CORREGGIO, IL
IL Pittore, nato nel 1489, morto il 5 marzo 1534. Si chiamò Antonio Allegri, ma dal nome della città nativa fu ed è sempre detto "il Correggio". Suo padre si chiamava Pellegrino, la madre fu una Bernardina Piazzoli detta anche degli Aromani: gente modesta, ma agiata, e padrona di una casetta che il C. amò sempre ed ampliò, e nella quale morì di appena quarantacinque anni, tra le braccia dei genitori, lasciando loro il figlioletto dodicenne, Pomponio, rimasto senza madre (Girolama Merlini) sin dal 1529.
Il C. frequentò le scuole; quanto all'arte, egli, sin da bambino, ebbe occasione di vedere nella sua città opere ed artisti, alcuni ragguardevoli, chiamati e favoriti dalle fabbricerie e dalla corte. Uno di essi, Antonio Bartolotti, si designa come primo maestro del C., ma non si può trascurare il fatto che pittori erano e là tenevano bottega uno zio (Lorenzo) e un cugino (Quirino) del C. medesimo.
La vita del C., a differenza di quella del Parmigianino, è senza speciale interesse. Anche i pochi e scialbi aneddoti che si narrano di lui sono senza fondamento. Si sa che, giovane, passò a Modena nella scuola di Francesco Bianchi Ferrari, ma certo è che egli fece le ali per il suo volo a Mantova, con lo studio delle opere del Mantegna. Poté essere, il precocissimo adolescente, alla scuola del Mantegna? Può darsi, perché questi morì il 13 settembre 1506, quando il C. aveva già 17 anni. Comunque, anche portando a un po' più tardi la sua andata a Mantova, quando cioè il posto di pittore aulico era stato preso da Lorenzo Costa, certo è che sul giovane pittore, sia per sentimento sia per tradizione, emiliano, esercitarono la più profonda impressione le pitture mantegnesche cosi ricche d'elementi poetici e decorativi e così meravigliose per sapienza prospettica nell'architettura e nelle figure. E quell'impressione fu tale da rivelarsi, sia pure sopraffatta dalla poderosa personalità di lui, dai primi quadretti, come la Madonnina di lord Barrymore a Londra, e quella degli Uffizî, alle ultime o maggiori opere, come la vòlta della camera di S. Paolo e la cupola del duomo di Parma, dove nei giovani adolescenti e nei candelabri sulla finta balaustrata balena il ricordo dei Trionfi di Giulio Cesare del Mantegna, Che poi fosse a Roma è assai discusso, e s'ignora dove potesse osservare qualche opera di Leonardo, il cui chiaroscuro sicuramente vide. Leonardo nel 1514 fu a Parma, ma di tale passaggio non rimase traccia, mentre una gita a Milano da Mantova o da Correggio o da Parma non era cosa di grande momento.
I dipinti del C. si possono distinguere in tre grandi periodi: quelli giovanili, svolti su temi e forme tradizionali emiliane e mantegnesche; quelli di ricerca personale eseguiti dal 1513 circa al 1518, ossia prima della sua andata a Parma, e quelli trionfali, fatti dopo. È solo a Parma, naturalmente, ch'egli sviluppa la sua incomparabile individualità, che tuttavia anche per l'innanzi, anche nei primi lavori da assegnarsi forse al 1505 o 1509, aveva dato barlumi e lampi assai significativi.
La natura del C., così piena d'intimo fuoco, sentiva intanto bisogno di sciogliersi sempre più dai vincoli della tradizione. Era quello il momento in cui si compiva il trionfo della maniera cosiddetta "moderna" sulla quattrocentesca. Ora al C. non sfuggiva certo che la sua Madonna di San Francesco (ora a Dresda), pur dipinta con tanta passione, era più un'eco della tradizione che uno slancio verso l'avvenire. E cercò altre vie, su tutto consentendo al proprio temperamento. Cercò, come si dice oggi, sé stesso. Ma i primi tentativi furono penosi, sì che non è senza ragione pensare che quello fosse per lui un momento di preoccupazione e fors'anche di sgomento. Cade sicuramente fra il 1515 e il'18, ossia fra la Madonna di S. Francesco e la Camera di S. Paolo, in cui il genio rompe ogni vincolo e muove al suo magnifico volo. In quel periodo egli procura di dare alle forme umane maggiore sviluppo, ma qualche volta scende nel greve, per non dire nel goffo; il suo colore s'arrossa alla luce del Dosso; il desiderio di più disinvolta pennellata lo porta dalla tecnica precisa e chiusa degli emiliani (Francia, Ferrari, Costa, ecc.) a un'esecuzione talora rozza, alla quale si debbono certi spiegabili errori della critica. Il Riposo in Egitto che si trova agli Uffizî è opera autentica, e fu ritenuto una copia e variamente assegnato al Barocci, a Francesco Vanni e sino (cosa incredibile) al Tiarini. Ed è singolare il fatto che le pitture del C. che si ritengono smarrite sono quasi tutte di quel periodo, sì che v'ha sospetto che qualche presunta copia possa essere, come il quadro ricordato, originale. Ad ora ad ora si è discusso e si discute in tal senso per qualche parte del trittico dell'Umanità di Cristo già nell'Oratorio della Misericordia di Correggio, per il Giovine che fugge mentre Cristo è catturato, e per la Madonna di Albinea. A tale periodo, oltre ai quadri ora indicati, appartengono forse la cosiddetta Zingarella del Museo di Napoli, la Madonna col putto e S. Giovanni del Prado di Madrid, la Sacra Famiglia con S. Giacomo di Hampton Court, ecc. Pare di scorgere in questi dipinti, tra lampi di schietta luce, tratti di faticosa ricerca; si comprende tuttavia che da tale sforzo verrà la liberazione.
E questa è infatti conquistata quando (1518) il pittore da Correggio passa a Parma e dal quadro di cavalletto alla decorazione monumentale. Ben curiosa sorpresa dovette provare il pittore trentenne, che modesto e timido veniva da un piccolo centro ad uno tanto maggiore, a trovarvi un'arte arretrata, esitante tra varî influssi, già sorpassati nei luoghi d'origine, giunti da Venezia, da Ferrara, da Bologna, da Cremona. Maggiormente lavoravano a Parma il Temperelli, pedissequo sino alla morte (1521) della maniera bellinesca, i vecchi Mazzola, incerti tra i modi veneziani e i lombardi, Alessandro Araldi eclettico di gramo temperamento che raccattava motivi pittorici da quante opere vedeva. Chiamato dalla badessa Giovanna Piacenza, nobile piacentina, per suggerimento di Scipione Montino della Rosa, acuto conoscitore d'arte, il C. decorò una camera del monastero di S. Paolo, che segnò uno dei più violenti trapassi tra il vecchio e il nuovo che mai si vedessero in arte. Vicino alla camera del C. un'altra ve n'ha, frescata appena quattro anni prima dall'Araldi, ma confrontandole pare che un mezzo secolo sia passato tra l'una e l'altra.
Lo stemma dei Piacenza portava tre lune falcate disposte diagonalmente, e pertanto la Luna, ossia Diana, fu scelta come motivo per la decorazione della sala, molto più che Diana era considerata dea delle vergini e della castità. Diana appare in primo piano, nella cappa del camino, agitante il velo celeste, con l'arco a tracolla, seduta sulla sponda d'una biga tirata da due cavalli, di cui non si può vedere che piccola parte. Dalla cornice delle pareti nascono e convergono al sommo della vòlta, dov'è lo stemma della badessa, sedici spicchi i quali in basso formano altrettante lunette. Il C. ha adattata la composizione a tale organismo architettonico immaginando una capanna di verdura, sorretta da canne, e aperta in sedici ovali al di là dei quali, come sopra un ballatoio esterno, si muove una vatia e lieta frotta di fanciulli nudi. Dal centro pendono mazzi di frutta, legati da veli rosei. Finalmente intorno alle lunette, ornate di stupende figurazioni pagane a chiaroscuro, ricorre una ghiera di conchiglie e, sotto, un fregio di simulate tovaglie (che reggono utensili e suppellettili conviviali) alternate a capitelli pensili formati da due teste d'ariete. È stato scritto che i putti degli ovali sono indipendenti dalla figurazione di Diana e che rappresentano lo svolgersi della vita sociale e collettiva, ossia la caccia, primo alimento umano; l'agricoltura figurata da bambini che raccolgono e mangiano frutti; il buon governo figurato da un putto che regge una pietra; l'arte, dal putto che regge la maschera; la società che si corrompe, dai due putti in lotta, ecc.; ma è da pensare che tutti quei bambini non altro rappresentino che la caccia (arte e passione di Diana) quando recano giavellotti o lance o teste di cervo, o frenano cani o si contendono prede o squillano corni.
Compiuta la decorazione della camera di S. Paolo, il C. tornò in patria, dove rimase sino a metà del 1520 circa per lavorare a diversi quadri, che forse sono lo Sposalizio di S. Caterina del Museo di Napoli; la Madonna del latte della Galleria di Budapest; la Madonna della Cesta della Galleria nazionale di Londra; la Madonna adorante il figlioletto degli Uffizî, ecc. Nell'estate del'20 egli è già di nuovo a Parma, occupato a decorare l'abside e la cupola di s. Giovanni Evangelista e a compiervi qualche altro lavoro, come la mirabile lunetta col santo titolare che scrive l'Apocalisse, nonché le due tele col Cristo deposto e il Martirio dei Santi Placido e Flavia, opere queste ultime in cui, insieme con qualche trascuratezza, brillano ardimenti precorritori di moto e di luce.
Nella cupola il pittore dipinse, sedute in cerchio, le figure gigantesche degli Apostoli nudi, tra una folla di putti, e nel centro il Redentore che, in una raggiante gloria di angeletti, sale al cielo contemplato dal vecchio Evangelista di Patmo, in atto di grande stupore e adorazione. Tale cupola segna un'assoluta novità, in quanto è occupata tutta intera da un'unica composizione figurativa, mentre sino allora i pittori, anche i più grandi, avevano diviso le vòlte e le cupole in tanti scompartimenti e in ciascuno, a guisa di quadri, dipinto i loro soggetti. Fu il C. a ritrovare, col suo genio, il nuovo e poderoso mezzo decorativo, che poi l'arte non abbandonò più. La passata trascuranza procurò non lievi danni al grande affresco e specialmente ai pennacchi, dove con altri putti d'incomparabile bellezza il pittore figurò gli Evangelisti e i Dottori della Chiesa. Purtroppo anche di peggio avvenne nella decorazione del catino dell'abside, nel quale egli aveva rappresentato la Madonna incoronata da Gesù, e ai loro lati i santi Mauro, Giovanni Evangelista, Benedetto e Giovanni Battista tra una miriade di putti. Nel 1586 i benedettini ordinarono a Cesare Aretusi di trarne copia e nel 1587 abbatterono l'abside, per ampliare la chiesa, salvando solo alcune poche parti della pittura originale. Il complesso dell'opera però ci è noto in grazia delle molte e grandi copie che ne trassero i Carracci, esposte presentemente nelle Gallerie di Napoli e di Parma, e soprattutto per aver l'Aretusi, con alcuni aiuti, riprodotto l'intera compagine nell'abside nuova.
Prossimo a compiere la decorazione della chiesa di S. Giovanni l'artista condusse diverse opere per committenti che, oramai desti dalla fama del suo valore, accorrevano a lui. A quel tempo in cui il suo stile si può dire formato e la sua personalità esplicata, risalgono, fra gli altri, il Gesù nel Bosco degli ulivi (Londra), il Noli me tangere (Madrid), lo Sposalizio di S. Caterina (Parigi), la Madonna del S. Sebastiano (Dresda) e i suoi due primi dipinti mitologici, ossia l'Antiope (Parigi) e la Scuola d'Amore (Londra). Di questo tempo, secondo alcuni, è pure la tanto discussa Maddalena di Dresda, forse copia d'un originale correggesco. Ma eccoci alla maggiore e più gloriosa opera del maestro, cioè alla decorazione della cupola del duomo di Parma, intrapresa, forse, subito dopo aver frescato la Madonna della Scala sopra una porta della città e l'Annunciazione nella chiesa dell'Annunziata; due lavori ora nella Galleria, malandato il primo, quasi scomparso il secondo.
Il contratto per la pittura del duomo fu steso con grande solennità e concorso di testimoni il 3 novembre 1522, quasi si prevedesse il miracolo pittorico che doveva uscirne. Il maestro dichiarò dignitosamente: "Non si potrà per l'onore del luogo, e nostro fare per meno di ducati 1000 di oro". Gli studî preparatorî e il desiderio di liberarsi da molti impegni prima assunti ritardarono alquanto l'inizio del grandioso affresco. Il primo pagamento è di quattro anni dopo; l'ultimo del novembre 1930. Nel centro della cupola figura la vergine, assunta in cielo, seguita da un vertiginoso volo d'angeli che cantano e che suonano, corteggiata da schiere di patriarchi e di santi. Sotto, per tutto il cerchio, ricorre una balaustrata o ballatoio, di contro al quale sorgono gli Apostoli guardando in alto estasiati, e sul quale bellissimi adolescenti stanno in atto di ravvivare e cospargere d'incensi le fiamme che ardono su altissimi candelabri. Nei pennacchi, sempre tra un corteo d'angeli e tra le nubi, siedono i quattro protettori di Parma: S. Ilario vescovo, S. Giovanni Battista, S. Bernardo e S. Tommaso.
Mai, in nessun tempo e in nessun paese, la pittura aveva raggiunto altrettali moto e varietà e coraggio d'atteggiamenti. Nessuna meraviglia quindi che dapprima la prodigiosa opera non fosse compresa ed ammirata e che anzi destasse critiche e motti arguti. Certo è che, ancora non del tutto compiuta sulla fine del 1530, il C. se ne tornò in patria, dove attese a lavorare per il duca di Mantova in disegni e quadri di argomento allegorico o mitologico, come il Vizio e la Virtù (Parigi), la Danae (Roma), la Io e il Ganimede (Vienna), la Leda (Berlino). Gli ultimi grandi e famosi quadri sacri, come la Madonna del San Girolamo e la Madonna della Scodella (Parma), la Notte e la Madonna del S. Giorgio (Dresda), li dipinse certo fra il '27 e il '30, forse nei periodi invernali quando il grande freddo non gli consentiva di lavorare alla cupola. Degli elementi, di cui si giovò dapprima, abbiamo già detto. Certo è però che ben presto egli, per il suo magnifico temperamento, superò tradizioni o influenze scolastiche (ferraresi e mantegnesche) e affermò vigorosamente, come pochi altri, la sua personalità, nelle forme e nel colore, nella composizione e nel movimento. Nessun dubbio che nei soggetti fu meno profondo di Michelangiolo e di Raffaello, ma ogni più umile argomento assunse un valore, per così dire, lirico. Nessuna difficoltà l'arrestò, sì che rese la visione perfetta, nello spazio, di ogni scorcio, d'ogni atteggiamento sino all'eccesso e al tumulto. Rispetto al sentimento, la nota predominante fu la lietezza, il che non gli vietò di rappresentare con efficacia, quantunque raramente, la mestizia, il dolore, l'austerità. Dai bambini, sua particolare passione, trasse motivi incomparabili di grazia e di bellezza. Quanto alla tecnica, egli rappresenta l'ultimo e più alto sviluppo della pittura italiana sia per la perfezione del chiaroscuro sia per la diffusione della luce e la vivacità del colorito. Grazie a tali virtù, e specialmente alla novità delle decorazioni a composizione libera (ossia senza vincoli architettonici), la sua influenza fu somma, e continua ancora. Illanguidita l'imitazione raffaellesca e michelangiolesca, i pittori si volsero al C. Parma, più di Roma, divenne dallo scorcio del sec. XVI a tutto il XVIII la loro meta. L'arte francese di quel tempo fu devota a lui non meno dell'italiana, e anche dopo, durante il periodo neoclassico. (V. tavv. LXXXVII-XCVI e tav. a colori).
Bibl.: La bibliografia del C. è vastissima. Fu prima compilata dal Pungileoni nel 1821, poi nel 1894 nel volumetto Il C. nei libri (Parma). Le principali monografie moderne sono: C. Ricci, A. A. da C., Londra e Berlino 1896, Roma 1930; S. Brinton, C., Londra 1900; H. Hager, Correggioapokryphen, Berlino 1915; id., Die Camera di S. Paolo in Parma, in Festschrift Wölfflin, Monaco 1924, pp. 155-68; G. Gronau, in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, VII, Lipsia 1912; A. Venturi, Storia dell'arte ital., IX, ii, Milano 1926, pp. 455-621; id., Il C., Roma 1927. Vedi inoltre: R. Fry, A C. Problem, in The Burl. Mag., LII (1928), pp. 3-9; id., Another unpublished C., ibid., LII (1928), pp. 109-110; A. Venturi, Un disegno inedito del C., in L'Arte, XXXI (1928), pp. 145-146; id., Il più antico ritratto del C., ibid., XXXI (1928), pp. 247-253; T. Borenius, An Early Work by C., in The Burl. Mag., LIII (1928), pp. 243-44; A.L. Mayer, Ein Bildnis C.s., in Pantheon, III (1929), p. 221; A. Stix, Ein Entwurf C.s für das Deckenfresko in S. Giovanni Evangelista in Parma, in Belvedere, 1930, pp. 14-16; C. Ricci, Una Madonna del C. nella Galleria Borghese, in Boll. d'arte, n. s., IX (1929-30), pp. 193-98. Gli affreschi del C. furono riprodotti in acquerello e incisi in rame da Paolo Toschi e dai suoi scolari. Quando il Toschi nel 1854 morì, gli scolari continuarono il lavoro sino al 1893, in cui cessò la scuola. Non mancavano alla fine più che due tavole.