mentale non è un esperimento scientifico di tipo tradizionale, anche se ne condivide alcuni tratti; si distingue anche da un’analogia, da una metafora o da una rappresentazione concreta di qualcosa di astratto, altrimenti ogni forma di ragionamento finirebbe per essere identificabile come esperimento mentale. Neppure va confuso con una mera situazione controfattuale, in cui l’immaginazione scientifica si rivolge a stati di cose che possono essere andati diversamente da come appaiono in realtà, perché esso sembra richiedere un qualche elemento empirico-sperimentale. Sempre procedendo attraverso un’identificazione in negativo, possiamo dire che gli esperimenti mentali non sono esperimenti meramente immaginati, che potrebbero essere condotti, né sono esperimenti nei quali il pensiero è l’oggetto dell’esperimento. Il senso di “mentale” nella nozione di “esperimento mentale” è relativo al metodo con cui viene condotto l’esperimento, non al dominio cui si riferisce, che può anche essere quello psicologico. Anzi, da questo punto di vista, l’ambito piscologico, insieme a quello fisico sono stati tra i più ricchi nel presentare esperimenti mentali.
Negli ultimi decenni sono state tentate differenti classificazioni degli esperimenti mentali in base alla loro funzione nei differenti domini di applicazione. La domanda di fondo relativa agli esperimentali resta, tuttavia, quella sul loro effettivo valore conoscitivo. Come può un esperimento mentale fornire nuova conoscenza senza l’ausilio di nuovi dati sperimentali? Gli esperimenti mentali hanno una base empirica o devono essere considerati forme di argomentazione a priori? La discussione resta aperta, ma è nel Seicento, il secolo che vede nella rivoluzione scientifica uno dei suoi tratti più caratteristici, che gli esperimenti mentali assumono un ruolo centrale nella riflessione filosofica e scientifica.
Tuttavia, prima di addentrarsi nel ruolo cruciale rivestito dagli esperimenti mentali nel periodo compreso tra XVII e inizi del XVIII secolo, occorre rivolgersi sia al modo in cui sono stati storicamente interpretati, sia alle forme di pensiero che li hanno anticipati. I primi commentatori della nozione di esperimento mentale sono due figure di epistemologi e scienziati: Pierre Duhem (1861-1916) ed Ernst Mach (1838-1916). Mentre il primo critica esplicitamente l’uso degli esperimenti mentali, arrivando ad affermare ne La teoria fisica, il suo oggetto e la sua struttura (1906) che essi dovrebbero essere banditi dalla pratica e dall’insegnamento della scienza, il secondo ne discute in termini positivi ne La meccanica nel suo sviluppo storico-critico (1883) e in Conoscenza ed errore (1905), sottolineando una sorta di continuità fra esperimenti mentali e reali almeno per quanto riguarda il metodo della variazione, che entrambi userebbero, e nel fatto che tutti e due si basano su conoscenze empiriche precedentemente acquisite e su un’istintiva conoscenza umana che spinge il ragionamento a evitare situazioni impossibili o irrealizzabili.
Altri due celebri commentatori del ruolo degli esperimenti mentali nella storia della scienza sono Alexandre Koyré (1892-1964) e Thomas Kuhn (1922-1996). Entrambi imperniano la loro riflessione su Galileo. Koyré pone l’accento sul ruolo che l’a priori gioca nel pensiero di Galileo e trova in questo aspetto la chiave interpretativa dei suoi esperimenti mentali (si pensi all’idealità del moto senza attrito rispetto a quello all’interno della nostra atmosfera). Kuhn, invece, vede negli esperimenti mentali uno dei motori del divenire della scienza, soprattutto nelle sue fasi rivoluzionarie, ovvero in quelle fasi di ristrutturazione teorica e riconcettualizzazione epistemologica in cui gli esperimenti mentali proprio in grazia del loro tratto puramente concettuale, assumono una funzione cardine nel ridefinire l’interpretazione del reale e nel mettere in discussione una metodologia scientifica stabilizzatasi come “normale” (si pensi al superamento da parte di Galileo della sovrapposizione aristotelica dei concetti di velocità media e istantanea). La questione degli esperimenti mentali ha animato quindi una disputa epistemologica fra continuisti e discontinuisti in merito all’evoluzione della conoscenza scientifica.
Il secolo degli esperimenti mentali e i suoi antecedenti
Se è vero che la dicitura “esperimento mentale” non viene coniata fino all’Ottocento – è utilizzata per la prima volta dal fisico e chimico danese Hans Christian Ørsted (1777-1851) – se ne possono trovare i prodromi terminologici già nei lavori di Georg Christoph Lichtenberg (1742-1799), fisico a scrittore tedesco, e probabilmente in quelli di Friedrich von Hardenberg (1772-1801), meglio conosciuto come Novalis. Questo sembra testimoniare di una consapevolezza crescente in merito a un modo di fare scienza che pure era stato inaugurato nel Seicento a opera di molti pensatori, tra i quali Galileo Galilei (1564-1642), René Descartes (1596-1650), John Locke (1632-1704), Isaac Newton (1642-1727), Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716) e William Molyneux (1656-1698).
Già nell’antichità possiamo trovare alcuni esperimenti mentali. Si pensi ai paradossi di Zenone (in particolare a quelli contro il movimento: lo stadio, la freccia, Achille e la Tartaruga), in qualche modo identificabili come proto-esperimenti mentali per la loro aperta o presunta deviazione da un principio logico o da una certezza del senso comune. Si pensi anche al celebre esperimento mentale descritto da Lucrezio (98 a.C. - 55 a.C.) nel libro I del De rerum natura per dimostrare l’infinità dello spazio: figuriamoci di arrivare al suo estremo limite e di lanciare un dardo verso di esso; se il dardo lo supera allora il limite non c’è; se sbatte contro qualcosa allora quel qualcosa è nello spazio e non può non esserci altro spazio dietro; in entrambi i casi non si può non ammettere che lo spazio non ha limiti.
La lezione degli antichi giunge nel Medioevo con forme e tempi peculiari e forse non è inesatto affermare che il pensiero medievale sviluppa da sé le condizioni perché gli esperimenti mentali assumano un ruolo cruciale nel Seicento, allo stesso tempo in opposizione e in continuità con la riflessione dei secoli precedenti. In primo luogo, protagonista del Medioevo è la pluralità degli aristotelismi su cui si basano gran parte delle riflessioni teologiche e filosofiche, anche come descrizione della realtà naturale, e proprio contro la fisica aristotelica del moto e della gravità saranno rivolti gli esperimenti mentali di Galileo. Inoltre, nei secoli convenzionalmente definiti medievali si affermano metodi argomentativi che mirano a mettere in evidenza i paradossi logici e le incoerenze semantiche delle teorie. È il caso degli insolubilia, dei sophismata, o degli exponibilia, esercitazioni di pensiero che sviluppano argomentazioni di tipo epistemologico de possibile o de virtute sermonis. La possibilità di questi esercizi è garantita dall’affermarsi crescente, nel tardo Medioevo, di una concezione pluralistica della verità e di una separazione di ambiti d’indagine fra la teologia, la metafisica e la riflessione filosofica di stampo aristotelico, che ha per oggetto il mondo naturale.
Il ricorso alle possibilità dell’immaginazione, il ragionare in termini di potentia Dei absoluta, cioè non limitata da alcuna legge o ordine naturale, non deve, però, essere troppo accentuato nel sopravvalutare presunte relazioni di continuità forte con l’immaginazione scientifica dell’età moderna. Galileo soprattutto (ma anche Newton) ragionavano in termini diversi, più affini a, o già del tutto permeati di quel realismo scientifico che costituisce il tratto della scienza moderna. Per questo, Galileo nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632) relega l’uso prudente di una pluralità di modelli puramente immaginati, in linea con una potenza assoluta di Dio in grado di realizzarli a livello logico, alla (non) saggezza dell’aristotelico Simplicio e non al suo alter ego Salviati. Per la stessa ragione gli esperimenti ideali galileiani, e quelli seicenteschi in genere, sono casi limite della realtà, irrealizzabili ma non impossibili (come per Aristotele) o – teologicamente – assurdi (come per i teologi tardo medievali). Essi non servono principalmente a consolidare le credenze circa il patto con Dio sul fondamento teologico e la stabilità degli accadimenti, bensì a costruire una visione e una comprensione scientifiche del mondo, ponendosi in quel punto di contatto che è il limite fra reale e immaginario.
Su questa stessa linea di continuità/discontinuità che lega l’immaginario medievale all’ideale seicentesco si può vedere, inoltre, il passaggio da un uso secondo immaginazione della matematica (delle proporzioni) dei calculatores inglesi del XIV secolo o di Nicola d’Oresme (1323 ca. - 1382) a una concezione del tutto diversa della matematica come linguaggio in cui è scritto il libro della natura, attraverso la quale Galileo giustificò per primo il suo uso di concetti ideali e situazioni idealizzate per descrivere l’unica vera realtà naturale.
Dalla fisica meccanica ai meccanismi della conoscenza
È con la fisica meccanica che si inaugura questo nuovo modo di pensare, questo nuovo modo di fare scienza. Uno degli aspetti più interessanti però è che il metodo “idealizzante” applicato in fisica, in particolare in quella branca della fisica che prende il nome di dinamica, sembra poi estendersi anche a un altro ambito affatto differente, quello dell’indagine sulla conoscenza, producendo a sua volta una serie di esperimenti mentali. Perciò, nel Seicento, anche dal punto di vista degli esperimenti mentali, viene progressivamente formandosi quel doppio canale di indagine che vede nei poli opposti di mondo fisico e mondo mentale i suoi principali domini di applicazione, e che ha trovato un riscontro nelle due macro aree che anche nell’ultimo secolo hanno interessato di più gli esperimenti mentali: la fisica e la mente. Vediamone alcune esempi in entrambi i domini.
Il punto di partenza è Galileo. Nella sua analisi sul moto dei corpi, egli ribalta la visione tradizionale, di ascendenza aristotelica, secondo la quale la quiete è lo stato naturale dei corpi (sublunari), mentre il moto (naturale o violento) è sempre prodotto da una forza. Per Galileo un corpo mantiene il suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme se non intervengono forze a mutare quello stato, il ben noto principio di inerzia. Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo(1632) Galileo ricava questo principio proponendo di immaginare una situazione ideale in cui una palla perfettamente sferica scorre su un piano perfettamente liscio. Una volta tolti tutti gli attriti, compreso quello dell’aria, cioè “difalcati gli impedimenti della materia”, per utilizzare le parole di Galileo, si dovrà dedurre che, se il piano è orizzontale, la palla manterrà il suo moto finché una qualche forza non intervenga a mutarlo, e se il piano fosse infinito, in assenza di variazioni, il suo moto sarà conservato infinitamente. Se il piano invece fosse inclinato, la palla scivolerebbe accelerando il suo moto in modo uniforme, essendo sottoposta alla forza di gravità. Moto uniforme e uniformemente accelerato sono due idealizzazioni che Galileo costruisce a partire dalla realtà, ma attuando quel passaggio al limite fra caso reale e caso ideale che Aristotele stesso aveva concepito, concludendone per la sua impossibilità, proprio perché nella realtà è impossibile constatare i casi in cui gli “impedimenti della materia” sono stati “difalcati”. Come fa notare Amos Funkenstein (1937-1995), lo stesso Aristotele aveva concepito “mentalmente” alcune situazione ideali, di moto nel vuoto o di corpi senza peso, concludendone tuttavia per una impossibilità fisica e non logica. Il salto compiuto da Galileo è stato proprio nel riconoscere la validità di questa situazione ideale nel definire una teoria in cui inquadrare i casi reali.
Sulla stessa linea vanno considerati altri esperimenti mentali galileiani. Per esempio, quello sulla caduta dei gravi. Afferma, infatti, Galileo-Salviati, nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze del 1638 (in merito a un tema di cui si era occupato fin dal De motu scritto intorno al 1590), che se, come stabilisce la fisica aristotelica, i corpi cadono con una velocità proporzionale al loro peso (accelerata dalla spinta dell’aria), allora due corpi di peso differente (una pietra e un “pennecchio di stoppa”) che cadono insieme nel vuoto dovrebbero, se legati insieme, sia cadere più velocemente, perché la loro unione avrà un peso maggiore di ognuno preso singolarmente, sia cadere più lentamente, perché quello più leggero ritarderà quello più pesante frenandolo. Il risultato è una palese contraddizione. Si deve perciò concludere che tutti i corpi cadono con la stessa velocità nel vuoto e che le differenze che riscontriamo nel mondo reale sono dovute solo al mezzo in cui avviene la caduta.
Anche l’esperimento mentale del “gran naviglio”, esposto nella seconda giornata del Dialogo, ha medesime premesse e un’identica funzione all’interno del quadro metodologico galileiano, giungendo a un risultato fondamentale: l’affermazione del principio di relatività galileiana, in base al quale è impossibile decidere, all’interno di un sistema in cui non si hanno punti di riferimento esterni, se esso è in stato di quiete o di moto rettilineo uniforme. Infatti, nella stiva di una nave che si muova di moto rettilineo uniforme tutti i moti degli oggetti e degli esseri viventi si sommano al movimento della nave, e, per chi li osservasse all’interno della nave, essi sarebbero gli stessi nel caso in cui la nave fosse immobile. Analogamente alla nave, anche sul nostro pianeta il suo movimento da ovest verso est non influenza i moti dei corpi nell’atmosfera (l’enorme stiva in cui avvengono le nostre vite), come invece sosteneva la fisica aristotelica. Movimento uniforme e quiete sono indistinguibili senza punti di riferimento, ma solo se consideriamo la situazione ideale di un moto inerziale perfetto della nave, impossibile da realizzare nella realtà (la terra, di fatto, non è un sistema inerziale perfetto, ma lo è con una grande approssimazione). La matematica ancora una volta aiuta lo scienziato, non a fare a meno delle imprescindibili “sensate esperienze”, ma a condurre quelle “necessarie dimostrazioni” per le quali le conseguenze di una teoria possono essere tratte e in seguito verificate, sempre in modo approssimativo, nella realtà.
Con questi e molti altri esperimenti mentali Galileo dà l’avvio a una visione diversa della scienza in cui una delle conseguenze fondamentali dell’idealizzazione sarà proprio quella separazione fra esperienza diretta, immediata, della realtà e sua elaborazione matematica, che condurrà alla ricerca di condizioni sperimentali sempre più purificate da tutte quelle interferenze che ostacolano il verificarsi di un singolo fenomeno nella sua assolutezza. Questo avrà ricadute sulla nascita della chimica e, in seguito, di altre scienze. Questo, inoltre, sarà il metodo fatto proprio da Newton, Leibniz e altri scienziati; ma è anche ciò che tenteranno di fare i filosofi seicenteschi e settecenteschi che si dedicheranno a studiare e comprendere i fenomeni legati al modo in cui avviene la conoscenza umana.
Newton, per esempio, utilizza gli esperimenti mentali per comprovare sia l’effettività dello spazio assoluto, sia la sua teoria della gravitazione. Per dimostrare lo spazio assoluto Newton si avvale, nella sezione dedicata alle definizioni all’inizio dei Philosphia Naturalis Principia Mathematica (1687), di due esperimenti mentali: quello delle due sfere unite da una corda che ruotano rispetto allo spazio stesso – fatto che viene mostrato dal persistere della tensione della corda generata dalla loro rotazione – e quello del secchio pieno d’acqua. Questo esperimento molto dibattuto e criticato – da Huygens (1629-1695) fino a Mach – è anch’esso un esempio nitido di idealizzazione a partire da una situazione reale, anche se per dimostrare un concetto, quello di spazio assoluto, che sconfina dal fisico al metafisico (una delle ragioni che hanno portato alle numerose critiche rivoltegli). Tuttavia, la sua forza argomentativa puramente teorica non va sottovalutata e non va dimenticato che Newton non disponeva di geometrie non euclidee cui far ricorso. L’esperimento consiste nell’immaginare di avere, nello spazio vuoto, un secchio pieno d’acqua legato con una corda che viene attorcigliata e poi lasciata allentare. All’inizio, quando il secchio comincerà a girare, l’acqua è immobile e la sua superficie piana; poi anche l’acqua comincerà a girare e la sua superficie diventerà concava; infine, una volta che il secchio si sarà fermato, l’acqua continuerà a girare mantenendo la sua superficie concava. Ora se l’acqua ruotasse rispetto al secchio non si dovrebbe verificare il caso che essa possa essere piana o concava, sia nel caso di immobilità, sia in quello di moto. Dunque, la conclusione di Newton è che l’acqua si muove in riferimento allo spazio assoluto.
Nel caso della gravità, sempre nei Principia Newton mostra efficacemente, con un altro esperimento mentale, il perché la Luna non cade sulla Terra, né schizza via percorrendo una traiettoria tangenziale all’orbita che effettivamente compie. Se immaginiamo di salire in cima a una montagna e di sparare un proiettile con un cannone, all’aumentare della velocità del proiettile, cioè della forza con cui viene lanciato, esso percorrerà traiettorie sempre più lunghe, fino al caso limite in cui non cadrà a terra ma ritornerà al punto di partenza – la cima della montagna – dopo un giro intorno alla Terra; e, se non ci sono ostacoli, continuerà a muoversi facendo un giro dopo l’altro. E esattamente così che si comporta la Luna. La sua orbita è dovuta alla composizione della forza centrifuga con cui si allontanerebbe tangenzialmente dalla Terra e della forza centripeta di gravità, inversamente proporzionale al quadrato della distanza fra la Terra e la Luna. Questo esperimento mentale non dimostra, per la verità, più di quello che la legge di gravitazione universale può far calcolare matematicamente, ma illustra e fa comprendere in modo limpido una situazione altrimenti confinata a pure formule, permettendo, sulla base di una generalizzazione, una visione unificata fra corpi celesti e terrestri per quanto riguarda l’applicazione delle leggi della meccanica, e dunque facilitando l’accettazione della legge di gravitazione che, secondo i detrattori di Newton, sembrava poggiare sulla presenza di forze occulte.
Nella visione meccanicista cartesiana, infatti, le azioni fra i corpi avvengono solo per contatto. Perciò Cartesio e i suoi prosecutori avevano proposto la teoria dei vortici secondo cui si sarebbero mossi i fluidi in cui si trovavano i corpi celesti, comunicando ai pianeti il moto impresso dal Sole. L’esperimento mentale di Newton mirava a scardinare in modo intuitivo e “tangibile” proprio il meccanicismo della teoria cartesiana dei vortici. Anche Leibniz si avvalse di vari esprimenti mentali per aggredire e disconfermare la teorie meccanicistiche dei cartesiani, introducendo il concetto di vis viva (di fatto, l’energia cinetica) per affermare, in relazione a un sistema chiuso, il principio di conservazione dell’energia (forza viva) di contro alla “semplice” conservazione della quantità di moto sostenuta dai cartesiani. Per fare ciò Leibniz immagina, per esempio, due pendoli cui sono attaccati due corpi dello stesso peso. Se, a partire da uno stato di quiete, vengono spinti con velocità diverse, di cui una è il doppio dell’altra, una volta lasciati cadere il movimento del primo, che corrisponde al dispendio di tutta la forza accumulata, sarà quattro volte quello del secondo e non soltanto due. Naturalmente anche questo vale solo in una situazione ideale priva di attriti.
Il Seicento vede anche l’affermarsi della tendenza a usare esperimenti mentali per l’indagine delle modalità con cui avviene la conoscenza umana, come se gli elementi caratterizzanti la nuova mentalità scientifica passassero, fin dal loro esordio, dal mondo fisico a quello “psicologico”, pure se i punti di contatto e le effettive somiglianze vanno presi con le dovute cautele. Se “mentale” deve indicare il metodo e non l’oggetto dell’esperimento, nel caso della conoscenza umana il rischio di una loro sovrapposizione è sempre alto e i risultati devono essere valutati caso per caso.
Per esempio, sono considerati esperimenti mentali quelli che Locke espone nel Saggio sull’intelletto umano (1690) in merito all’identità umana, come quello contenuto nel capitolo 27 del secondo libro: se l’anima di un principe viene trasferita nel corpo di un ciabattino la persona che ne risulta sarà il principe con un altro aspetto corporeo, il che equivale a dire che l’identità di un individuo è legata alla continuità della sua coscienza, pure se dall’esterno quell’individuo potrebbe sembrare ancora il ciabattino. Anche l’esperimento dello “spettro invertito”, che molta fortuna ha avuto in epoca contemporanea nel dibattito sugli stati fenomenici dell’individuo, quelli, cioè, esperibili in prima persona, viene presentato per la prima volta nel Saggio di Locke (cap. 32, libro secondo): chi mi dice che il blu che percepisco io, a fronte di ogni cosa in grado di produrre in me quella percezione, non sia il rosso che percepisce un altro, a fronte di ogni stessa cosa in grado di produrre in lui quella percezione, e viceversa, se il nostro comportamento esteriore, linguistico e non linguistico, non fa rilevare nessuna differenza? Tuttavia, al di là delle critiche che anche oggi sono rivolte agli esperienti mentali che coinvolgono l’identità personale o la coscienza fenomenica (per esempio, la loro imprecisione nel descrivere le condizioni di sfondo dell’esperimento), questi esperimenti sembrano più vicini a una trattazione (filosofica) di alcune nozioni intese filosoficamente (identità, coscienza, percezione), che non a un primo approccio scientifico a tali questioni.
Forse, in questa prospettiva, cioè in una linea di continuità con il rinnovato metodo scientifico della meccanica seicentesca, possono essere visti altri esperimenti mentali che coinvolgono la percezione da un punto di vista più meccanico (anche se non meccanicistico, anzi a volte anti-meccanicistico). Si pensi all’esperimento mentale del mulino che Leibniz espone nel paragrafo 17 della Monadologia (1714). Se si immagina una macchina in grado di pensare, sentire, percepire, e si finge che essa sia ingrandita fino alle dimensioni di un mulino, vi si potrà entrare e vedere la sua struttura interna, ovvero pezzi che spingono altri pezzi, ma da nessuna parte una percezione, o meglio, la spiegazione di una percezione. Leibniz non condivideva il meccanicismo di stampo cartesiano e pensava che le “ragioni meccaniche” non spiegassero le caratteristiche salienti dei processi percettivi. Tuttavia, se se ne considera l’aspetto epistemologico, questo esperimento mentale può essere visto introdurre una distinzione fra diversi tipi di spiegazione dei fenomeni naturali, i quali pure sono prodotti da macchine di un qualche tipo – se, come punto di partenza, dobbiamo immaginare una macchina che pensa e percepisce, essa non viene scartata a priori da Leibniz –, il cui studio deve essere compiuto nella giusta prospettiva metodologica ed epistemologica. Per tali ragioni l’esperimento del mulino è ritornato in auge nelle discussioni contemporanee in filosofia ed epistemologia delle neuroscienze, cioè in quell’ambito che si occupa di stabilire una corretta connessione esplicativa fra i processi mentali e la macchina che li realizza, oggi ben più conosciuta che ai tempi di Leibniz.
Da ultimo, un altro tema, sempre legato alla percezione e ai suoi processi, ha generato una lunga e accesa discussione a partire dalla fine del Seicento e per tutto il Settecento: il problema del cieco nato di Molyneux, anch’esso presentato in forma di esperimento mentale. Molyneux, filosofo naturale irlandese, in una lettera a Locke del 1693 propose il seguente problema. Si immagini un individuo nato cieco, che abbia imparato a distinguere gli oggetti attraverso il tatto e che a un certo momento recuperi la vista. Gli siano posti di fronte un cubo e una sfera della stessa grandezza. Senza toccarli, cioè per mezzo della sola vista recuperata, sarebbe in grado di riconoscere qual è il cubo e quale la sfera? Locke inserisce e discute questo esperimento mentale nella seconda edizione del suo Saggio (libro secondo, cap. 9), dedicata alla percezione, asserendo che a prima vista il cieco non saprebbe distinguere il cubo dalla sfera, ma potrebbe farlo solo dopo averli toccati ed esaminati, cioè dopo il ricorso all’esperienza. Anche Leibniz riprenderà questo esperimento nei Nuovi saggi sull’intelletto umano(1705), una puntuale risposta alle teorie e al Saggio di Locke, affermando che, al contrario, anche senza toccare i due oggetti, ma sapendo che sono un cubo e una sfera, egli saprà riconoscerli sulla base delle “idee esatte”, cioè delle definizioni degli oggetti stessi di cui è in possesso.
Nei decenni successivi l’argomento viene ripreso da molti autori diventando uno dei cardini della filosofia della conoscenza settecentesca e uno degli spartiacque principali fra empiristi (risposta negativa) e razionalisti (risposta positiva), anche se non corso del Settecento questa distinzione si perse progressivamente per le differenti e complesse risposte che ne furono tentate. Fra gli empiristi si può citare Berkeley (1685-1753), che fa del cieco nato che recupera la vista uno dei personaggi del Saggio di una nuova teoria della visione (1709). Ne discussero, in seguito, anche Buffon (1707-1788) nella Storia naturale dell’uomo (1749), Condillac (1715-1780) nel Saggio sull’origine delle conoscenze umane (1746) e nel Trattato sulle sensazioni (1754), e Diderot (1713-1784) nella Lettera sui ciechi ad uso di quelli che vedono (1749), solo per citare alcuni fra i molti che se ne occuparono.
La lunga storia del problema di Molyneux mostra come un esperimento mentale possa avere un’influenza duratura, contribuendo a spingere la filosofia della conoscenza verso una considerazione sempre più scientifica dei suoi temi. Se è vero che solo nell’ultimo secolo si può parlare di una psicologia scientifica e di una scienza cognitiva, già con l’esperimento di Molyneux ci si cominciò a chiedere come un caso immaginario potesse orientare non solo la formazione del quadro concettuale di spiegazione dei fenomeni mentali, ma anche il modo con cui affrontare e valutare le acquisizioni empiriche ad essi relative. Non molti anni dopo la formulazione di Molyneux il caso presentato dal chirurgo inglese William Cheselden (1688-1752), relativo a un ragazzo nato cieco che a quattordici anni, nel 1728, recuperò la vista in seguito a un’operazione, divenne occasione per un confronto fra esperimento mentale e realtà empirica, suscitando reazioni differenti fra quelli che se ne occuparono. Infatti, fu proprio, anche se non esclusivamente, sulla base del quadro teorico che ebbe come punto di inizio la questione posta da Molyneux che si poté procedere ad affrontare, in un orizzonte via via più scientifico, il tema della percezione visiva. Non è inesatto affermare che il problema di Molyneux sia una sorta di antesignano di una delle questioni oggi più rilevanti nel campo delle neuroscienze e cioè il binding problem o problema della congiunzione fra le diverse caratteristiche di un oggetto percepito.