Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La fisica nucleare è alla base di grandi mutamenti che hanno segnato la storia contemporanea. Fin dall’inizio il suo sviluppo è stato associato più a immagini di distruzione che di progresso e i bombardamenti atomici sul Giappone sembrano dare ragione ai più pessimisti. L’età nucleare appare come l’epoca che rende possibile la distruzione di massa e persino la fine del mondo.
Le prime esplosioni nucleari e la corsa agli armamenti
Alcuni hanno visto nell’episodio del bombardamento su Hiroshima non tanto la conclusione della seconda guerra mondiale, quanto l’atto iniziale della guerra fredda. Washington giustifica il proprio operato asserendo che le nuove bombe avevano piegato il Giappone senza dover ricorrere a uno sbarco e quindi avevano salvato decine di migliaia di soldati americani e anche centinaia di migliaia di giapponesi. In realtà lo Strategic Bombing Survey condotto a riguardo concluse che la resa nipponica non era frutto dell’atomica. I bombardamenti incendiari e il blocco navale avevano già chiuso la partita.
Dopo il 1945, decisiva o meno che fosse, la bomba e aeroplani destinati a trasportarla costituiscono il perno della strategia antisovietica degli Stati Uniti. Un sistema di basi aeree circonda l’Urss e lo Strategic Air Command aggiorna i suoi piani di guerra totale man mano che l’arsenale atomico americano cresce. Il principio è quello di contrastare attraverso il monopolio atomico la preponderanza sovietica negli armamenti terrestri, secondo la strategia della balena contro l’orso, a suo tempo applicata dalla marina inglese contro le potenze continentali di turno.
Questa strategia subisce un primo colpo con la deflagrazione dell’atomica sovietica nel 1949. Il monopolio nucleare si è rivelato solo una breve parentesi in un mondo aperto ai rischi della proliferazione delle nuove armi. Già nel 1946 il romanzo The Murder of the Usa di Murroy Leinster descrive una aggressione nucleare contro gli Stati Uniti che provoca oltre 70 milioni di morti. Nel giro di pochi anni queste fantasie iniziano ad assumere i contorni della realtà. Tra il 1952 e il 1953 Usa e Urss sperimentano le loro prime bombe all’idrogeno, molto più potenti degli ordigni di prima generazione. Nelle sue memorie il fisico sovietico Andrei Sakharov ricorda gli effetti spaventosi dei test del 1953 a Semipalatinsk in Kazakistan, dove si sviluppa una potenza pari a 20 Hiroshima, con “gli uccelli inceneriti che si dimenano nell’agonia nella steppa bruciata”. Il 1° marzo 1954 nell’atollo di Bikini gli Stati Uniti fanno esplodere una bomba da 15 megatoni, la cui deflagrazione viene udita a oltre 300 chilometri di distanza e polveri radioattive si spargono su una superficie vastissima, provocando vittime e malati gravi tra il personale americano, gli abitanti delle isole Marshall e l’equipaggio di una nave da pesca giapponese. Si diffonde la coscienza che le esplosioni nucleari possono avere conseguenze ambientali sull’intero pianeta.
La corsa alla superbomba all’idrogeno provoca crisi di coscienza e spaccature laceranti nella comunità scientifica. Negli Stati Uniti a capo dell’impresa viene nominato Edward Teller, sostenitore accanito della necessità di sovrastare tecnologicamente l’Unione Sovietica. A Teller si contrappone Robert Oppenheimer, il fisico che in qualità di direttore del Progetto Manhattan – il programma di ricerca condotto dagli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale che portò alla costruzione delle prime armi nucleari – è considerato il padre della bomba di Hiroshima. Alcuni vedono nell’opposizione di Oppenheimer al nuovo ordigno un caso di cripto-comunismo, altri la gelosia professionale di chi temeva di essere scavalcato nella considerazione dei militari e dell’opinione pubblica. In realtà lo studioso teme l’inizio di una rovinosa corsa agli armamenti termonucleari potenzialmente in grado di provocare l’estinzione del genere umano. A suo giudizio le bombe già esistenti bastano a garantire la sicurezza americana. Quando a Oppenheimer viene vietato, a causa delle sue posizioni, l’accesso ai segreti atomici, lo scienziato reagisce invocando l’apertura di una inchiesta governativa. La richiesta viene soddisfatta e il “processo” a Oppenheimer, in un clima da caccia alle streghe, scuote per mesi il pubblico americano. Le indagini stabiliscono che egli non ha tradito il Paese, ma i dubbi gettati sulla sua integrità politica e morale portano alla sua esclusione dagli incarichi militari (1954). La vicenda Oppenheimer, messa in scena a teatro da Erwin Piscator, diventa un paradigma della condizione drammatica degli scienziati nell’età della guerra nucleare e favorisce quella presa di coscienza che si sarebbe di lì a poco concretizzata nel manifesto di Russell e Einstein per la rinuncia alla guerra (1955).
Nel frattempo si dota di armi atomiche anche la Gran Bretagna (1952), poi emulata da Francia (1961), Cina (1964) e Israele (si dice già al tempo della guerra dei Sei giorni). Questo ampliamento del club nucleare è al centro di grandi spaccature politiche e militari. Nel campo comunista Urss e Cina si scontrano sull’interpretazione da dare alle armi nucleari alla luce della dottrina leninista della guerra. I cinesi, infatti, giudicano eretico il principio sovietico della “coesistenza pacifica” e sostengono che una terza guerra mondiale, pur se combattuta con gli arsenali termonucleari, si concluderebbe con una nuova avanzata, forse decisiva, del socialismo. La bomba atomica è considerata una “tigre di carta” incapace di soffocare il processo storico di emancipazione legato alla fine del colonialismo. Le vicende della guerra di Corea e poi della guerra del Vietnam sembrano dare ragione a questi assunti cinesi visto che gli americani non possono di fatto impiegare il loro potenziale nucleare. I sovietici accusano la Cina di avventurismo militare e tagliano quindi tutti i progetti di collaborazione atomica con Pechino, anche se poi è Mosca a lasciare il mondo col fiato sospeso quando viene alla luce il programma segreto di Chruscev circa l’installazione di testate nucleari a Cuba (1962).
La crescente capacità sovietica di infliggere danni al territorio americano sconvolge gli equilibri nel campo occidentale. Perde di credibilità l’ipotesi che gli Stati Uniti scatenino una rappresaglia atomica contro l’Urss in caso di invasione sovietica dell’Europa in quanto Washington non inpiegherebbe le armi nucleari per salvare Parigi quando Mosca per rappresaglia sarebbe in grado di distruggere New York. Non a caso il segretario alla Difesa americano Robert McNamara promuove il passaggio dalla dottrina della rappresaglia massiccia a quella della risposta flessibile, che prevede delle reazioni militari commisurate alla natura dell’attacco subito. Ciò implica un processo di riarmo convenzionale per le forze della NATO, che si sono fino allora rette in gran parte sull’ombrello nucleare americano e sul principio della sua entrata in funzione non appena le armate sovietiche fossero penetrate in Germania occidentale. I più contrariati da questo mutamento furono i francesi, che già dopo la crisi di Suez (1956) avevano deciso di dotarsi della bomba atomica per garantire la sicurezza nazionale. A chi faceva presente che la Francia avrebbe comunque perso uno scontro nucleare col gigante sovietico, De Gaulle e i suoi generali rispondono che avrebbero potuto infliggere danni così gravi all’URSS da scoraggiare Mosca dal tentare una aggressione. In altre parole, si teorizza che un arsenale nucleare relativamente piccolo è in grado di tenere in scacco una superpotenza missilistica. Il contrasto insanabile tra la prospettiva strategica americana e quella francese conduce all’uscita di Parigi dalle strutture dell’Alleanza atlantica (1966).
Il disarmo
Questo principio della “deterrenza asimmetrica” aiuta a focalizzare i pericoli della cosiddetta proliferazione nucleare, vale a dire dell’aumento del numero di Paesi dotati di armamenti atomici. Mosca e Washington mostrano un comune interesse a prevenire il rischio che una serie di potenze regionali atomiche possano attuare dei ricatti politici e militari minacciando il ricorso alle nuove armi e accrescendo la possibilità di una guerra nucleare. Ciò favorisce la firma del Trattato di non proliferazione (Npt) del 1968, in base al quale i Paesi dotati di armi nucleari si impegnano a non diffonderle e a non trasmettere ad altre nazioni i mezzi per costruirle. Il trattato prevede inoltre l’avvio di negoziati per il disarmo. Ne scaturirono nel corso degli anni Settanta gli accordi Salt 1 (1972) e Salt 2 (1978) – così detti dalla formula Strategic Armaments Limitation Talks – che impegnavano USA e URSS a mantenere entro certi limiti i rispettivi arsenali. Un successo particolare è la firma nel 1972 del trattato Anti Missili Balistici (AMB) per la limitazione dei sistemi di difesa antimissile. Esso rivela in modo eloquente il carattere assunto dalla deterrenza reciproca. Le due superpotenze si impegnano sostanzialmente a non sviluppare delle barriere contro i missili nemici per proteggere le città, assicurando così la loro volontà di non scatenare per prime un conflitto nucleare. Viene applicata quella che alcuni anni prima il filosofo Raymond Aron aveva definito la “teoria degli ostaggi”. L’equilibrio del terrore riceve una sanzione giuridica.
Non si è ancora asciugato l’inchiostro della firma del Salt 2, che il mondo precipita in una nuova crisi legata agli armamenti nucleari. Un primo grave limite degli accordi Salt sta nel fatto che essi riguardano il numero dei missili, mentre l’evoluzione tecnologica consente ora di trasportare un numero crescente di testate con un unico vettore di partenza. In questa già difficile situazione esplode la controversia sugli euromissili. La nuova corsa agli armamenti che ne deriva è rovinosa per l’economia sovietica già in crisi, e contribuirà a rendere indifferibile l’esperimento gorbacioviano. Per decenni le armi nucleari da un lato hanno accreditato l’URSS come superpotenza, al di là del suo effettivo sviluppo economico e sociale, dall’altro hanno favorito quello sbilanciamento verso l’industria pesante e degli armamenti che tanto ha pesato sulla disfatta finale del modello sovietico. In questo senso l’arma nucleare si è rivelata davvero una “tigre di carta”.
Proprio mentre Gorbacev annunciava nuovi progetti di disarmo, l’incidente di Cernobyl (1986) rivela le arretratezze delle centrali nucleari del socialismo reale e diffonde ancor di più un alone catastrofista intorno alla tecnologia nucleare. L’opinione pubblica dimostra una particolare sensibilità verso il rischio di incidenti nucleari, anche se il numero immediato di morti di Cernobyl è inferiore a quello di disastri aerei, navali o in miniera. Il fatto è che le radiazioni comportano il dramma dei tumori e delle alterazioni genetiche, una morte invisibile tanto più atroce quanto più destinata a pesare sulle future generazioni. I bambini ucraini sembravano allora davvero simili ai coetanei giapponesi del 1945.
L’imprinting di Hiroshima si è rivelato formidabile, come il peccato originale della scienza nucleare, e da allora nell’immaginario collettivo si è faticato a distinguere tra applicazioni militari e civili della nuova energia. Nel senso comune la presenza delle centrali nucleari è sembrata una minaccia quasi paragonabile alle rampe di missili. Ciò ha prodotto delle reazioni che avrebbero incrinato la fiducia degli illuministi nella crescente razionalità del genere umano: in tal senso la questione nucleare è forse la più paradigmatica della condizione dell’uomo contemporaneo.
Alla ricerca di un uso benefico del nucleare
Fin dagli anni Quaranta ai timori di una guerra atomica mondiale si sono affiancate le speranze negli effetti benefici dell’energia atomica. In diversi Paesi sorgono impianti elettronucleari, mentre i più fanatici sostenitori della nuova forma di energia immaginavano di spianare montagne e scavare canali facendo esplodere cariche atomiche. Eccessi a parte, il nucleare di pace riceve un ulteriore impulso dalla distensione degli anni Cinquanta e dalla costituzione dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) nel 1956. Inizia allora un processo di diffusione della tecnologia elettronucleare durato fino al 1973, seguito da un brusco rallentamento fino a giungere alla paralisi dagli anni Ottanta in poi. Su tale tendenza, alla quale aderisce anche l’Italia, hanno pesato la questione delle scorie radioattive, la scarsa competitività economica dell’energia nucleare rispetto ad altre fonti (si pensi al ritorno del carbone negli ultimi 20 anni e alla scoperta di nuovi giacimenti petroliferi), il timore di favorire la diffusione delle armi atomiche attraverso il trasferimento di mezzi e competenze.
Con la fine della guerra fredda sorge per una breve stagione la speranza di una messa al bando delle armi nucleari. Il celebre orologio del “Bollettino degli scienziati atomici” che segna simbolicamente quanti minuti mancano all’“ora x”, ossia allo scoppio della guerra nucleare, viene portato a ben 17 minuti dalla mezzanotte, dopo che nel 1984 era giunto a meno tre minuti. La firma del nuovo trattato Start fra Mosca e Washington sembra dar ragione ai più ottimisti. In seguito gli scenari sono ridiventati cupi. India e Pakistan hanno mostrato i muscoli a suon di test nucleari in una area che rimane tra le più calde del mondo. In Medio Oriente l’atomica iraniana minaccia di contrapporsi a quella israeliana. La stretta compenetrazione tra nucleare di guerra e di pace continua a impedire controlli inequivocabili sui programmi atomici, a ostacolare la diffusione dell’energia nucleare e a favorire dittatori e regimi che dietro il paravento delle centrali preparano la bomba. A tutto ciò si aggiunge il nuovo pericolo del terrorismo nucleare.
Dopo l’11 settembre 2001 si è fatto più concreto l’incubo degli attentati con le cosiddette bombe “sporche” che potrebbero produrre delle Cernobyl nel cuore di New York o Londra. Voci di furti dai depositi nucleari ex sovietici e di traffici fra i terroristi islamici e i fisici pakistani hanno contribuito a far crescere le ansie collettive. A 60 anni da Hiroshima la conquista dei segreti dell’atomo, che alcuni scienziati utopisti videro come la tappa finale dell’emancipazione umana dalle fatiche del lavoro, continua a paventare immagini di morte e distruzione.