Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In parallelo alla riscoperta umanistica del valore dell’individuo, nel Quattrocento si sviluppa il genere del ritratto come segno di affermazione personale. La tipologia del ritratto di profilo, diffusasi su modello delle monete e delle medaglie antiche, viene progressivamente soppiantata da quella del ritratto di tre quarti, che permette di cogliere sia i tratti fisionomici del personaggio effigiato sia gli elementi salienti della sua personalità. Maestri indiscussi del genere sono Jan van Eyck nelle Fiandre, Antonello da Messina e Leonardo da Vinci in Italia.
Il ritratto nel Medioevo
Erede diretta di Roma, la civiltà del Medioevo cristiano conosce il ritratto sia nell’Oriente greco che nell’Occidente latino. La tradizione del ritratto imperiale continua vigorosa anche dopo Costantino e fornisce uno degli argomenti più convincenti alla legittimazione delle icone o immagini sacre.
Come dimostra il significato originario delle parole con cui le abbiamo indicate, le rappresentazioni di Cristo, della Vergine e dei santi vanno considerate ritratti a tutti gli effetti. Se non soddisfano le nostre aspettative in tal senso, ciò si deve esclusivamente al fatto che la nozione medievale di ritratto è profondamente diversa dalla nostra. Sia l’individualità come contenuto, sia l’arte come mezzo per esprimerlo rispondono all’epoca a criteri e valori difficili da condividere oggi. Una situazione simile si verifica nell’ambito letterario con la biografia. Le infinite vite di santi che il Medioevo ci ha lasciato appartengono senz’altro al genere, ma appaiono terribilmente sciape al lettore abituato agli straordinari sviluppi che la biografia ha conosciuto in età moderna e contemporanea.
Ricordare la presenza costante, quasi l’ubiquità del ritratto lungo tutto il Medioevo, non significa sottovalutare l’importanza delle novità radicali che anche in questo campo connotano l’Occidente nella fase più avanzata di quel periodo. Il XII secolo, al quale si deve l’elaborazione di un’idea forte e in qualche misura moderna di individualità, è anche il secolo che vede la nascita dello stile gotico e con essa una nuova attenzione dell’arte al mondo esterno. Approdati tardi a questa innovazione, gli scultori italiani di fine Duecento sono in grado di dotare la rappresentazione dell’individuo della forza che ancora ci colpisce nelle statue e nelle effigi tombali di Arnolfo di Cambio. Con Giotto questa esigenza si trasferisce dalla scultura alla pittura. Nei dipinti dell’artista, committenti e amici s’impongono all’osservatore con la presenza fisica e la credibilità psicologica di persone vere. Si pensi all’Enrico Scrovegni del Giudizio universale affrescato sulla controfacciata della cappella dell’Arena a Padova o al cardinale Stefaneschi nel polittico omonimo oggi nella Pinacoteca Vaticana a Roma.
Pisanello, la medaglistica e il ritratto di profilo
Le opere cui si è accennato includono dei ritratti, non sono dei ritratti. Per quanto sottile, la differenza risulta cruciale non appena ci si accosti a quello che s’è convenuto di riconoscere come il primo ritratto autonomo d’età postclassica, vale a dire il Ritratto di Jean le Bon re di Francia, dipinto intorno al 1360 da un pittore francese di cultura fortemente italianizzata e oggi custodito al Louvre. Eseguito con modalità tecniche tradizionalmente proprie dell’immagine sacra, l’opera se ne discosta perché presenta il volto del sovrano di profilo anziché di fronte. La scelta affonda le sue radici nella distinzione gerarchica tra le due visuali, che l’arte cristiana conosce sin dall’età tardo-antica. La dichiarazione di umiltà a essa sottesa segna i ritratti di profilo almeno fin verso il 1440, quando Pisanello inventa, con la medaglia, uno dei prodotti più tipici della ritrattistica rinascimentale.
Diversamente dalla moneta antica cui pure s’ispira per la materia come per le soluzioni formali, la medaglia moderna è connotata da una valenza puramente celebrativa. Ogni persona che ne venga onorata può aspirare alla fama di cui hanno goduto gli imperatori e altri protagonisti della storia greca e romana. La larga diffusione della medaglia e delle sue premesse ideali induce a credere che la fedeltà al profilo in tanti ritratti dipinti e a rilievo prodotti in Italia dopo Pisanello e fino ad artisti come Piero della Francesca e il Pollaiolo non vada letta in continuità con gli scrupoli religiosi della precedente fase internazionale, ma piuttosto come risposta convinta alla nuova esigenza umanistica di un’affermazione mondana.
Jan van Eyck e il ritratto nelle Fiandre
Premesse culturali diverse sortiscono al Nord soluzioni artistiche diverse. L’arte di Jan van Eyck è altrettanto rivoluzionaria di quella del Rinascimento italiano, ma ha lo scopo non tanto di celebrare quanto di rispecchiare la realtà che rappresenta. In questa prospettiva, il primato del visibile si fa assoluto e il ritratto assume caratteri non dissimili dalla natura morta o dal paesaggio.
Il Ritratto del cardinale Nicola Albergati di van Eyck, oggi a Vienna (Kunsthistorisches Museum), del 1432 circa, costituisce un caso esemplare. Il busto dell’anziano dignitario stacca di tre quarti contro lo sfondo scuro e indefinito. Il pennello del pittore traduce in puro colore la strenua indagine naturalistica attestataci da uno splendido disegno preparatorio in punta d’argento, che ancora si conserva a Dresda. La pelle avvizzita, il riflesso della luce negli occhi, la diversa qualità tattile dei radi capelli e del morbido risvolto di pelliccia restituiscono l’immagine oggettiva dell’effigiato. L’uomo saggio e autorevole sta davanti a noi in silenzio e il lento esercizio visivo attraverso il quale entriamo in contatto con la sua individualità non viene mai interrotto dalle squillanti fanfare della celebrazione.
I ritratti di Jan van Eyck si contano tra i capolavori assoluti dell’arte occidentale. Raramente compresi nei loro valori più profondi, essi segnano lo sviluppo dell’intera ritrattistica europea del Quattrocento. Nei Paesi Bassi, dopo la fortunata ripresa dei modi, in qualche misura alternativa, di Robert Campin a opera di Rogier van der Weyden, una nuova polarizzazione si stabilisce tra la sfumata analiticità di Hans Memling e la sintesi luminosa di Geertgen tot Sint Jans con cui ha inizio la gloriosa storia del ritratto di gruppo olandese. In quella periferia fiamminga che è per quasi un secolo la penisola iberica, il drastico processo di semplificazione cui vengono sottoposti gli esempi settentrionali viene sfruttato da un artista di genio come Nuno Gonçalves per mettere in scena quel peana alla diversità fisionomica che è il Polittico di San Vincenzo a Lisbona. Nelle città autonome e nei principati di lingua tedesca, il rovello grafico imposto dalla centralità dell’incisione e della scultura in legno sortisce effetti diversi che svariano dal felice decorativismo del Maestro del Libro di Casa al naturalismo espressivo di Hans Pleydenwurff. In Francia, la vocazione antica alla mediazione linguistica si esprime nei ritratti straordinari di Jean Fouquet, nei quali Nord e Sud sembrano incontrarsi e dar luogo a una nuova forma artistica che salda le Fiandre con Firenze e con Roma.
Il ritratto in Italia
Diverso il discorso per quel che riguarda l’Italia. Il fascino della pittura di Jan van Eyck, e dei “ponentini” in genere, s’insinua rapidamente presso le scuole artistiche della penisola, portando con sé l’interesse per il taglio ravvicinato, la visuale di tre quarti e l’attenzione per il gioco della luce sulla diversa epidermide delle cose.
Quando s’affronta il caso esemplare di Antonello da Messina, non basta tuttavia rilevare il debito che i suoi ritratti intrattengono con quelli, influenzati da van Eyck, di Petrus Christus. Inquadrati dalle leggi ferree della prospettiva, visti leggermente dal basso, segnati da un’esplicita complicità con l’osservatore, i personaggi effigiati dal pittore siciliano appaiono ai nostri occhi straordinariamente più presenti e insieme più attivi rispetto a tutti i loro omologhi transalpini. Difficile non leggere in ciò l’impatto dei valori più tipici dell’etica rinascimentale, quali s’erano venuti elaborando nelle città e nelle corti col loro particolarissimo concetto di “fortuna” e di “virtù” e l’inconfondibile presa di possesso sul mondo. Per Antonello, si pensi per tutti all’ Ignoto del Museo Mandralisca di Cefalù, che continua a sfidare da secoli col ghigno beffardo e lo sguardo in tralice quel pubblico di cui non può proprio fare a meno.
La serie cospicua e tipicamente italiana dei ritratti scultorei in forma di busto conferma quanto detto. Legata nelle sue origini al genere medievale del busto reliquiario e alla pratica diffusa del calco dal vero, tale tipologia conosce la sua prima affermazione significativa col Piero de’Medici di Mino da Fiesole, oggi al Bargello di Firenze, del 1453. La precisione con cui sono resi i tratti del volto e i particolari dell’abito dimostrano che l’artista ha guardato con grande attenzione ai dipinti fiamminghi, cogliendone forse la sintonia con la ritrattistica romana della prima età imperiale. Sta di fatto che da questo momento in avanti il confronto tra pittura e scultura gioca un ruolo cruciale nello sviluppo dell’arte rinascimentale. Un’opera d’eccezione come la Dama del mazzolino del Verrocchio, sempre al Bargello, dimostra chiaramente come, traducendo in un vigoroso tutto tondo uno schema di posa che la pittura aveva timidamente sperimentato nel Profilo d’ignota di Filippo Lippi a Berlino (Gemäldegalerie), la scultura potesse lanciare a sua volta una sfida importante all’arte sorella e marcarne significativamente le scelte.
Leonardo da Vinci rappresenta a questo proposito la personalità risolutiva. Se nel giovanile periodo fiorentino risponde al Verrocchio con la Ginevra de’ Benci che si conserva (decurtata) alla National Gallery di Washington, nel successivo periodo milanese raggiunge un risultato di straordinaria pregnanza con la Dama dell’ermellino oggi a Cracovia (Muzeum Czartoryskich). Il taglio della figura, il suo elegante svolgersi nello spazio, l’equilibrio perfetto tra resa della realtà e puro valore di bellezza fanno del dipinto ancora quattrocentesco una pietra miliare nella genesi del ritratto moderno. Il simbolismo implicito nel candido animaletto che l’effigiata reca in braccio come nell’onda calda di luce verso cui si volge implica una volontà da parte di Leonardo di potenziare quelli che chiama i “moti dell’animo”. Erasmo da Rotterdam rimarrà scettico di fronte alla pretesa dell’arte visiva di rappresentare l’uomo interiore, ma i risultati ottenuti in questo campo da Raffaello o da Tiziano tratterranno i suoi seguaci italiani dal dare troppo credito all’antico pregiudizio. Davvero i grandi artisti erano in grado di cogliere quell’insieme di anima e di corpo che l’antropologia umanistica definiva con espressione tecnica di stampo platonico totus homo, l’uomo nella sua interezza.
Dürer e l’autoritratto dell’artista
L’unico parallelo significativo che l’arte nordica di fine Quattrocento offra alla rivoluzione di Leonardo è costituito da Albrecht Dürer. La lunga serie di autoritratti che l’artista pervicacemente realizza da quando non è che un ragazzino culmina nell’Autoritratto firmato dell’anno 1500, conservato oggi a Monaco di Baviera (Alte Pinakothek).
L’immagine frontale rinvia all’utilizzo dello specchio, ma il suo arieggiare il tipo iconografico del volto di Cristo dimostra che lo specchio che Dürer ha in mente non è tanto un marchingegno ottico quanto un mezzo per conoscersi nell’intimo e migliorarsi. Viene alla mente un detto non scritto di Cristo tramandatoci da un testo pseudociprianeo: “Vedete me in voi così come ognuno di voi vede se stesso nell’acqua o nello specchio”. La storia dell’autoritratto corre parallela non solo alla storia del ritratto, ma anche alla storia dell’autocoscienza artistica. Sintomatico allora il fatto che il secolo che vede affermarsi l’autoritratto autonomo sia anche il secolo che vede affermarsi la consapevolezza dello stile individuale. Il più intrigante proverbio artistico quattrocentesco suona “ogni pittore dipinge sé” e il suo chiaro radicamento nella metafisica di Nicola Cusano ne autorizza l’applicazione sia al caso dell’artista che esegue il proprio ritratto che a quello dell’artista che si rivela nei modi caratteristici del proprio operare.