Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
È nel XVIII secolo che la figura dell’autore si afferma come punto di incontro delle battaglie per la rivendicazione del diritto alla libera circolazione delle idee contro ogni forma di censura e di controllo. Così come viene delineandosi, ciò che sarà chiamato “autore” presenta una natura eterogenea perché prodotta dal convergere di istanze e processi storici sorti in tempi, luoghi e ambiti diversi: lotte politiche per il controllo della diffusione dei saperi, polemiche intellettuali attorno alla funzione sociale degli autori e ai rapporti tra scrittore e istituzioni, battaglie tra lobby economiche per i diritti di proprietà sui beni prodotti dal lavoro intellettuale, controversie legali sulla codifica normativa di principi come il copyright e il droit d’auteur. Infine sarà la riflessione di Kant a tirare le fila di questo intreccio, affermando il ruolo dell’autore come portatore di diritti che ne fanno il garante di uno spazio pubblico aperto al libero confronto delle idee.
Copyright e privilège
John Locke
Due trattati sul governo
Ognuno ha la proprietà della propria persona, alla quale ha diritto nessun altro che lui. Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani possiamo dire che sono propriamente suoi. A tutte quelle cose dunque che egli trae dallo stato in cui la natura le ha prodotte e lasciate, egli ha congiunto il proprio lavoro, e cioè unito qualcosa che gli è proprio, e con cio le rende proprietà sua.
John Locke, Due trattati sul governo, trad. it. a cura di L. Pareyson, Torino, Utet, 1960
La figura dell’autore si afferma, nel corso del Settecento, come prodotto di negoziazioni pratiche e intellettuali attorno al problema delle prerogative giuridiche e morali di un soggetto cui si riconosce l’uso esclusivo e la diffusione della propria opera intellettuale. Inghilterra e Francia per la codificazione normativa e per le implicazioni politiche, Germania per le questioni di principio e le conseguenze più marcatamente filosofiche: queste le aree geografiche e culturali dove si animerà il dibattito.
L’Inghilterra rivendica un ruolo di primo piano, in questa storia. È a Londra che nel 1644 John Milton compone, con il suo Areopagitica, il primo testo della letteratura occidentale in difesa della libertà di stampa contro chi, distruggendo un libro, “uccide la ragione stessa, uccide l’immagine di Dio nella sua stessa essenza” (Areopagitica); ed è sempre qui che nascerà il moderno concetto di copyright. Il contributo inglese più significativo, tuttavia, è rappresentato dalla grande “battaglia dei librai” che agita l’editoria e la cultura anglosassone per tutto il Settecento.
Quando, alla fine del XV secolo, la stampa giunge in Inghilterra, la monarchia inglese decide di affidare il controllo e la censura delle opere pubblicate a un organismo privato, che diviene in breve tempo potentissimo: la Stationers’ Company (Compagnia dei librai), un’associazione che raggruppa tutti gli addetti al lavoro dell’editoria (rilegatori, stampatori, librai) ed è incaricata di esercitare il ruolo di censura sulle pubblicazioni e di repressione della stampa abusiva. La procedura prevede che lo stampatore ottenga il visto dall’autorità vescovile e che lo sottoponga al controllo degli addetti della Compagnia perché ne verifichino la conformità alle indicazioni della censura: in caso di esito positivo, lo stampatore ottiene, dietro pagamento di un’imposta, di poter registrare l’opera, sulla quale d’ora in poi avrà avuto un diritto esclusivo a tempo indefinito; ogni pubblicazione priva della registrazione è invece equiparata a un reato e punibile penalmente.
Le prime incrinature del sistema si registrano già all’inizio del secolo sulla scia delle riflessioni di Locke e Defoe, che per primi portano l’attenzione sulla figura dell’autore, sollevando il problema del riconoscimento dell’authorship in un mercato librario egemonizzato dai privilegi monopolistici della Compagnia. Gli Stationers reagiscono a questo clima culturale con un’offensiva volta a imporre il sistema della Compagnia come unica garanzia per tutelare la proprietà letteraria, equiparata a un diritto naturale (lasciando nel vago a chi spettasse tale proprietà, se all’editore del libro o all’autore). Al termine di molte turbolenze nasce infine la legge sul copyright, lo Statute of Anne del 1710, che per la prima volta riconosce agli autori i diritti sui proventi derivati dal loro lavoro intellettuale.
Lo Statuto tuttavia non porrà fine alle polemiche. Costretta dalla concorrenza degli editori irlandesi e scozzesi, non sottomessi ai vincoli dello Statute of Anne, la Compagnia intraprende infatti una campagna per ottenere il riconoscimento del carattere naturale e quindi extranazionale dei diritti di stampa acquisiti. Quella che viene presto ribattezzata “booksellers’ Battle” si protrarrà quindi per decenni, ritorcendosi alla fine contro la Compagnia. Lo scontro finale coincide con il processo Donaldson contro Becket (febbraio 1774), che si conclude con una sentenza che stabilisce come la proprietà intellettuale non esista in natura e non possa quindi essere monopolizzata dalla Compagnia: è una forma di tutela esclusivamente legale e suscettibile di emendamenti e modifiche in funzione degli interessi del paese. Ma soprattutto, la sentenza fa valere per la prima volta il principio del valore sociale del sapere e della conseguente necessità di remunerare l’autore, che entra quindi in scena come interlocutore forte e privilegiato, dal quale non si potrà più prescindere. È la nascita della proprietà intellettuale e del moderno concetto di copyright.
Diversa è la situazione in Francia: il controllo sull’attività libraria è affidato al sistema del “privilegio reale”, inteso come concessione eccezionale all’editore, da parte del sovrano, del monopolio sulla pubblicazione di un libro. Qui non ci sono equivalenti della Stationers’ Company, né un autentico sistema di diritti; piuttosto, nel corso del secolo la centralizzazione burocratica del controllo delle pubblicazioni conosce un’accelerazione e un progressivo inasprimento, a partire dal Règlement sur la Police de la Librairie del 1723. Nonostante gli interventi di intellettuali come Diderot e Condorcet sulle questioni del diritto d’autore, si dovrà attendere il 1789 e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino perché quelle argomentazioni comincino a farsi strada. L’articolo XI istituisce la libertà di stampa come diritto inviolabile del cittadino: “La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi per l’uomo: ogni cittadino può quindi parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge”. Tale diritto sarà regolato da un decreto del luglio 1793, prima vera formulazione legislativa del droit d’auteur: i prodotti dell’intelletto – in linea con i dettami del pensiero illuminista – sono doni della natura finalizzati al progresso del genere umano, e vanno sottratti all’usurpazione da parte del sovrano per essere ricondotti al loro naturale proprietario, l’autore. A differenza della natura giuridica del copyright inglese, il diritto d’autore in Francia presenta i caratteri di una prerogativa naturale dell’uomo, che non si fonda sul sistema delle leggi civili.
Il dibattito sulla proprietà intellettuale in Germania
Immanuel Kant
Dell’illegittimità dell’editoria pirata
Dell’illegittimità dell’editoria pirata
In un libro, in quanto scritto, l’autore discorre con il suo lettore; e chi ha stampato lo scrittore discorre attraverso i suoi esemplari non per se stesso, ma sempre e del tutto nel nome dell’autore. Egli lo rappresenta mentre discorre pubblicamente e fornisce solo la trasmissione di questo discorso al pubblico. […] Questi [l’editore, n.d.c.] procura sì nel suo proprio nome lo strumento muto della trasmissione di un discorso dell’autore al pubblico; ma portare al pubblico il citato discorso a stampa e quindi mostrarsi come colui attraverso il quale l’autore discorre al pubblico l’editore lo può fare solo nel nome dell’autore.
Kant, Reimarus, Fichte, L’autore e i suoi diritti. Scritti polemici sulla proprietà intellettuale, a cura di R. Pozzo, Milano, Biblioteca di via Senato Edizioni, 2005
Johann Albert Heinrich Reimarus
L’editoria nuovamente ponderata rispetto agli scrittori, gli editori e il pubblico
I giuristi trovano rifugio in una sottigliezza metafisica quando dicono che la proprietà intellettuale (literary property) non viene trasmessa al compratore con la materia del libro. Ma la vera proprietà intellettuale, la celebrità, il fatto che i pensieri siano suoi e solo suoi, rimane […] al solo autore anche e dopo la sua morte.
Kant, Reimarus, Fichte, L’autore e i suoi diritti. Scritti polemici sulla proprietà intellettuale, a cura di R. Pozzo, Milano, Biblioteca di via Senato Edizioni, 2005
Johann Gottlieb Fichte
Dimostrazione dell’illegittimità dell’editoria privata: un ragionamento e una parabola
Una volta acquistata, la carta stampata cessa immediatamente di essere una proprietà dell’autore […] e diventa proprietà esclusiva del compratore, visto che non può avere più di un padrone; il contenuto però, la proprietà del quale può essere comune a molti per via della sua natura intellettuale, così che ciascuno lo possegga per intero, cessa con la pubblicazione del libro ovviamente di essere proprietà esclusiva del primo padrone […] e diventa una proprietà comune a molti. Ciò che però assolutamente nessuno può far proprio, essendo fisicamente impossibile, è la forma di questi pensieri, la connessione di idee, e i segni con i quali esse sono esposte.
Kant, Reimarus, Fichte, L’autore e i suoi diritti. Scritti polemici sulla proprietà intellettuale, a cura di R. Pozzo, Milano, Biblioteca di via Senato Edizioni, 2005
Storicamente arretrata dal punto di vista istituzionale rispetto a Francia e Inghilterra (la prima legge di disciplina del diritto d’autore in Prussia risale al 1837), la Germania è invece all’avanguardia quanto alla discussione teorica sul diritto d’autore. Il dibattito sorge poco prima della metà del Settecento e vede protagonisti i più importanti esponenti della cultura tedesca, da Lessing a Kant, da Goethe a Fichte, per protrarsi nell’Ottocento con Hegel e Schopenhauer.
La polemica ha per protagonisti i sostenitori della proprietà intellettuale da una parte e i fautori della libera circolazione delle idee dall’altra (dialettica che ricorda da vicino il dibattito contemporaneo tra i teorici dell’open access e coloro che rivendicano la necessità di norme rigide a tutela degli autori). I primi contestano che, senza tutela di un diritto dell’autore sulle opere e senza la conseguente remunerazione, la produzione letteraria si sarebbe spenta o si sarebbe ritornati a forme arcaiche di patronato, incapaci di garantire la necessaria indipendenza degli autori. A questi argomenti, i secondi ribattono che i fini della rivoluzione illuminista necessitano la libera circolazione delle idee, che sono da intendere come prodotto e proprietà più del genio umano che del singolo autore, in linea con il principio, anch’esso di matrice illuminista, di una ragione al servizio del progresso materiale e culturale della società; sicché ogni difesa del diritto d’autore si configurerebbe di fatto come una forma di censura. È Johann Reimarus che, ne L’editoria nuovamente ponderata rispetto agli scrittori, gli editori e il pubblico (1791), elabora nel modo più compiuto la rivendicazione della libera circolazione dei testi: l’autore è tale non per la proprietà materiale o per il ricavato economico, ma per la proprietà intellettuale delle idee, che da quelle va distinta e rimane bene inalienabile dell’autore stesso. Ogni pubblicazione va resa di pubblico dominio e il profitto materiale del singolo deve cedere di fronte al benessere della comunità nel suo complesso, così che Reimarus trova nel principio illuminista della diffusione del sapere i presupposti teorici per la negazione del diritto d’autore, giungendo quasi a un’apologia della pirateria editoriale: “proprio grazie all’editoria pirata l’illuminismo e le conoscenze vengono diffusi in luoghi nei quali altrimenti essi arriverebbero o tardi o difficilmente o per nulla” (L’editoria nuovamente ponderata rispetto agli scrittori, gli editori e il pubblico).
Pochi mesi dopo, al pamphlet di Reimarus risponde Fichte con una Dimostrazione dell’illegittimità dell’editoria privata: un ragionamento e una parabola. Il ragionamento fichtiano individua nella “forma” data ai pensieri il nocciolo duro di una proprietà intellettuale inalienabile: “Una volta acquistata, la carta stampata cessa immediatamente di essere proprietà dell’autore […]. Ciò che però assolutamente nessuno può far proprio […] è la forma di questi pensieri”. L’editore non ottiene che un semplice usufrutto sulla proprietà d’autore, ma nessun possesso. La forma rimane proprietà esclusiva dell’autore da cui questo trae due diritti: quello di pretendere che gli venga riconosciuta la paternità del libro e quello di impedire che altri usurpino tale possesso, definito da Fichte naturale, innato e inalienabile. In questo modo il filosofo tedesco sposta la questione dal piano del possesso materiale a quello del soggetto che detiene una proprietà intellettuale, cioè all’autore come colui che possiede la prerogativa su quella particolare concatenazione di idee che è il proprio ragionamento. La Dimostrazione si conclude con una parabola; protagonisti un califfo e un mercante. A Baghdad un alchimista crea un miracoloso estratto contro ogni malattia, e ne affida l’esclusiva commerciale a un mercante, che in breve si arricchisce. Allorché un concorrente gli sottrae il farmaco e lo riproduce vendendolo a prezzi più bassi, il mercante esclusivista lo cita davanti al califfo. Il secondo mercante si difende sostenendo che il suo lavoro garantisce una maggiore e benefica diffusione del farmaco, del quale l’onore dell’invenzione resta al chimico; ma sebbene il califfo ascolti pazientemente le sue ragioni, alla fine lo fa impiccare senza alcuna esitazione. Con un esplicito richiamo polemico a Reimarus, la parabola fichtiana si chiude sulla morale di una proprietà intellettuale riaffermata come diritto naturale, da tutelare tramite le leggi dello stato contro qualsiasi forma di appropriazione indebita, fosse anche per la pubblica utilità. Chiamato in causa, Reimarus ribadisce, con il Supplemento alla ponderazione dell’editoria e i suoi diritti (1791), la scelta di giudicare dalla prospettiva del pubblico e non da quella dell’autore e dell’editore, legati in solido dal contratto di pubblicazione: “Il governo, in quanto guarda all’universale, deve dunque preoccuparsi non solo del profitto dello scrittore, ma anche del vantaggio di chi deve procurarsi i suoi scritti per l’universale diffusione delle conoscenze”. Un’attenzione ai risvolti sociali del problema che è particolarmente evidente nelle ultime righe dello scritto, quando Reimarus scrive che l’autore deve sentire il proprio impegno nei confronti della società e “non deve scrivere per l’aristocrazia, ma per il tiers état del mondo della lettura”.
Il momento saliente della polemica è raccolto nel volgere di pochi anni, dal 1785 al 1791. Ma sarà l’intervento di Kant, prima con l’opuscolo Dell’illegittimità dell’editoria privata (1785) e poi con alcune osservazioni nella Metafisica dei costumi (1797), infine nel saggio Sulla produzione di libri dell’anno successivo a fissare, chiarendo i termini e le implicazioni della questione, i contorni ormai ben definiti della figura dell’autore. Riflessioni a cui si può aggiungere la vicenda del rescritto regio con cui nel 1794 il filosofo tedesco sarà censurato per le idee espresse ne La religione entro i limiti della sola ragione , a testimonianza di un dibattito che non è confinato nel circolo ristretto dei salotti culturali e delle diatribe accademiche, ma che coinvolge gli intellettuali anche sul piano sociale e politico. Nello scritto del 1785, Kant distingue tra opus mechanicum (che produce l’oggetto materiale, il libro cartaceo) e opus mysticum, che è il dialogo tra autore e pubblico e rispetto al quale l’editore funge da mediatore. Così, le opera (i libri stampati) sono indipendenti dall’autore e possono diventare proprietà di chiunque, mentre le operae (il discorso tenuto a un pubblico attraverso il libro) necessitano di un autore che ne detenga il possesso e la responsabilità di fronte ai lettori. La formulazione di questo diritto viene quindi fondata non sulla proprietà di una realtà materiale, ma sull’azione che il libro rende possibile: è la delimitazione di uno spazio dove si sviluppa in autonomia e libertà una dialettica che vede autore e pubblica opinione come funzioni di quel discorso pubblico che è il libro. La pirateria editoriale è insomma il pretesto (almeno per Kant, se non per gli editori) per una definizione rigorosa di ciò che significa essere un autore, con la conseguente definizione di precisi diritti e doveri; lo riattesta anche il dibattito odierno sulla pirateria online (vedi A. Johns, Pirateria. Storia della proprietà intellettuale da Gutenberg a Google, Bollati Boringhieri, Torino 2011), occasione, oggi come allora, per ripensare il concetto di autore e di proprietà intellettuale in un contesto apparentemente libero e non gerarchizzato come quello della circolazione dei saperi su internet. Per Kant l’autore ha il diritto di parlare a nome proprio e di vietare ad altri di farlo a suo nome senza autorizzazione; il che, da un punto di vista filosofico, significa riconoscere in questa prerogativa una conversione in norma del diritto naturale e inalienabile alla libertà di parola: “In un libro, in quanto scritto, l’autore discorre con il suo lettore” (Dell’illegittimità dell’editoria privata, 1785). Si tratta del “tribunale pubblico della ragione” come spazio di cui l’autonomia dell’autore è presupposto e garanzia.