CORBINELLI, Iacopo
Nacque a Firenze, il 12 dic. 1535, da Raffaello (di Pandolfò di Tommaso, forse quel "conte Raffaello Corbinelli" che spedisce, il 3 genn. 1537, da Pisa una lettera al duca d'Urbino), padre quanto meno pure di Pandolfa e Bernardo, in una famiglia di ascendenza nobiliare, già illustrata alla fine del '200 dal giurista Albizzo, un componente della magistratura dei Quattordici e soprattutto attiva nel corso del '400 sia nel commercio anche marittimo (un Bernardo Corbinelli, ad esempio, raggiunge nel 1460 Costantinopoli con una galeazza) sia nei fervori dell'Umanesimo.
Spiccano, infatti, quell'Angelo di Tommaso caro a Coluccio Salutati e suo fratello Antonio appassionato collezionista di codici (cfr. R. Blum, La bibl. della Badia fiorentina... e i codici di Antonio Corbittelli, Città del Vaticano 1951), che non va, comunque, confuso coll'omonimo di Bartolomeo possessore, attorno al 1440, d'un codice del Decamewn (cfr. V. Branca, Un quarto elenco di codici e C. Bec, Sur la lecture de Boccacce...., in Studi sul Boccaccio, IX [1975-76], rispettivamente alle pp. 3e 249, 258). Riscontrabile altresi, nella Firenze dell'ultimo '400 e del primo '500, la presenza del nonno paterno del C. Pandolfo (cfr. F. Guicciardini, Storie fiorentine, a c. di R. Palmarocchi, Bari 1931, p. 139, e Scritti autobiogr. ..., a cura dello stesso, ibid. 1936, pp. 74-81, passim nonché Studies on Machiavelli, a c. di M. P. Gilmore, Firenze 1972, pp. 38, 307);e v'è un Nicolò Corbinelli marito di Maddalena Guicciardini. Ulteriori Corbinelli sono, infine, ravvisabili man mano ci si inoltra nel sec. XVI: Filippo che, nel maggio del 1541, entra nell'Accademia degli Umidi e nel 1546 aspira al possesso della chiesa di S. Lorenzo nella diocesi fiesolana; Giovanbattista di Francesco, canonico della metropolitana fiorentina nel 1551-1582, protonotario apostolico e autore di rime spirituali; Scipione, annoverato nel 1565 tra gli "aventurieri" italiani in forza a Malta, e attorno al 1569 "capitano" alle dipendenze di Sforza Sforza conte di S. Fiora in Francia contro gli ugonotti (cfr. M. Monterisi, L'Ordine a Malta..., Milano 1940, p. 91 n. 8e Nunziature di Savoia, I, a cura di F. Fonzi, Roma 1960, pp. 228 ss.); Lorenzo, fondatore, nel 1569, degli Alterati, tra i quali, contraddistinto come "l'Arido", ama dissertare su Dante; Marabotino, un banchiere residente a Nantes, operante attorno alla metà dei '500 (cfr. J. Mathorez, Les italiens à Nontes..., Bordeaux s. d., p. 6 e H. Lapeyre, Une famille de marchands: les Ruiz, Paris 1955, pp. 60, 122).
Quanto al C., frequenta lo Studio pisano laureandovisi brillantemente in utroque nel 1558. Ma più che le lezioni di diritto l'hanno attratto quelle del "lettor di humanità latina e greca" Bargeo, autentico "lume" dei suoi "primi studi", nel corso dei quali, mentre il verseggiare resta episodio marginale e intermittente, affiora con sempre maggior prepotenza la sua propensione per questioni filologiche, per cui, ad esempio, già a Pisa comincia ad occuparsi di Demetrio Falereo. Una vocazione che si precisa ulteriormente al rientro a Firenze, quando, entro il luglio del 1559., postilla e avanza restauri grafici in un esemplare manoscritto della Commedia dantesca di Pier Vettori. E, mentre il fratello Bernardo, tentato da vagheggiamenti repubblicani e coinvolto nella congiura del 1559 di Pandolfo Pucci, viene bandito come ribelle nel 1560, il C. preferisce trasferirsi, al più tardi alla fine del 1561, a Roma. Di qui, non senza accennare alle "avversità" che l'angustiano, chiede, il 19 febbr. 1562, aiuto a Benedetto Varchi.
Prontamente questi, il 24, scrive a mons. Lorenzo Lenzi, il vescovo di Fermo prossimo ad insediarsi nella "vicelegazione d'Avignone", raccomandandogli calorosamente il C. quale ottimo "auditore e segretario". È nobile - insiste -, "pienamente padrone del greco e del latino, elegante nello scrivere, esperto in "leggi civili e canoniche", assennato, intelligente, "dotto", "eloquente". E come tale lo raccomanda pure ad Annibal Caro che riceve il C. con "amorevoli carezze". L'eventualità di decoroso impiego, comunque, sfuma, anche perché, cadendo il C. in disgrazia, Varchi gli diventa ostentamente ostile.
Annoverato, infatti, tra i sospetti di connivenza con la recente cospirazione antimedicea e comunque considerato, in quanto fratello di Bernardo, potenzialmente avverso a Cosimo, il C. viene citato il 21 marzo, il 13 maggio e il 16 giugno. Ma, per quanto i termini di comparizione siano prorogati sino a settembre, il C. non si presenta agli Otto di guardia e di balia. Un'"inobservatione" che lo fa incorrere "in pena et bando del capo" e della confisca dei "beni", una "inobedienza" che automaticamente lo colloca nell'irrequieta e perseguitata turba degli esuli antimedicei. S'aggiunge l'aggravante d'aver ironizzato con mordace sarcasmo sulla piaggeria di Leonardo Salviati, sollecitato a piangere per iscritto in artefatte orazioni la scomparsa di don Garzia de' Medici.
"Corbo atro" reo di gracchiare "stridi e spessi crai" contro "candido cigno canoro" si scatena contro di lui una raccolta di versi, subito recapitata dall'offeso Salviati al Caro, composta da tre sonetti del Lasca (per questi il C. è gufo: troppo onore dargli del corvo), uno di Gherardo Spini, uno di ignoto e, soprattutto, da venticinque sonetti e due epigrammi latini del Varchi, il più virulento contro il Corbinelli. Pentito d'avergli dato "esca" e d'averlo aiutato a sortire dall'"infamia", si accanisce - e l'attacco in tal senso suona vile e delatorio - contro il "corbo", che, "malvagio" e "inetto", è cacciato "dal patrio nido per sua grave colpa".Col marchio dell'esule senza fissa dimora il C. si avvia ad una "vita randagia" che lo porta, tra l'altro, a Padova ove conosce Gian Vincenzo Pinelli, ne ammira la ricca biblioteca, ne apprezza l'ospitalità prodiga di provvidenziali "desinari". Nasce tra i due un'intesa duratura che s'alimenterà, anche nella lontananza, con un'assidua corrispondenza, attestata da quasi 380 lettere inviate dal C. all'amico tra il 1566 e il 1587, le quali - oltre a lumeggiare uno dei più intensi sodalizi intellettuali del secondo '500 - registrano le tappe della accidentata biografia del Corbinelli.
In Francia, molto probabilmente, alla fine del 1565, il C., a partire dall'inizio del 1566, è senz'altro a Lione ove si stampa, non senza che il C. s'illuda susciti indignazione clamorosa, il Processo al sicario che ha tentato d'ammazzare suo fratello Bernardo. Ma se quello è impiccato, il 31 gennaio, a Moulins, impuniti restano i mandanti, specie Aurelio Fregoso, il confidente di Cosimo cui Donato Giannotti - solidale col C. - aveva augurato di patire "quello che ha voluto fare" a Bernardo.
La vicenda turba profondamente il C., che - angosciato dalla precarietà della sua condizione - non sa se fermarsi o proseguire "randagio". Da un lato a Lione c'è una fiorente colonia fiorentina, ove non mancano tracce di Corbinelli e sono con lui particolarmente ospitali i Guadagni. Dall'altro la città è lacerata da contrasti religiosi, non remissivi vi sono i numerosi ugonotti. Logorato dagli "accidenti" e dagli "huomini", tormentato dall'insicurezza, depresso dell'evidente impossibilità di rivedere Firenze, "il viver" gli viene "a noia". È scoraggiato, incupito. Per fortuna riesce a rinfrancarsi stimolato dall'eccezionale compresenza, nella città, di Ludovico Castelvetro e Gian Michele Bruto., di Pierantonio Bandini e dei suoi figli, di Lucantonio Ridolfi e Bernardo Davanzati. Con questi si infervora parlando di libri, spalleggia Bruto che sostiene la paternità machiavelliana dei Ritratti delle cose di Francia di contro a Castelvetro che la nega. Ed è, poi, una vera gioia per lui, ghiottissimo di rarità e famelico di manoscritti, approfittare della dispersione della biblioteca del maresciallo Piero Strozzi (il focoso uomo d'armi fieramente antimediceo da poco scomparso) per fare anch'egli debita "preda". Arraffa, così, un "libro di disegni", due "volumi" d'una preziosa Bibbia poliglotta, un manoscritto greco, "un morione antichissimo greco con lettere greche", con in insculti rilievi".Una sosta, dunque, questa lionese ricca d'incontri sollecitanti, con qualche momefito lieto, epperò non duratura che, forse dopo aver toccato Padova, nel maggio del 1567 il C. è a Roma. A, con tutta probabilità, allora che collaziona - confrontandolo con quattro codici vaticani, uno veronese, uno napoletano - un "exemplar" dell'Opera (Romae 1563) di s. Cipriano, poi finito, arricchito appunto delle sue annotazioni a margine, nella doviziosa biblioteca dell'arcivescovo di Reims Charles-Maurice Le Tellier (cfr. Bibl. Telleriana ..., Parisii 1693, p. 20). Quindi, - passando per Padova (donde Giannotti scrive, l'8 agosto a Pier Vettori d'aver offerto "un banchetto" tutt'altro che sontuoso a dei dotti amici tra i quali Pinelli e il C.), rientra in Francia sostando, tra la fine dell'anno e il marzo circa del 1568, a Parigi. Qui si guadagna la stima d'Henri de Mesmes, ma non riesce a collocarsi a corte. Riparte, perciò, alla volta dell'Italia, soggiorna, tra la fine di maggio e il 10 giugno, a Venezia per poi - toccando via via Padova, Genova di cui ammira la bellezza, e Torino dove ascolta una "lettione greca" - varcare le Alpi e giungere, il 27 giugno, a Lione. Qui ha impegnate conversazioni coll'arcivescovo Antoine d'Alben, dottissimo grecista e soprattutto attende alla sua prima fatica d'editore. Esce, infatti, L'ethica di Aristotele ridotta in compendio da ser Brunetto Latini et altre traduttioni et scritti di quei tempi, con alcuni dotti avvertimenti intorno alla lingua (Lione, per Giovanni de Tornes, 1568), un collage piuttosto estemporaneo e casuale di testi, sintomatico, comunque, del gusto del C. che propone brani estranei alla selezione drastica operata dai dotti di Firenze, eredi del restrittivo magistero bembiano e, insieme, politicamente asserviti al regime mediceo.
S'avverte nel C.'una sorta di dilatata curiosità linguistica per il Medioevo che oltrepassa il centellinamento estetizzante da quelli circoscritto al '300; né ne condivide l'ossessivo baricentro petrarchesco. Di fatto il rimaneggiamento aristotelico tratto dal Tesoro, è seguito, senza indicazione di titolo e d'autore e senza un adeguato stacco tipografico, da una raccolta di sentenze, da un pezzo del "segreto de' segreti d'Aristotele ad Alessandro", da tre brevissimi brani, dalla traduzione di tre orazioni ciceroniane. "Tutte... cose" - si giustifica il C. - riprodotte così com'"erano in un fragmento di libro antichissimo, anch'esso fragmentato", scovato a Mantova da Giovanfrancesco Pasterla. Il C. l'ha trascritto rispettando "l'ortografia eccezion fatta per la punteggiatura" e limitando la correzione al minimo, laddove i "segni di croce" indicano i "luoghi" affetti da "irreparabile corrutione" o, per sua "inscientia", illeggibili. Ben presto rimproverata da Leonardo Salviati per l'omissione non solo di "parole" ma anche di "righe e ragionamenti" e addirittura rampognata, nel '700. da Domenico Maria Manni - che imputa al C. sia il testo "guasto" e lacunoso sia "l'ortografia" né abbastanza "antica" né decisamente "rimodernata" -, l'edizione sarà peraltro oggetto d'un'accurata descrizione settecentesca da parte del somasco Iacopo Maria Paitoni che le dedica un puntuale Ragguaglio... (s. n. t.); e l'esemplare marciano (Rari 390) è - quanto all'Etica - "da capo a piè collazionato, corretto e supplito" dalla mano d'Apostolo Zeno grazie al confronto con un "codice cartaceo", databile 1410, inviatogli da Bologna da Orazio Maria Muratori nel 1733.
Rimasto a Lione sino al 26 ottobre, il C., svanito l'appuntamento a Moulins col fratello Bernardo perché trattenuto questi dall'assedio ad un castello ugonotto, ricompare a Parigi fiducioso nella benevolenza della regina madre.
Pel momento è ivi con lui ospite generosa Lucrezia Cavalcanti, vedova d'Albizzo del Bene. Nella sua dimora, "di tutte le" sue "solitudini consolatione", egli è abituale commensale, lieto d'intrattenersi con i suoi due figli più piccoli, Alberto e Alessandro, talmente padroni del latino che persino un Pier Vettori vorrebbe parlarlo "come... questi putti", e rallegrato dalla compagnia del piú grande Pietro, il "giovane eruditissimo" di cui annuncia l'arrivo a Padova per ragioni di studio a Pinelli con lettera del 7 ott. 1570. Grazie a Lucrezia, il C. conosce il nunzio pontificio Fabio Mirto Frangipani e nella sua casa ha modo di contattare "molti grand'huomini", speranzoso ciò gli serva per l'agognata assunzione a corte, dove, pel momento, deve accontentarsi del libero accesso alla biblioteca di Caterina. "Se volete - scrive semiscrio a Pinelli - rubi qualcosa da parte vostra, avvisate". Certo il nunzio lo stima, gli fa "molte... carezze". Se si pensa che il rappresentante toscano Petrucci lamenterà i "mali officii" del Frangipani "contro il granduca", il suo fare "quanto può per offenderlo", è supponibile il C. gli piaccia anche perché vittima di quello.
Intanto il C. attua una seconda realizzazione editoriale che si sintonizza coll'ondata italianizzante promossa da Caterina e amplificata dal folto e variopinto nucleo toscano che l'attornia. Si stampa. coi tipi dello stampatore regio Morel, per sua cura, a Parigi nel 1569 IlCorbaccio di Boccaccio.
Il C. rilancia - tant'è che rapido riflesso ne è la sollecita versione di François de Belleforest pubblicata, sempre a Parigi, nel 1571 e, di nuovo, nel 1573 col titolo Le laberinthe d'amour... - uno scritto non ignoto alle élites, del primo '500 e già utilizzato, nell'ambito della "querelle des femmes", come uno dei più incisivi tra quanti "blasment les femmes", cercando, però, di svelenirne la carica misogina ed antiuxoria. Lo circoscrive ad "invettiva contro una malvagia femmina", colla quale nulla hanno a che vedere le leggiadre e nobili "donne di Francia", meritevoli, invece, di tutti gli "honori". Per il C. il testo ("infame" per Girolamo Muzio che perciò, gli rimprovererà l'edizione) offre "spatiosi pascoli d'eloquenza", "artificio" di "parole eccellenti". La lezione adottata poggia sulla trascrizione, del 1384, "di un Francesco d'Amaretto Mannelli", di gran lunga, a suo avviso, la più attendibile, sulla quale comunque il C. esercita la sua acribia congetturale di cui rende noto annotando i pochi "emendi" e "preteimessi", fornendo il breve elenco' dei "racconciasi" e "variasi". Eccessivo, a detta di Vincenzo Borghini, il rispetto del C. pel codice Mannelli, laddove, al contrario, sarebbe occorso una minor fedeltà alla grafia, e, insieme, un più deciso approccio interpretativo. Resta, tuttavia, merito del C. la riproposta d'un versante di Boccaccio in certo qual modo rapportabile a Dante (cfr. M. Marti, Introduzione, a Il Corbaccio, Galatina 1982) e, per certi versi, un po' ostico ai letterati fiorentini.
Purtroppo il C., ben consapevole dei limiti delle sue "annotationi" buttate giu in fretta fidando nella "memoria" e senza scrupolosi riscontri comparativi, non può dedicarsi come e quanto vorrebbe agli studi.
Questi non sono che intervalli strappati alle "continue visite", fugaci pause estorte all'avvilente "brigare" insito nell'affannosa ricerca d'una sistemazione che lo liberi, una volta per tutte, dall'umiliazione dell'andar "mendicando", del trovarsi senza "un quattrino" in tasca, dell'escogitare qualche "negozietto" per racimolare un pò di soldi. Beati quelli che, come Pinelli, "all'ombra de' loro studii... e dentro alle loro patrie sedendo securi e senza più avanti curare in quiete e pienamente si vivono". A lui ciò non è concesso. Torturante altresì l'incubo della persecuzione medicea; atroce l'assassinio, da quella commissionato, del fratello Bernardo il cui corpo viene ritrovato "senza testa" presso Lione.Magra consolazione la concessione d'un salvacondotto regio per una rapida puntata, nel luglio-settembre 1569, in Inghilterra donde torna sposato con Isabella Pommier (un'inglese stando alla testimonianza di de Thou; e allora il cognome è stato irancesizzato), che gli darà, come si evince dalle sue lettere del 1581, "cinque figlioli" e, più precisamente, "due femine et tre maschi". Di nuovo a Parigi, per quanto alleviato dalla "carità" d'un lontano parente, Ludovico Corbinelli, che gli cede un "credito" di 1.800 scudi, il C. ha sempre "per compagne diverse anxietà d'animo", non può "istudiar" in un mondo pieno "di pazzi et stultizie, di presuntione, di ignorantia". Eppure è in questo che deve farsi largo per ottenere una "cosa... più solida" della precarietà coatta della sua esistenza, per afferrare un impiego dignitoso e garantito. Un embrione di questo pare la veste di precettore di Frangoise-Hercule d'Alengon, anche se, di fatto, la sua vita - a parte momentanee soste parigine, quali quella, del dicembre 1570 e gennaio 1571, durante la quale incontra Torquato Tasso - si risolve in troppo frequenti spostamenti a cavallo malamente alleviati da disagevoli pernottamenti in alloggi di fortuna, "in qualche cameraccia di villani", in qualche sgangherato "casino" senza riscaldamento, mentre il freddo e l'umido infieriscono. "Arrabbiato come un cane" il C. deve "trottar qua e là", malgrado i malanni fisici. Spettatore della strage di S. Bartolomeo che descrive a Pinelli e Piero del Bene, puntellando la lettera di reminiscenze classiche e citazioni dotte - e si ha l'impressione le sue sterminate letture fungano anche da barriera contro gli orrori della storia; quanto meno questi si attutiscono una volta dirottati verso una parentesi erudita, verso uno sbocco citatorio -, il C. nel 1573 non segue il duca a La Rochelle. Resta a Parigi, ove Caterina gli fa volgere in italiano l'Ornatissimi cuiusdam viri de rebus gallicis ad Stanislaum Elvidium epistola (Lutetiae 1573), la giustificazione, cioè, del massacro da lei ordinato stesa da Guy du Faur signore di Pibrac. Passa quindi alle dipendenze del duca d'Anjou, nonché "re di Pollonia", il quale - informa il 10 agosto il nunzio Antonio Maria Salviati - "comincia ad attendere alla lingua latina et italiana et si essercita con..." il Corbinelli. "Nuovi esili a me sempre" - lamenta, però, questi - ché deve partire ancora per raggiungere, passando per Augusta (donde, il 22 febbr. 1574, scrive amareggiato a Pinelli definendosi "due volte esule"), Cracovia per ripartirne ben presto, al seguito d'Enrico, nel fastoso viaggio di rientro per l'incoronazione in Francia. Gli è, così, possibile vendere dei libri a Venezia, riabbracciare Pinelli a Padova. Trattenuto per qualche tempo a Lione e Avignone, reso omaggio, a Valence, a Cujas e ammiratone il "bellissimo studio" straripante di "molti belli libri antichi ornati", il C. è ancora a Lione quando, il 5 febbr. 1575, informa Pinelli dell'assicurazione datagli da Caterina - di cui si proclamerà "picciolissimo et semplicissimo servitore", ché a lei va ricondotto il "cominciamento". d'ogni suo "bene" dell'inclusione nel "ruolo" dei "servitori" d'Enrico III col "titolo di suo lettore". Finalmente la sua funzione viene stabilizzata ed inquadrata, anche se ciò non significherà mai - dato lo stato disastroso delle finanze, per le "estreme miserie di danari" delle casse regie - regolare corresponsione della retribuzione e nemmeno risarcimento completo degli arretrati via via accumulati. Il C. resta ancora sovente "senza un soldo"; per sua fortuna è amico del consigliere e tesoriere Pierre Forget grazie al quale spera, nel 1578, d'ottenere dalla regina madre un donativo di mille scudi. Sicuro, invece, il vantaggio per i suoi suggerimenti editoriali ché rafforzati dall'avallo della Corona. Non a caso i più consigli et avvertimenti di... Guicciardini... mmaterza di republica et di privata, stampati a Parigi nel 1576 da Morel, escono avvalorati dalla dedica alla regina madre e dal testo della lettera con la quale il C. chiede se, appunto, il "piccol libro" è degno dell'illustre dedicatoria a Pomponne de Bellièvre, lo stesso cui, poi, il C. dedicherà la ristampa parigina, del 1578, del De principatu... di Mario Salomonio, da lui curata utilizzando la copia dell'ormai introvabile prima edizione romana del 1544 fattagli pervenire, emendata delle più vistose inesattezze, dal giurista Antonio Vacca. Quanto a Guicciardini il C. pubblica centocinquantotto massime, sorta di arbitraria antologia dei Ricordi desunta da una copia di questi trasmessagli da Piero del Bene che, a sua volta, l'aveva avuta da Flavio Orsini cui era pervenuta dal nipote dell'autore Piero Guicciardini.
Pur severamente giudicata da quanti si impegneranno nella ricostituzione dell'integrità del testo quale latrice di gravi confusioni e spropositi, essa resta la prima a proporre con forza il Guicciardini distillatore di "consigli" e "avvedimenti statuali", di "pareri" sulle "cose publiche" e "private". È con la selezione del C. che la fortuna di Guicciardini, sino allora limitata allo storico, s'impenna e s'arricchisce ulteriormente. Subito tradotti da A. de Laval quali, appunto, Plusieurs... advis... (Paris 1576), i"ricordi", sia pure in misura ancor più ridotta, ché il primo ne stampa centoquarantacinque, il secondo centootto, vedono la luce a Venezia nel 1582 e, di nuovo, nel 1583, a cura del domenicano fra Sisto, e ad Anversa, a cura del nipote Ludovico Guicciardini, nel 1585. Accostata dal C., non senza furbizia, ad un testo religioso - trattasi, fa presente a Caterina, d'"avvedimenti" stesi nella stessa "guisa" di "quelli" di s. Nilo l'asceta sull'"oratione, il cui trattato penso che V. M. harà caro un giorno di leggere" (Iltrattato della preghiera tramandato m greco sotto il nome di s. Nilo è, attualmente, attribuito ad Evagrio il Pontico; cfr. I. Hausherr, Le traité... d'Evagre..., Paris 1960);e così il C., vellicando l'unzione della regina, occulta nel contempo, il segno laico della frammentata saviezza guicciardiniana -, sottoposta, laddove suona più aspra e risentita con la Chiesa e i suoi uomini, ad un pesante e sin sconciante intervento censorio che sopprime e falsifica, la solitaria meditazione di Guicciardini viene da lui incanalata nel solco d'una lettura che ne sprema essenze didattiche, viene finalizzata ad una fruizione pratica. Nel contesto arroventato e fanatizzato della guerra religiosa la pubblicazione può così risultare tonificante invito ai vertici ad un maggior realismo, può decongestionare spurie commistioni di fede e interesse, può porre le premesse per una visione quanto meno disincantata. A ciò contribuiscono anche le "annotationi" del C., frammischianti al nutrito catalogo d'autori richiamati (da Cesare a Cardano, da Tacito a Sofocle, da Pindaro a Lucrezio, da Plutarco a Dante) spunti offertigli da Machiavelli, sino ad un certo punto celato quale l'"autore dei Discorsi". Donde il sapore d'operazione politica della stampa, filologicamente traballante oltre che più che dimezzata, voluta dal C., uomo, stando al rapido schizzo attribuibile a Jacques de Thou, di ìncerta collocazione religiosa, o, meglio, dalla "religion politique, à la fiorentine".
Propagandista della letteratura italiana in Francia e, insieme, impegnato nella riesumazione anche. di testi minori e non canonici - per cui, ad esempio, stampa, a Parigi nel 1578, con "alcune" sue "annotationi et espositioni", La fisica... di Paolo del Rosso, compendio in terza rima della dottrina arisotelica -, il C. è soprattutto l'artefice dell'editio princeps deltrattato dantesco sulla lingua volgare.
Da un pezzo privo dì dubbi sulla paternità - "quanto a me l'ho senpre tenuto di Dante" aveva scritto a Pinelli il 6 febbr. 1575 -, inequivocabilmente desumibile dalla Vita dell'Alighieri scritta' da Boccaccio, si basa sul membranaceo (tuttora della Bibl. mun, di Grenoble, riprodotto fototipicamente, Veruse 1892) di probabile fattura patavina a lui donato da Piero del Bene, ricorrendo, per i passi più palesemente corrotti, all'ausilio della versione trissiniana del 1529. Paladino, dunque, il C. sia della sua autenticità che dei suoi pregi intrinseci. Donde il tono squillante e baldanzoso del titolo: Dantis Aligerii praecellentis poetae de vulgari eloquentia libri duo nunc primum ad vetusti et unici scripti codicis exemplar editi ex libris Corbinelli eiusdemque adnotationibus illustrati ad Henricum... regem (Parisiis, I. Corbon, 1577; per la descrizione del volumetto cfr. Della lingua volgare, a cura di A. Torri, Livorno 1850, pp. XXXIX-XL; sulla edizione cfr. Il... De vulgari eloquentia, a cura di P. Rajna, Firenze 1896, pp. LXIXLXXV e a cura di A. Marigo, ibid. 1957, pp. XLVI-LII e a cura di P. V. Mengaldo, Padova 1968, pp. XX, CV-CVII). Annotatore piuttosto modesto - le "annotationi" sono stese "saltuatim et tumultuarie" limitatamente al primo libro, mentre successive chiose manoscritte del C. all'esemplare a stampa ne palesano l'intenzione d'estendere il commento al secondo -, a volte prolisso e divagante, il C., in fatto di lezione, è "buon critico" (Foscolo), cauto e, insieme, acutamente intuitivo. L'ha sorretto nella fatica - cui fanno da battage pubblicitario versi di Jean Dorat e Jean-Antoine de Balf - la polemica volontà di rendere il debito "ossequio" a Dante in forma più efficace di quanto non si faccia a Firenze. Sottesa, nella riverenza, un'aura d'affinità elettiva: entrambi sono esuli. Una valenza rilevata da Balf, da scagliare come rimprovero ai filologi accucciati nella bambagia della servitù medicea: il C. "exilé" riporta dal fondo dell'oblio "ce livre" composto nell'amarezza dell'esilio. Dante, che il C. antepone a Petrarca, è alimento costante di tutta la sua vita, esempio, monito, incitamento.
Egli ne ha, quanto mai, allora bisogno. Da tempo paventa "qualche burrasca", ché il rappresentante fiorentino Sinolfò Saracini e il suo segretario Curzio da Picchiena, orchestratori d'una vera e propria rete di spie e d'assassini, puntano all'eliminazione dei proscritti toscani. Pure il C., il quale sperava "d'esser già passato in oblivione", è confitto "nella memoria" nemica.
Questa non dà tregua: nel novembre dà 1577 Pier Capponi viene aggredito in Inghilterra; il 5 dicembre Troilo Orsini è assassinato per strada a Parigi. Sono amici del C. - che, fra l'altro, scopre "qualche gentilhuomo" da lui frequentato "spiissima" del granduca - Antonio Capponi e Francesco Alemanni che Saracini è deciso far trucidare sì che i "due scelerati" paghino l'"enorme peccato" della loro opposizione politica. Né i perseguitati stanno inerti; a loro volta s'accordano per reagire, quanto meno per sbarazzarsi del Picchiena. Avvisato da Annibale Chiaramonti, Saracini a sua volta informa, il 9 febbr. 1578., che "pratiche" in tal senso "si trattavano in casa" del C. "con la consulta del capitano Bernardo Girolami" (figlio, questi, di Raffaele, ultimo gonfaloniere della Repubblica, e autore della fiera epigrafe posta sulla tomba del proscritto Luca Mannelli che Saracini fa nascostamente cancellare), nonché d'"un tale capitano Sernigi", dell'indomito Antonio Capponi e di Roberto Venturi. Impossibilitato a "castigare" direttamente la "sceleragine" di costoro, a Saracini non resta che protestare contro il "ricetto" fornito agli oppositori del suo padrone, contro l'"ardire con cui", malignamente e calunniosamente ne sparlano, contro le "conventicole" - allusione alle riunioni dal C. - intese a "perseguitare e straziare gli altri sudditi" capitati "in queste bande". E, per quanto Enrico e Caterina non gli diano soddisfazione, lo stillicidio omicida, che a lui risale, degli esuli prosegue: il 19 luglio viene ammazzato Francesco Alemanni; nel novembre muore, in seguito ad una proditoria archibugiata, Bernardo Girolami. Il C. sente prossima la sua scadenza: "il nostro padron di Firenze ci vuol tutti morti", commenta sconvolto. Per fortuna il re e sua madre, reagiscono: il 24 dicembre il segretario Picchiena, orditore sfacciato d'agguati, deve lasciare la Francia "con sentenza di bando perpetuo". E, il 18 nov. 1581, finalmente Caterina dirà all'inviato fiorentino Andrea Albertani che suo figlio Enrico non tollererà più il granduca faccia "ammazzare persona in questo regno".
Il peggio per il C. è passato, tanto più ch'è riuscito a sgusciare indenne dall'intercettazione della sua corrispondenza con Francesco Pucci -, allora in Inghilterra - da parte del nunzio Anselmo Dandino. Questi, comunque, il 25 febbr. 1580, s'affretta a mettere il C. in cattiva luce a Roma.
"Per sorte, scrive, grazie ad un amico", s'è impadronito del "pacchetto" inviato dal Pucci al C., "huomo che fa professione di lettere ... con qualche provisione del re", con allegate "copie" d'un "libretto" del primo (il fatto Dandino faccia nel contempo distruggere tutte le copie rastrellate a Parigi dà l'impressione questo sia a stampa; d'altra parte, il De Christi servatoris efficacitate, che uscirà nel 1592, costituisce "l'unico" testo "divulgato per le stampe" di Pucci né la dizione "libretto" permette d'identificare quello bloccato dal nunzio col foglio a stampa del 1578 divulgante il succo della posizione pucciana; che sia il libellus al cui invio accenna Fausto Sozzini in una sua lett. del 3 dic. 1580, cfr., comunque, L. Firpo, F. Pucci a Basilea, in Medioevo e Rinascimento, Studi in on. di B. Nardi, Firenze 1955, pp. 281 s., e Gli scritti di F. Pucci, in Memorie dell'Accademia delle scienze di Torino, classe di scienze morali, stor. e filosof., CXV [1957], pp. 196, 249, 249-253), alla cui diffusione avrebbe dovuto provvedere anche il Corbinelli. Questo, precisa Dandino, "è mio conoscente et molto amico di mons. di Nazaret", cioè di Fabio Mirto Frangipani, "e di mons. Gemmario, né io l'ho conosciuto già mai fin qui, come credo che neanche essi, per huomo che non sia catolico. Ma veggo ben hora che ha maggior intelligenza con colui che non converria".
Ormai sospetto, il C. è controllato dal nunzio che, il 23 maggio, invia a Roma un suo blocco di lettere a mons. Gemmario e il 5 giugno, attira l'attenzione sul suo incontro col vescovo di Parigi Pierre Gondi, allora in procinto di recarsi a Roma.
Certo il C. può contare, tra tante difficoltà, e insidie, su Caterina. Ma ne è pesante pedaggio una vita logorante cui vorrebbe sottrarsi.
"Io non mi sono ancora ritirato - si sfoga anzi più cortigiano che mai... mi bisogna governar la regina sera e mattina et ragionamenti di stato, di matrimonii et d'imbassatori. Che' Dio m'aiuti, ma io mi ritirerò a dispetto di Satana, che non mi lascia stare". Tenace, inestinguibile, inestirpabile - epperò inappagata - l'aspirazione allo studio appartato, metodico, continuato. Coll'onere d'una numerosa famiglia - "cinque cure o cinque piaghe" dice dei figli -, non se lo può permettere. Vorrebbe darsi all'esegesi biblica, all'apprendimento dell'ebraico, alla lettura sistematica di s. Bernardo, all'edizione delle laudi di Iacopone da Todi (di cui l'affascina il "miscuglio di lingua"), alla versione in prosa ducentesca di Villehardouin, alla filologia romanza, alla linguistica comparata. Suo proposito l'illustrazione completa del Decameron, con la cui prosa continua a rimescolarsi; l'indigna, così a Pinelli il 29 marzo 1585, "il Boccaccio", purgato del 1582, "di Salviati". "Sciocca cosa a vedere il modo fratino di disertare i libri; et, quanto a me anche a Roma lo stamperea sempre intero". Sua convinzione la "sororità" tra il francese e italiano che affonderebbe nel medioevo; sua intenzione l'allestimento d'un vocabolario "barbaro" che, sottratto all'angusta selezione degli accademici, l'avrebbe attestata. Velleitario, impaziente, dispersivo, è, come egli stesso ammette, "solito cominciare molte cose" senza "poterne finir alcuna". Colpa, a suo avviso, dei "tempi contrari", delle disparate "occupazioni", della "povertà più pesante". "Io son sì solo - si lamenta -, le occupazioni mie sì grandi, le imprese sì diverse che l'una insolla l'altra et così non conduco mai nulla".
Strattonato in tante troppe direzioni - lo tenta l'ispanistica, lo seduce la poesia provenzale, lo attirano gli azzardi etimologici, gli piacciono le improvvisazioni fonologiche -, ingombro di letture classiche che servono di miniera pei crescendo citatori della sua corrispondenza, sollecitato da incessanti e interferenti curiosità (ora cerca gli scritti di Ugo da S. Vittore, ora s'immerge nel poeta catalano Ausias March, ora vibra d'emozione per aver tra le mani "una scrittura di Lorenzino de' Medici... scritta di sua mano dove... giustifica" l'uccisione del tiranno "puramente et con elegantia", ora s'incanta di fronte ad un volgarizzamento del De civitate Dei in"carta pecora, con bellissime miniature"), la sua figura ha un che d'irrisolto, comunque risulta impoverita dalle sue effettive realizzazioni. C'è, nella saltuarietà di queste, un che di stentato, d'inadeguato rispetto al di più che avrebbe voluto fare. Forse è nella verve umorale delle lettere a Pinelli - ove non mancano momenti di scoppiettante accensione, pagine scintillanti - che il C. meglio conserva il ribollente fermento della sua ardimentosa erudizione, che può saltellare rapida e pungente senza attardarsi a "ritrovar i luoghi" con precisione. Cliente assiduo di librai, segugio annusante nei "bugigattoli" dove stipano la merce, capace di corteggiare anche "un traditor marrano" purché abbia "bellissimi libri tutti irreperibili", cacciatore instancabile di testi - anche per assecondare l'insaziabile ingordigia di Pinelli (questi, "armario di tutte le cose belle", rastrella, grazie e tramite il C., l'intera Francia) cui spedisce indefesso "casse" e, dopo un infortunio con pericolo di sequestro, meno vistosi "pacchetti" -, rovistatore famelico di librerie, il C., d'altra parte, vive in un periodo tremendo, convulso. E se ne rende conto. Spettatore dun "mondo lacrimevole", "miserabile", che espelle "ogni honestà... ogni vergogna", in cui - come constata il 18 dic. 1586 - la somma delle "miserie" e delle atrocità essicca la stessa capacità di pianto, in cui la ferocia prosciuga ogni sentimento di solidarietà umana e raggela, sino ad estinguerli, i sentimenti, sì che ognuno è abbarbicato al mero istinto di sopravvivenza biologica ("nessuno sente quel che è fuor di suo corpo"), la cultura è per lui ancora di salvataggio, argine contro la disperazione. La "sapientia" appresa dai classici serve realmente a vivere in "tempora", così a lui Giusto Lipsio, "pessima", ricolmi di "tempestates". Il C., malgrado tutto, conserva i suoi entusiasmi.
Donde i suoi molteplici rapporti coi dotti più agguerriti e i letterati più prestigiosi, il suo gusto per la conversazione, la sua inesausta capacità d'intrecciare corrispondenze, la sua onnivora disponibilità al proliferare degli incontri e delle letture. Quest'ultime scatenano la sua incontinente - anche se inconcludente: come è pronto ad iniziare, così è altrettanto pronto a smettere - smania di postillatore e chiosatore attestata da codici ed esemplari a stampa di cui terrà conto la futura filologia. È il caso, ad esempio, delle Istorie pistolesi... (cfr. L. Zdekauer, Intorno ai mss. delle "Ist. Pist.", in Arch. stor. it., s. 5, X [1892], pp. 332-338), la cui seconda edizione (Firenze 1733) s'avvale dell'"esemplare" della prima curata da Vincenzo Borghini (ibid. 1578) posseduto dal Corbinelli.
In questo - in totale disaccordo col curatore che "emenda" molte parole che, invece, "stavano a quel modo e stavano bene" perché prigioniero dell'erroneo schizzinoso criterio di non "dare introduzione a cosa che non fusse hoggi ricevuta" (e vibra, nella rampogna, la polemica colle scelte degli accademici subalterni ai Medici) - il C. elimina le "sconnessioni" e aggiunge "sustanziose annotazioni" a spiegazione di vari vocaboli e d'"antiche maniere di favellare". "Note" le sue riprese anche nell'edizione milanese del 1845.
Avvertibile altresì la sua influenza sull'uscita dei primi quattro libri della Syrys (Lutetiae 1582-84) di Bargeo; è un autore da lui caldeggiato ed è suo amico Germain Audebert, cui si debbono il "carmen" ad - Enrico III e quello al lettore che ivi figurano. E sempre ad Audebert il C. fornisce il manoscritto "un pò scorretto" del poemetto latino d'Ugolino Verino De illustratione... Florentiae..., che serve all'edizione parigina del 1583. Certo il C. non' è solo intenditore di codici, valutatore di manoscritti, ma anche collezionista in misura ben superiore a quanto possano far supporre le angustie, da lui sempre lamentate, della sua condizione economica.
Suo, ad esempio, un codice del 1380 col commento di Giovanni da Legnano al II libro delle Decretali di Gregorio IX. Ma suoi soprattutto gli attuali Chigiani L. IV. 133 con le rime di Della Casa (autore di cui l'attuale cod. 354 della Bibl. Interuniv. Sect. Médecine di Montpellier reca una decina di liriche trascritte dal C.), M. VI. 126 con la Rettorica volgarizzata d'Aristotele (di mano del C. l'indice dei capitoli, le postille in greco e latino) nonché - importantissimo - L. VI. 213 con la Commedia dantesca di mano di Boccaccio e L. V. 176, pure autografo boccaccesco, con la Vita di Dante, la Vita nova, la Canzone di Cavalcanti ecc. Quanto meno questi ultimi due accompagnano il C. dal 1562; le postille, stese da lui in tempi e con inchiostri diversi, oltre a testimoniare l'andamento discontinuo e sobbalzante del suo accanimento filologico, indicano anche come questo sia peraltro - pur nelle interruzioni - la costante della sua travagliata esistenza.
Cortigiano con dignità rara (Michel de l'Hopital l'elogia quale colui che "prope solus in aula" sa "servare modum... et praeferre bona inhonestis, quaestionibus artes"), dai tratti signorili pur nella relativa "povertà" (dispone, come risulta da una sua lettera, del 20 giugno 1581, a Pinelli, d'una "casa" arredata, d'una cameriera e d'un servitore), sempre come attesta de Thou, "nettament et proprement habillé", in grado di conversare senza soggezione con i personaggi più autorevoli, capace d'impegnare l'incostante Enrico III nel "tradurre... i sonetti di Petrarca" (così, incredulo, l'agente toscano, Giulio Busini in lettera, del 16 ag. 1580, a Belisario Vinta), talmente dotto da intrattenere, nel corso d'un banchetto, su questioni catulliane proprio un esperto come jean Passerat, il C. è anche tra quanti tallonano, assecondano, suggeriscono la linea politica che sempre più contrappone il sovrano ai ligueurs. Uomo dalla mente aperta (ben lungi dal condividere il generale sconcerto suscitato dall'Apologie pour Hérodote d'Henri Estienne, la giudica "libro d'eruditione et agl'animi composti di niuno scandalo"), che ha in uggia i "sorbonisti", le sue frequentazioni sono libere, disinvolte, persino imprudenti: nel solo 1585 è in confidenza con Botero, pranza, il 17 aprile, con "fra Moro", un predicatore "bandito" dallo Stato pontificio che il nunzio Girolamo Ragazzoni fa chiudere il 18 in "buona prigione", conosce alla fine dell'anno Giordano Bruno (ed è dalle lettere a Pinelli del C. che s'apprendono le tappe del dissidio tra quello e Fabrizio Mordente, agitato, appunto, da "collera bestiale" contro "il Nolano") apprezzandone la franca vena godereccia. "Piacevol compagnietto, epicuro per la vita" lo definisce. Intimissimo di Piero del Bene, sospetto agente del Navarra, la posizione del C.: non può che contrapporsi alla faziosità dei guisardi, al cattolicesimo oltranzistico degli zelés. Se Guicciardini può avergli offerto spunti per salvaguardare tra turbinose vicende la dignità individuale e per osservare, senza illusioni, l'esagitazione degli uomini, man mano scricchiola la tenuta dello Stato, man mano vacilla l'autorità monarchica è Machiavelli l'autore da valorizzare per una comprensione satura d'urgenze operative. Ed è, appunto, su Machiavelli che, nel cruciale biennio 1588-89, s'infittiscono le sue postille; ed è proprio il segretario fiorentino che il C. legge al sovrano minacciato. E - stando alla versione di Davila - la drastica eliminazione del duca di Guisa sarebbe riconducibile a siffatta suggestionante lettura: il re, deposta "l'apparenza di volpe", s'incarna nella terribile "generosità di lione". Una svolta decisiva alla quale il C., uomo di "molte lettere", avrebbe, dunque, contribuito.
Il C. morrà di lì a poco, al più tardi nel 1590. Postumo frutto della sua erudizione la stampa parigina del 1595 de La bella mano del romano Giusto de' Conti accompagnata da una silloge d'"antiche rime di diversi toscani"; il testo è stato dal C. "ristorato" collazionando l'incunabolo bolognese del 1472 donatogli dal vescovo di Reggio Benedetto Manzuoli con un manoscritto (il cod. It. 1034 della Bibl. nat.). Ancora una volta - da parte di quest'appassionato lettore di s. Caterina da Siena, Iacopone da Todi, Federico Frezzi - un allargamento del ventaglio d'autori della tradizione letteraria italiana, un suo nutriente ispessimento testuale in una direzione diversa da quella ispirante i filtri selettivi messi allora in atto nella Firenze medicea.
Nel 1607 due figli dei C., Raffaello e Piero, chiedono, malgrado "qualsivoglia pregiuditio" arrecato dal padre, d'essere considerati "devotissimi vassalli e servitori" granducali con conseguente possibilità di "rimpatriarsi quando la fortuna lo permettesse". Grazia loro concessa l'8 agosto. Curioso, tuttavia, che supplicanti e supplicati ignorino di cosa si sia reso colpevole il Corbinelli. Risultano, infatti, le citazioni, non la colpa. "Oggi qui", a Firenze, la famiglia Corbinelli è "estinta, sopravvivendone però un ramo in Francia" informa la Firenze... illustrata... (Firenze 1684, p. 53) di L. Del Migliore. Unico discendente diretto del C. vivente nel tardo Seicento suo nipote Jean (1615-1716), figlio di suo figlio Raffaello cortigiano di Maria de' Medici. Protetto del card. di Retz, ai servigi dell'influente libertino Bussy-Raputin, intimo di madame de Sevigné, autore di varie opere (cfr. P. M. Colon, Prélude au siècle des lum., VI, Genéve 1975, p. 125), specie d'una silloge d'espressioni amorose tratte dai "meilleurs poétes modernes" (Paris 1665 e, di nuovo, 1671) e d'un'Historie... de Gondi (Paris 1705) in due tomi. In questi, qualificandosi non immemore "gentilhomme originaire de Florence", ripercorre le vicende d'una famiglia anch'essa fiorentina d'origine e con la sua imparentata quando, il 4 marzo 1464, Maddalena Corbinelli di Bernardo s'accasa con Antonio Gondi di Leonardo. Quanto ai preziosi codici del C., la dispersione è già in atto nel '600, mentre il grosso dei suoi libri finirà a Scipione Boselli, un nobile bergamasco generale in Francia. Morto questì a Parigi nel 1747, il nipote omonimo ne vende l'intera biblioteca - includente, quindi, i libri già del C. - al monastero padovano di S. Giustina; e di lì la raccolta passerà alla Trivulziana di Milano.
Fonti e Bibl.: il più circostanziato profilo del C. resta quello di E. Calderini De Marchi, J. C. et les érudits franpais... Milano 1914, da integrare con le indic. bibliogr. precisate nelle voci a lui dedicate in C. Frati, Diz. bio-bibliogr. dei bibl., Firenze 1933, pp. 178 ss. (e Aggiunte ... di M. Parenti, I, ibid. 1957, pp. 287 s.); Ene. It., X, p. 363; L. Ferrari, onomasticon, Milano 1947, p. 226; Dict. de biogr. franpaise, IX, Paris 1961, coll. 610 s.; M. E. Cosenza, ... It. humanists.... II, Boston 1962, p. 1098; Diz. enc. della lett. it., II, Bari-Roma 1966, p. 124; Enc. dant., II, Roma 1970, p. 207, arricchibili con le ulteriori indicazioni in Rep. bibliogr. ... della lett. it. 1902-1932.... a cura di G. Prezzofini, I, Roma 1937, pp. 286 s. e ... 1933-1942, a cura dello stesso, I, New York 1946, p. 166; N. D. Evola, Bibliogr. ... studi lett. it., I, Milano 1938, p. 248; Indici del "Giorn. stor. della lett. it."..., a cura di C. Dionisotti, p. 212. Si aggiungono (o, talora, si ribadiscono) i seguenti rinvii: G. Muzio, Battaglia..., Vinegia 1582, ff. 13-23; L. Salviati, ... avvertimenti... al Decamerone..., I, Venezia 1584, p. 105; G. Lipsio, Epistolarum cénturia secunda, Francofurti 1592, pp. 10 s.; Nég. dipl. de la France avec la Toscane..., a cura di G. Canestrini-A. Desiardins, IV, Paris 1872, pp. 139, 527 (ove il C. è esplicitamente nominato; ma cfr. anche pp. 119, 121, 149, 171, 235, 432 s.); G. Ragazzoni, Correspondance de... nunciature..., a cura di P. Blet, Rome-Paris 1962, p. 400; A. Dandino, Correspondance... France, a cura di J. Cloulas, Rome-Paris 1970, pp. 109, 609, 621, 651, 672, 679; A. M. Salviati, Correspondance... France..., I, a cura di P. Hurtubise, Rome 1975, p. 605; A. Caro, Lettere, a cura di A. Greco, III, Firenze 1961, pp. 91 s., 106; D. Giannotti, Lett. ined., a cura di L. Ferrai, in Atti d. Ist. ven. di sc. lett. ed arti, s. 6, 111 (1884-85), pp. 1584-1588; Id., Lettera a P. Vettori, a cura di R. Ridolfi-C. Roth, Firenze 1932, pp. 29 n. 2, 34 n. 3, 35 n. 1, 139; Scaligeriana, Thuana, II, Amsterdam 1740, pp. 36 s.; G. V. Gravina, Scritti, a cura di A. Quondam Bari 1973, p. 281; D. M. Manni, nella pref. a "L'etica" di Aristotele e la retorica di M. Tullio, Firenze 1734; G. Cinelli Calvoli, Bibl. vol., IV, Venezia 1747, p. 195; Cod. ... volgari della Bibl. Naniana..., a cura di I. Morelli, Venetiis 1776, p. 140; La libreria ... Pinelli..., a cura dello stesso, IV, Venezia 1787, nn. 2150, 2230; U. Foscolo, Saggi e discorsi critici, a cura di C. Foligno, Firenze 1953, p. 322; Id., Opere, a cura di F. Gavazzeni, Milano-Napoli 1976-81, p. 1841; Id. Studi su Dante, I, a cura di G. Da Pozzo, Firenze 1979, pp. 396, 425 ss., 463, 489, 491; F. Zambrini, ... ed. ... di G. Boccacci, Bologna 1875, p. 119; Id., Le opere volgari a stampa, Bologna 1879, coll. 163, 420, 529; E. Fremy, L'académie des demiers Valois, Paris 1885, p. 124; A. Solerti, ...T. 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