Il poema filosofico
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il primo nucleo del genere “poema filosofico”, al quale vengono ascritte le opere di Senofane, Parmenide ed Empedocle, viene spesso riconosciuto nella Teogonia e nelle Opere e i giorni di Esiodo. Ma Esiodo, a meglio considerare, è saldamente ancorato all’epica arcaica, e Senofane appare un caso a sé. Rimangono Parmenide ed Empedocle. Ritenere che l’impiego della poesia invece della prosa da parte loro dipenda dal fatto che operano in Occidente, mentre la prosa è nata, e solo di recente, in Oriente, è troppo semplice. Meglio sarebbe fare ricorso all’effetto che Parmenide ed Empedocle si ripromettevano di ottenere, a loro avviso garantito soltanto dall’epica, ma soprattutto alla “verità” ancora procedente dal dio di cui volevano essere depositari, e al tipo di utente ideale al quale si rivolgevano.
Con la denominazione di “poema filosofico” ci si riferisce a un “genere” particolare, posto fra letteratura, rappresentata dal lungo componimento in versi esametrici (quali i poemi di Omero e di Esiodo), e filosofia, e a tale genere possono essere ascritte le opere di ben pochi autori: Senofane (al quale viene attribuito un Peri physeos, Sulla natura), Parmenide (autore anch’egli di un poema dello stesso titolo) ed Empedocle (i suoi poemi sarebbero due, uno intitolato Periphyseos, l’altro Katharmoi, cioè Purificazioni, ma alcuni hanno ritenuto che si tratti di un’unica opera con titoli diversi, mentre di recente D. Sedley ha individuato nei Katharmoi un semplice insieme di precetti di purificazione; nemmeno la pubblicazione nel 1999 del Papiro di Strasburgo ha chiarito definitivamente la questione, fornendo anzi argomenti ai sostenitori di tutte le tesi). L’esposizione di una complessa teoria filosofica in versi dovette suscitare polemiche, o quanto meno apparire singolare, nel VI secolo a.C., tanto che Aristotele ben due secoli dopo, interviene con un giudizio netto e inappellabile, a distinguere poema epico e poema filosofico: il problema si pone ancora, evidentemente, ed egli lo risolve riducendo le somiglianze fra i due tipi di componimenti esametrici soltanto agli aspetti formali, vale a dire al verso (Poet. 1447b 17-20, a proposito di Omero e di Empedocle), laddove per Gorgia era stata la poesia ad essere “discorso” (logos) in versi: due modi opposti di giudicare il rapporto tra forma e contenuto, distinguendo comunque la forma dal contenuto, nel primo caso individuando la specificità del contenuto rispetto alla forma, nel secondo intravedendo un’identità di contenuti al di là della forma.
La situazione potrebbe essere naturalmente descritta in modo più complesso, se prendessimo in considerazione, invece dei filosofi-poeti, i poeti-filosofi come Esiodo (citato con Senofane, Parmenide ed Empedocle da Diogene Laerzio in 9, 22), o i cosiddetti poeti “prosastici” (logoeides, “simile a prosa”, è aggettivo documentato in Ermogene e Dionigi di Alicarnasso, Composizione stilistica 6.26.6), ai quali la definizione può essere applicata vuoi per gli argomenti trattati, vuoi per la metrica meccanicamente imposta al contenuto: il legislatore e poeta elegiaco Solone viene ad esempio catalogato fra i filosofi, non tra i poeti, da Fozio (Biblioteca 167,114b), ed è citato da Ateneo insieme con Senofane, Teognide, Focilide e Periandro fra quanti non mettono in musica le loro composizioni, foggiando “i versi in base ai numeri e alla sequenza dei versi” (I sofisti a banchetto 632d); Plutarco così sintetizza il fenomeno, fornendone al tempo stesso un’interpretazione: le composizioni di Empedocle e di Parmenide, ma anche di Nicandro (autore di opere naturalistiche in poesia) e di Teognide, sarebbero opere “ che dalla poesia hanno preso in prestito il metro e lo stile elevato, quasi come un veicolo, per evitare l’andatura pedestre della prosa” (Come si devono leggere i poeti 2, 16c).
Per non parlare dei filosofi che scrivono in prosa ma il cui stile è sentito come “poetico” (Eraclito, unanimemente, secondo antichi e moderni, ma anche Platone il quale, come attesta Diogene Laerzio 3.37 per Aristotele, aveva uno stile che poteva qualificarsi come “qualcosa di mezzo da prosa a poesia”), o addirittura della ipotetica esistenza di versioni in prosa della poesia (Solone avrebbe messo in versi la storia di Atlantide, appresa dai sacerdoti egizi, per diffonderla fra i Greci, secondo Plutarco, Sol. 26.1, cfr. Platone, Timeo 22a, così come Socrate avrebbe intrapreso la versificazione delle favole di Esopo, secondo lo stesso Platone, Fedone 60a, e Plutarco, Come si devono leggere i poeti 2, 16c); l’ipotesi viene contemplata e risolta sempre da Aristotele, questa volta in nome del valore universale della poesia, che dice le cose possibili secondo verosimiglianza e necessità, mentre la storia narra le cose avvenute: “si potrebbero mettere in versi gli scritti di Erodoto e nondimeno sarebbe sempre una storia, con versi o senza versi” (Poet. 1451b 1ss.).
Di questo difficile e magmatico dibattito è arrivata sino a noi soltanto un’eco, tale però da determinare l’incerta classificazione dei poemi esiodei (Teogonia e Opere e giorni), che da qualche studioso vengono ritenuti distinti dall’epica omerica sulla base del contenuto, in quanto rappresentanti dell’epica didattica di contro all’epica eroica (così come per gli antichi gli elegiaci Solone e Teognide sarebbero stati prosastici o filosofici per la valenza politica e paideutica). Due sono tuttavia le cose che possiamo dire con una certa sicurezza: per gli studiosi moderni le Opere e giorni presentano senza dubbio elementi che rinviano alla cosiddetta produzione sapienziale-esortativa orientale (soprattutto il fatto che i nomi del dedicatore, Esiodo, e del dedicatario, il fratello Perse, vengono specificati nell’ambito dei consigli sulla corretta conduzione della vita), ma in epoca arcaica e classica Iliade, Odissea, Teogonia e Opere e giorni dovevano essere percepiti come poemi appartenenti allo stesso genere, almeno sino all’epoca di Platone. Cantare le lodi degli dèi e degli eroi, ricostruendone le genealogie, è infatti “intento” comune dei primi tre poemi, ricostruzioni di un passato che viene evocato davanti agli occhi dell’uditorio e si fa presente; Platone, inoltre, che documenta nello Ione il fatto che l’attività del rapsodo non era limitata alla recitazione del testo di Omero e di Esiodo, asserisce con chiarezza che “si sono occupati degli stessi argomenti” (Ione 532).
La distinzione fra i poemi esiodei e quelli omerici è piuttosto sentita nella contrapposizione di pace e guerra: nell’ Agone fra Omero ed Esiodo, le cui fonti risalgono a prima dell’Agone composto da Alcidamante, retore del IV secolo a.C., si ringrazia Omero per la paideia, per l’educazione (Omero è qui poeta “didattico” per eccellenza, non Esiodo), ed è soltanto l’aspetto etico-civile quello che fa sì che ad Esiodo, in modo del tutto inatteso, venga data la palma della vittoria: il pubblico trova più affascinanti, senza alcun dubbio, i versi di Omero, ma il sovrano nella sua funzione di giudice incorona Esiodo che non canta guerre e stragi ed esorta piuttosto all’agricoltura e alla pace (il poeta ha infatti terminato la gara con un brano tratto dalle Opere, che dunque rientrano anch’esse, a pieno titolo, nello stesso genere).
Ma torniamo al poema filosofico comunemente inteso. A partire dal VI secolo a.C. i nuovi sapienti, i filosofi, avocano a sé una forma di sapienza diversa dalla precedente e pretendono di attingere la “verità”, al di là dell’“opinione”, sostituendola alle narrazioni mitiche destinate a produrre unicamente piacere, motivo per cui attaccano i poeti, Omero ed Esiodo in particolare, dando origine a quella che è già un’antica querelle per Platone (Rep. X 607b). Li attaccano, sembra evidente, per l’enorme influsso che essi esercitano sul pubblico (un influsso paideutico, sfruttato a fini politici e militari), senza trasmettere in realtà nulla di utile (i poeti, privi di alcuna conoscenza, non sono addirittura nemmeno detentori di una techne, dipendono unicamente dal dio che li ispira, sono dunque in preda all’enthousiasmos, ancora secondo lo Ione di Platone, ma l’enthousiasmos è già presente in Democrito), e soprattutto perché mentono, producendo anche, sempre per Platone, l’effetto negativo di stimolare l’emotività, di accrescere le passioni. Ed è un’epoca in cui la prosa filosofica (insieme con la prosa adottata da autori di opere di tipo scientifico, manualistico – medico, matematico, architettonico – e storico) è già stata inventata e sperimentata: in prosa scrissero infatti Anassimene e Anassimandro, prima dei poeti filosofi, e sempre in prosa, sebbene con uno stile singolarissimo, oracolare, Eraclito, e in seguito Anassagora e Democrito.
Senza dimenticare che tra poemi in origine orali, e ormai definitivamente fissati dalla scrittura, e opere scritte, ma in prosa, non mancavano forme, per così dire miste: conferenze pubbliche successivamente trascritte e rielaborate (si veda in particolare la predilezione di Antifonte per l’“improvvisazione” eseguita su una semplice traccia), brani scritti, poi letti (dunque fruiti auralmente), infine diffusi tramite la scrittura, “ricuciti” in un insieme (penso in particolare ad Erodoto); e senza dimenticare che fra i filosofi della nascente disciplina non mancava chi continuava ad optare per l’oralità (così Pitagora, ma in particolare Socrate, con tutte le spiegazioni che del fenomeno fornirà Platone, notoriamente anch’egli critico nei confronti della scrittura).
In questo panorama l’esprimersi in versi è allora una scelta consapevole? E se sì, che cosa induce Senofane, Parmenide ed Empedocle a trasmettere la propria filosofia in versi?
La prima risposta circa le motivazioni (che inevitabilmente si riflette sulla volontarietà o casualità della forma-poema) è stata di tipo geografico: la Ionia, più innovativa, avrebbe visto l’evolversi della prosa, la Magna Grecia, più conservativa, avrebbe continuato ad esprimersi in poesia, secondo la tradizione.
Ma, come fa notare Glenn Most (“The Poetics of Early Greek Philosophy”, in The Cambridge Companion to Early Greek Philosophy, ed. A. A. Long, 1999), il criterio non appare incontestabile: Senofane proviene da Colofone e solo in seguito si trasferisce ad Elea, e Pitagora è nativo di Samo; d’altro canto esempi di prosa si trovano precocemente anche ad ovest (così Ferecide di Siro nell’VIII secolo a.C. ed Ecateo quasi due secoli dopo); nell’indagine bisognerebbe poi separare Senofane da Parmenide e da Empedocle. Basandosi sull’originaria professione di rapsodo (vale a dire di cantore professionale) svolta da Senofane (notizia molto contestata, da ultimo soprattutto da Long, e per lo più invece accolta dai filologi), e sul fatto che ci sono tramandati frammenti in metri diversi (non soltanto esametrici), dal contenuto addirittura satirico (i Silloi), Most ritiene che, del tutto consapevolmente, egli voglia tornare ad esprimersi in versi, unica soluzione che può assicurargli un pubblico molto ampio di non-specialisti, successo e fama.
Molto acutamente lo studioso ricorda poi l’importanza degli agoni – le competizioni canonizzate – ai quali partecipano i rapsodi (si pensi alle Panatenee del VI se. a.C. ad Atene, durante le quali i rapsodi si sfidano nella recitazione di Omero), e ritiene che il rapsodo Senofane si proponga appunto di uscire vincitore da un agone, tradizionale, sì, ma al quale partecipare con l’esecuzione di un testo migliore di quello di Omero (che Senofane critica duramente, soprattutto per quanto riguarda la divinità), portatore di una nuova verità.
I suoi versi, invece di narrare il passato mitico di un preciso popolo, sarebbero depositari di una verità valida sempre e per tutti, superiore alle virtù morali e politiche predicate nei simposi (durante i quali si recita in prevalenza poesia elegiaca e giambi) e alla virtù agonistica celebrata dagli epinici della lirica corale (egli teorizza infatti, nei suoi versi, un “simposio ideale”, e si oppone alla fama ottenuta tramite le virtù agonistiche). Parmenide ed Empedocle, gli unici che scrivono soltanto in esametri, sarebbero invece accomunati dal concetto che la sapienza deriva da una fonte divina: il dio parla in versi, gli oracoli soltanto e sempre in esametri.
Anzi, mentre il poema di Parmenide si pone come una iniziazione mistica, con la dea che si esprime mediante una dizione chiaramente epica, formulare, Empedocle si presenta addirittura egli stesso come un dio, temporaneamente esiliato: profeti, bardi e principi sono le categorie che scendono sulla terra per poi tornare alla divinità. Barnes, infine, pur riconoscendo che quella che viene definita “scuola” italiana viene fondata da emigrati dalla Ionia, distingue fra gli Ionici, che seguono le speculazioni cosmologiche di Talete, e gli Italiani, che sono più interessati alle implicazioni psicologiche e relative alla natura dell’uomo presenti nelle sue teorie, segnalando anche che, se è vero che il razionalismo contraddistingue la filosofia dei presocratici, questo non impedisce che essi si dedichino al soprannaturale, e non solo alle scienze naturali, in quanto “teologia e soprannaturale possono essere trattati dogmaticamente o razionalmente”, asseriti o argomentati (The Presocratic Philosophers, I, London 1979, pp. 4 s.).
Ora, l’ipotesi geografica presta in effetti il fianco a serie obiezioni, non essendo banale l’argomento dell’emigrazione citato da Most, e per quanto concerne gli argomenti trattati, sembra opportuno, con Barnes, non separare razionalismo filosofico e teologia normalmente ritenuta argomento dei poemi arcaici. Che la prosa sia solo alle sue origini, e non ancora abbastanza diffusa, può invece essere un buon argomento a favore della scelta del verso esametrico: i poeti filosofi potrebbero aver sentito il bisogno di usare un mezzo tradizionale sicuramente di successo per veicolare contenuti affrontati alla luce di concetti nuovi.
Anche la separazione fra Senofane da un lato, Parmenide ed Empedocle dall’altro, proposta ancora da Most, si direbbe metodologicamente corretta ed efficace. Entro i limiti temporali di una vita lunghissima (circa 92 anni), Senofane scrive in forme metriche diverse e si dedica ad argomenti molto vari, dunque il pubblico al quale intende rivolgersi, e le occasioni in cui divulga le proprie opere, devono essere molto diversificati: ipotizza il simposio ideale in una elegia (anticipando quello che diventerà un topos simpotico: l’esclusione della lotta fra Centauri e Giganti e delle rivolte intestine), e critica, ancora in distici elegiaci, l’atletismo, uno dei valori tradizionali celebrati negli epinici corali (da Simonide, poi soprattutto da Pindaro) – in nome della propria sophie (per rispettare il suo dialetto, lo ionico; scriveremmo invece sophia in attico) che può portare, sola, al buon governo, dal quale dipende una buona vita per la città (e presso chi canta carmi simpotici se non presso le regge dei tiranni di Sicilia?). Poeta anche in esametri, quasi tutti attribuiti ai Silloi, un genere satirico che comincia con lui, nei quali attacca in particolare Omero ed Esiodo per le idee religiose, sempre in esametri si dedica anche a teorie sulla divinità e sulla conoscenza (nel poema Sulla natura), e a fenomeni fisici e metereologici. Egli appare, insomma, come un vero poeta itinerante, per gli influssi diversi che sembra avere subito e assorbito, e un poeta non solo ripetitivo, come si configuravano i rapsodi del suo tempo (dotati tuttavia anche della capacità di parlare “attorno a Omero”, a stare alla notizia tratta dallo Ione di Platone), bensì un rapsodo creativo, sperimentale e innovativo, aspramente critico e satirico, nonché poeta per occasioni private come i simposi e pubbliche come gli agoni.
Particolarmente importante, ancorché difficile da intendere nei suoi termini chiave, la sua orgogliosa proclamazione di una sophie o meglio di una buona sophie, che, ben più di qualunque tipo di forza fisica, può garantire alla città l’eunomie (fr 2): la cosa più probabile è che stia attribuendosi una eccellenza del pensiero che conduce a risultati pratici (non una semplice abilità poetica), vale a dire al buon ordine, all’equità, espressa con un sostantivo attestato già nell’Odissea XVII 487, in opposizione a hybris (gli dèi si aggirano per vedere se gli uomini coltivano la “violenza” o l’eunomia, cioè una vita ordinata, rispettosa delle norme), e divinizzata da Esiodo, Teogonia, v. 902, come una delle tre Ore, dee stagionali che proteggono le opere dell’uomo, dunque la sua prosperità, insieme con Giustizia e Pace. L’assenza di qualunque accenno (almeno per quanto ci è dato di ricavare dai suoi frammenti superstiti) al ruolo di un dio o delle Muse lo separa dal tono ispirato sia di Parmenide sia di Empedocle. E al tempo stesso lo separa da Esiodo, al quale pure i concetti lo uniscono, come abbiamo visto, così come le finalità pratiche (ordine sociale, giustizia, buon governo; d’altro canto gli elementi morali e sociali appaiono, molto simili, in Solone e Teognide).
Sulla linea di Esiodo, invece, appaiono da collocare Parmenide ed Empedocle, innanzitutto per il ruolo affidato alla divinità ispiratrice, per la sapienza che dunque proviene dagli dèi, e naturalmente per il “genere”, cioè per la scelta del poema esametrico.
Il genere, nell’età arcaica, non è mai ininfluente e determina occasioni e destinatari della poesia: non a caso Giovanni Cerri ritiene che l’ epos sia l’unico strumento di cui un greco del VI secolo a.C. dispone per “fornire un’esposizione completa del suo pensiero” (Parmenide di Elea, Poema sulla Natura, Milano 1999), laddove la prosa, più sintetica, è adatta a distinguere tre diversi livelli di uditorio: i discepoli che la usano come appunti, i competenti esterni in grado di intuire tramite la sintesi della serie di massime, il pubblico più ampio, semplicemente ammirato per un pensiero al quale non gli è possibile avere accesso.
Per la verità, almeno nel caso di Parmenide, abbiamo una singolare ricostruzione del suo metodo e del suo pubblico alla luce dei dialoghi di Platone, o meglio disponiamo di una opinione antica sull’uso e sull’effetto della sua poesia: nel Parmenide, dopo la lettura del proprio scritto da parte di Zenone, Socrate trova che Parmenide e Zenone sostengano la medesima tesi, il secondo nella prosa di cui ha appena dato lettura, il primo nel suo poema, articolando entrambi i propri discorsi “al di sopra dell’opinione di tutti noi” (128b); dal Sofista (237a) ricaviamo che Parmenide, sempre “in prosa e in versi”, sostiene che la tesi che “ciò che non è sia” “rifiuta di essere domata” (secondo una lezione dibattuta), e lo Straniero cita a tal proposito due versi (fr. 7, 1s.) – operando dunque una sintesi memorizzata e memorizzabile, lapidaria –, gli stessi versi che citerà ancora più avanti (258d), ma singolarmente introducendoli con le parole: “Perché lui stesso dice da qualche parte (pou)”, e inoltre inserendovi una non lieve variatio (nel primo caso “E tu cercando, da questa via distogli il pensiero”, nel secondo “ma tu distogli il pensiero da questa via di ricerca”). I versi sembrano, in conclusione, agevolare il ricordo, sintetizzare un pensiero, ma sembrano altresì facilitare l’adattamento delle formulazioni al contesto, secondo l’usuale sistema di citazione della poesia: si pensi alle “citazioni” di altri poeti all’interno della Silloge teognidea, talora dovute a varianti orali da diffusione simpotica, talora adattate sintatticamente al contesto, talora alla catena simpotica, fatta di tesi e controtesi. In questo caso, se il gerundio (il participio greco dizemenos) è posto all’inizio dell’indagine, il sostantivo, la via “della ricerca” (dizesios), ne segna la conclusione. Il “da qualche parte” allude alla scrittura su rotolo, quindi alla difficile reperibilità del passo, ma forse anche alla consapevolezza che si sta operando un intervento sul proprio “originale”, vale a dire sulla prima citazione, perché in realtà è proprio la seconda ad essere “autentica” (cioè di Parmenide, quanto meno fissata dalla scrittura), ed è la prima ad essere adattata al discorso platonico.
Mentre Senofane sembra infine gareggiare per ottenere un primato, dichiarandosi depositario di verità e di novità (e penso alle “favole degli antichi” del fr. 1), Parmenide ed Empedocle non proclamano mai di volersi distinguere dalla precedente poesia epica, si pongono piuttosto come suoi legittimi prosecutori, sfruttandone anche il fascino, l’incantamento (tanto che numerosi sono i punti di contatto sia con Omero sia con Esiodo), proponendosi evidentemente di ottenere gli stessi effetti.
Per le teorie filosofiche di Parmenide e di Empedocle si vedano le voci specificamente dedicate. In questa sede varrà invece la pena sottolineare gli aspetti che hanno a che vedere con la scelta del poema esametrico, quindi con l’aspetto “poetico”.
I rapporti di Parmenide con Omero e con Esiodo sono stati ampiamente sottolineati, ma molte sono anche le peculiarità: le Muse, onniscienti e in possesso del vero, quindi anche del falso, apparvero a Esiodo sull’Elicona, e gli donarono il tema del canto; Parmenide racconta invece il suo viaggio per raggiungere una dea che gli comunica verità e opinioni dei mortali (il motivo del viaggio è metafora molto diffusa, soprattutto nella lirica corale, ma qui non è l’autore che parla, bensì la dea stessa), e soprattutto espone le sue idee secondo una serie ordinata di argomenti.
Nonostante Alexander P.D. Mourelatos (The Route of Parmenides, 2008) abbia analizzato regole metriche (perfettamente ricalcate sul verso omerico ed esiodeo) e lessico di Parmenide (con una percentuale di innovatività di meno del dieci percento), sottolineandone la continuità con l’epica arcaica, non si potrà trascurare il fatto che la sua sintassi è quasi esclusivamente descrittiva e argomentativa (alta la frequenza dell’ipotassi, soprattutto per quanto concerne le causali introdotte dal gar, col senso di “poiché”), e questo può essere dovuto banalmente all’oralità ormai al tramonto, ma è certo che il proemio, di contenuto narrativo, è senz’altro più sciolto, mentre nel seguito, dedicato allo sviluppo dell’argomentazione, il ritmo dell’esametro è frequentemente impacciato, non fluido (“prosastico” si potrebbe dire, nel senso di meccanico); unendo le due considerazioni, dunque, si può ragionevolmente concludere che, se è vero che si avverte l’ovvio influsso della scrittura, altrettanto vero è che il ritmo del poema è più determinato dal concatenamento del pensiero che dall’aspetto fonico (come dimostrano anche l’uso delle cesure, la frequenza degli enjambement, nonché la necessità dello iato fra articolo e parte nominale, si pensi all’espressione to eon, “ciò che è”).
Certamente le doti poetiche di Empedocle appaiono più sviluppate di quelle di Parmenide, vengono ammirate oggi come ieri (cfr. Aristotele, fr. 70 Rose) e accuratamente studiate. Il fatto che il poema si aprisse probabilmente con una sorta di allocuzione in prima persona a Pausania, non può non ricordare le Opere e i giorni di Esiodo, dedicate a Perse, ma in un caso è l’allievo, nell’altro il fratello, coinvolto in una lite patrimoniale, che fornisce lo spunto agli effetti pratici della giustizia. Anche l’invocazione alla Musa, in sé altamente tradizionale, diviene creativa, se non nel senso certamente nella forma, in almeno uno degli epiteti: “dalle bianche braccia” è tipico dell’epica arcaica, anche se non riferito alla Musa; non così polymneste, tanto difficile da essere tradotto per lo più con “molto agognata”, ma con memor da Karsten e da Liddell-Scott-Jones (much-remembering), o addirittura con significato passivo, “molto ricordata”.
L’abilità di Empedocle nel proseguire la tradizione epica in modo creativo è particolarmente evidente non solo per l’innovazione linguistica, ma soprattutto per la frequente ripetizione di versi interi e per l’impiego della multiple-correspondence simile (una particolare tipologia di similitudine in cui i punti di contatto fra comparatum e comparandum sono più di uno). Se la ripetizione di versi è frequente in Omero, spesso per segnalare il ricorrere di scene o temi tipici, in modo quasi automatico (il che deriva certo dall’oralità, prima, in seguito dalla fruizione aurale), è innegabile che in determinati casi, soprattutto odissiaci, si abbia invece l’impressione che venga utilizzata per segnalare un’analogia testuale, lo sviluppo di un tema, e significativamente questo è sempre il senso della ripetizione in Empedocle, che così dovette intendere l’uso omerico, o che quanto meno si pose su questa linea evolutiva.
Nel caso della similitudine con più punti di contatto (studiata in Lucrezio, per esempio in De rerum natura I 271-297, da D. West, e riconosciuta da D. Sedley come tecnica derivatagli da Empedocle in Lucretius and the Transformation of Greek Wisdom, 1998) andrà segnalato che essa, nella forma di similitudine a double point (ovvero con doppio punto di contatto fra comparatum e comparadum), appare però come un’innovazione già omerica, limitata a pochi esempi, in questo caso esclusivamente iliadici (uno sviluppo estremo della “similitudine estesa”). Ancora una volta il fenomeno, nella sua innovatività, viene probabilmente colto, o forse rappresentato, da Empedocle, e questa attenzione non può non apparire pertanto come una sorta di miracolosa testimonianza della vitalità dell’epica.
Lucrezio a Roma scriverà l’ultimo poema epico, a ponte fra dottrina epicurea e poema esametrico (la qual cosa costituirebbe una forte infrazione dalla norma che, in epoca alessandrina, non prevede deviazioni dal maestro da parte dei seguaci di una dottrina filosofica, dunque fra padre filosofico e padre del genere). Come sostiene Sedley, l’influenza del genere si coglie pienamente non solo nel proemio, scritto a imitazione del proemio empedocleo, ma soprattutto nella scelta lessicale, nel passaggio dalla lingua altamente tecnica della prosa epicurea, ricca di definizioni peculiari, ad una lingua più evocativa, senza alcuna rigorosa fissità, nella tensione costante fra valutazione del proprio compito filosofico e di quello poetico, come emerge in particolare da De rerum natura I 921-950.
Senofane
Sulla natura, fr. 35 Gent.-Pr. (34 DK)
E dunque nessun uomo seppe e non vi sarà alcuno
che sappia nulla di quante cose dico sugli dè e su ogni cosa.
Se anche infatti, nel migliore dei casi, a uno capitasse di dire ciò è stato portato a compimento,
ancora egli non saprebbe; ma l’opinione è assegnata a tutti.
Parmenide
Incontro con la Giustizia
Sulla natura, fr.1
Le cavalle che mi portano, lontano quanto l’impulso potrebbe giungere,
mi accompagnavano, quando mi ebbero condotto sulla strada, ricca di voci, della divinità, quella che porta l’uomo che sa per tutte le città.
Là fui portato: là mi portavano infatti le cavalle accorte
tirando il carro, fanciulle guidavano il loro percorso.
L’asse, nelle sue sedi, mandava il suono acuto di un piffero
surriscaldato (era mosso da due roteanti
cerchi da una parte e dall’altra), mentre si affrettavano nell’accompagnarmi
le figlie del Sole, lasciate le case della Notte
per la luce, e toltesi il velo con le mani dal capo.
Lì è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno,
un architrave le fa da cornice e una soglia di pietra,
ed essa, alta sino al cielo, è chiusa da grandi battenti
e le chiavi che aprono e chiudono le tiene la Giustizia preposta alle molte pene.
Rivolgendosi a lei lusinghiere, con dolci parole,
le fanciulle riuscirono accortamente a persuaderla
affinché togliesse senza indugio la sbarra del chiavistello dalla porta;
e questa spalancatasi, attraverso i battenti schiuse un immenso vuoto, facendo ruotare
nei cardini, in senso inverso, i bronzei assi,
fissati con chiodi e con borchie; lì, attraverso la porta,
diritto le fanciulle guidarono lungo la strada maestra il carro e le cavalle.
E la dea benigna mi accolse, e mi prese la mano destra
con la mano, e così cominciò a parlarmi e diceva:
O giovane, compagno ad aurighe e a cavalle immortali
che ti portano giungendo alla nostra casa,
rallegrati, poiché non una malvagia sorte ti ha fatto venire
su questa strada (certo è fuori dal cammino percorso dagli uomini),
ma legge e giustizia. Bisogna che tu tutto sappia,
sia della verità ben rotonda il cuore che non crolla,
sia le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è vera certezza.
Tuttavia imparerai anche queste, come era necessario che le cose che si crede (dokounta) che siano dovrebbero essere generalmente credute (dokeos) essere, poiché penetrano attraverso tutte le cose in tutta la loro estensione.
[l’interpretazione degli ultimi due versi è molto dibattuta e diverge profondamente da studioso a studioso]
Empedocle
L’origine delle cose
Sulla natura, fr.1 D.-K; Fr. 3, 1-5 D.-K. Fr.1 D.-K.
Pausania, tu ascolta, figlio dell’assennato Anchite
Fr. 3, 1-5 D.-K.
Ma o dèi, stornate dalla mia lingua la follia di costoro,
da labbra sacre guidate invece il flusso di una fonte pura
e te, memore vergine Musa dalle bianche braccia, te io imploro: di
quanto è lecito ai mortali udire,
guida dalla casa di Pietà (Eysebies) conducendo il docile carro.
Fr. 8 D.-K.
Altra cosa ti dirò: nascita non c’è per nessuna di tutte
le cose mortali, né di funesta morte termine alcuno,
ma solo mescolanza e scambio degli elementi mescolati
c’è, e presso gli uomini si chiama nascita.
Fr. 23 D.-K.
Come quando pittori dipingono cangianti tavole votive,
uomini che ben conoscono l’arte per la loro abilità,
i quali, presi con le mani pigmenti multicolori,
mescolandoli armoniosamente, più di qualcuno meno di altri,
con questi producono forme simili a tutte le cose,
creando alberi e uomini e donne
e fiere e uccelli e pesci allevati nell’acqua
e anche gli dèi longevi per onore primi;
così l’inganno non sopraffaccia la tua mente, che altrove sia,
delle cose mortali, quante almeno sono venute all’evidenza, infinite,
la fonte,
ma questo sappilo chiaramente, poiché la narrazione che hai udito è di rivelazione divina.
Empedocle
Invocazione alla Musa
Purificazioni
Se mai per il bene qualcuno degli uomini effimeri, o Musa immortale,
[ti piacque] che le nostre inquietudini giungessero alla tua attenzione,
adesso, ancora una volta stammi accanto ed esaudisci la mia supplica, Calliope,
di rivelare un discorso di valore sugli dèi beati.