CAVICEO (Cavizzi), Iacopo
Secondo la biografia di Giorgio Anselmi, suo concittadino e contemporaneo, il C. nacque a Parma il 1° maggio 1443 da Antonio e da una Margherita. L'anno resta confermato da una testimonianza diretta, l'epigrafe che ancor oggi si legge nel duomo della città natale, e da un passo autobiografico della Vita Petri Mariae de Rubeis, in cui il C. dichiara di aver avuto nel 1447 circa quattro anni.
Meno convincenti sembrano invece il mese e il giorno, per la coincidenza col noto topos letterario caro a certa tradizione cortese, di cui anche l'opera del C. è imbevuta. Si ricordi, a questo proposito, che il romanzo del Peregrino si apre proprio con l'innamoramento del protagonista per Ginevra, che avviene "il primo di di magio, giorno dicato alli amanti"; né è fuori luogo rievocare, la situazione quasi analoga dell'Hypnerotomachia Poliphili. D'altra parte le parole dell'Anselmi a proposito dell'episodio vissuto da Antonio, padre del C., proprio al momento della nascita di quest'ultimo, sembrano voler suggellarne un irreversibile destino amoroso.
Escludendo qualche aneddoto scarsamente documentato, le notizie sull'origine della famiglia sono esigue e non risalgono oltre la generazione del nonno, omonimo dell'autore del Peregrino, esiliato da Parma ai tempi della tirannia di Ottobuono Terzi. Questo fatto ci permette di dedurre che già a quei tempi i Cavicei dovevano essersi messi sotto la protezione del grande casato rivale dei Terzi, quello dei Rossi, marchesi di San Secondo. Ed è importante ricordare come anche le sorti delle generazioni future della famiglia saranno legate a quella di questi potenti feudatari. I Cavicei (nobilitazione umanistica della forma originaria Cavizzi), non nobili, oriundi di Parma, furono uniti da una salda tradizione che li tenne radicati alla vicinia della SS. Trinità, dove ricostituirono a più riprese il patrimonio, disfatto di volta in volta da burrascose vicende politiche. Da Giacomo, dedito alla piccola mercatura, nacque Antonio, la cui attività non è del tutto nota. Le testimonianze a questo proposito sono discordanti, ma da un passo dell'opera estrema del C., il Confessionale, eda un atto di compravendita del 1477, in cui appare col titolo di magister, possiamo escludere che egli abbia seguito il padre nel commercio. È difficile conoscere il valore esatto di tale qualifica, ma è probabile che essa stia ad indicaresemplicemente la professione di insegnante e non il conseguimento di un dottorato: egli insegnò forse in qualche scuola privata o fu precettore in famiglie della nobiltà o dell'alta borghesia. Siamo comunque di fronte ad un sicuro avanzamento sociale rispetto alla generazione del padre. Al C., primogenito, seguirono due fratelli, Leonardo e Cristoforo, il primo dei quali fu strettamente legato all'esistenza dell'autore del Peregrino.
Pochissimo si sa della formazione culturale del Caviceo. Egli trascorse certamente la fanciullezza a Parma, secondo quello che risulta da tenui ma sicuri ricordi autobiografici. Lo si trova poi studente di diritto a Bologna, ma in un periodo non precisabile. L'ipotesi che egli sia stato anteriormente discepolo del poeta parmense Antonio Tridentone, basata su fragili argomenti, va del tutto abbandonata. Certo è che nella prima parte della sua vita egli non diede alcuna prova di sé in campo letterario, ma spese le sue forze nella pratica forense, che avrà d'altronde riflesso anche nella sua produzione artistica, come ben dicono le amicizie con i più illustri giuristi ferraresi evocati nel Peregrino.
Il soggiorno a Bologna non durò molto, comunque non abbastanza per permettergli di terminare il normale curriculum di studi. Il suo carattere rissoso lo costrinse ad abbandonare in gran fretta l'università, per evitare di venirne espulso. Non gli rimase che tornare a Parma, senza aver conseguito per via regolare i titoli di studio; più tardi egli cercherà di raggiungere con altri mezzi lo stesso risultato, facendosi conferire, nel 1489, a Pordenone, il titolo di doctor utriusque iuris da Federico III, solito a concessioni del genere. Altro elemento non trascurabile sul piano della formazione culturale, rispettivamente sui versanti delle conoscenze teologiche e umanistiche, fu la stretta amicizia che egli ebbe con i minori osservanti della SS. Annunziata di Parma, dove esisteva una notevole biblioteca; il legame coi francescani durerà a lungo nella sua vita avventurosa, come attesta il commosso ricordo di Domenico Ponzon nel Peregrino.
In questo periodo il C. dovrebbe anche avere scelto lo stato ecclesiastico; quando di preciso non si sa. È attestato un soggiorno a Roma, non lungo, certamente di durata non superiore ad un anno, dopoil quale lo troviamo già ordinato sacerdote e intento alla predicazione e, più tardi, alla pratica del notariato. Ma il C. non fu un ecclesiastico esemplare. Poco dopo il ritorno in patria, una tresca con una monaca e il grave ferimento di un uomo lo fecero mettere sotto processo; egli sfuggì alla condanna solo con un esilio volontario, prima a Verona, poi a Venezia e infine in Oriente. Il viaggio sarebbe, durato tre anni. Le perigliose navigazioni che occupano gran parte del suo romanzo dovrebbero riflettere questo squarcio di vita vissuta. Tali vicende si svolsero probabilmente tra il 1460 e il 1469.
A partire da quest'anno i documenti sulla sua vita si fanno più fitti e la sua presenza a Parma è largamente testimoniata. Gli avvenimenti di questo periodo non fanno che completare la figura sconcertante che già si era venuta delineando: ribellioni, risse, incontinenza e faziosità politica. Lo screzio col vescovo Giacomo Antonio Della Torre fu gravissimo e portò alla carcerazione del C. da parte di Galeazzo Maria Sforza e al suo trasferimento ad Alessandria, dove fu presto rilasciato per intervento di Cicco Simonetta. Dal 1472 assistiamo alla sua ascesa nella carriera ecclesiastica e al suo avanzamento nella clientela della potente famiglia dei Rossi; la prima strettamente condizionata dai favori di questi ultimi. Dall'acquisizione di benefici minori (sempre sorvegliati dai Rossi attraverso l'influente Ugolino, abate di S. Giovanni Evangelista), rapidamente passa all'arcipretura di Corniglio verso il 1480, raccogliendo lungo il cammi no anche un beneficio nella cattedrale di Parma. Quanto ai Rossi, il C. li servì in ogni modo: con la spada, con la penna, con la sua esperienza giuridica, con il suo acuto fiuto per l'intrigo e con la sua abilità diplomatica che gli valse l'ufficio di oratore a Venezia. Il legame coi Rossi spiega anche le sue tumultuose vicende di quegli anni, finite con la confisca dei beni e la condanna all'esilio nel 1482, quando i Rossi persero definitivamente la loro partita. Durante l'esilio egli rimase fedele ai suoi signori prestando servizio presso il vecchio Pier Maria e poi presso il figlio Guido, di cui appoggiò le rivendicazioni e condivise le speranze di un definitivo ritorno a Parma.
Èquesto il periodo della più intensa attività politica e diplomatica del C. in campo secolare, attività cui la coincidenza della guerra di Ferrara diede un rilievo notevole. Infatti nel 1482 egli è a Venezia come oratore dei Rossi. La sua presenza in questa città è attestata fino al marzo del 1485, data in cui egli si recò per breve tempo a Treviso come procuratore del vescovo Bernardo Rossi, figlio di Guido. Terminata nel 1484 la guerra di Ferrara, il C. si risolse ad entrare al servizio del doge Marco Barbarigo. Il fratello di questo, Agostino, successogli nel 1486, non fu in buoni rapporti con lui, e questi precipitarono nel 1491, allorché, Agostino ordinò al podestà di Conegliano di espellere il C. dal territorio veneto,. conoscendo "pessimam naturam et modos malignos... Iacobi Cavicaci istic comorantis, et quod dum istic permanebit nomisi ab eo potest provenire nisi pestilens morbus". È probabile che per questo il C. avesse già abbandonato il servizio ducale per ritirarsi a Conegliano dove Guido Rossi dimorava fino dall'anno 1486. Col suo signore lo troviamo infatti nel 1487 a Rovereto, a combattere per la causa veneziana contro gli Imperiali. Alcune testimonianze attestano la presenza del C. a Conegliano nel periodo 1489-491: per il 1489 la data riscontrata alla fine di due opuscoli che rappresentano anche le sue prime prove letterarie, la Lupa e il De exilio Cupidinis; per il 1490 due lettere autografe che informano Guido Rossi di alcune missioni segrete; per il 1491 la riconferma dell'affitto da parte dei Rossi di un manso di vaste dimensioni. Poi, di nuovo per quest'anno, l'ordine di abbandonare il territorio veneto.
Cacciato da Conegliano, il C. si rifugiò quasi sicuramente a Pordenone, dove contava numerose amicizie risalenti al 1489 o anche a prima. Di questo fatto è testimonianza la lettera del 18 aprile di quell'anno a Severino Calco, canonico lateranense. In essa egli loda la calda accoglienza di Lazzarino da Rimini e l'erudizione di Princisvalle Mantica, amici suoi, che egli accomunerà nel Peregrino. E proprio la persona di Lazzarino da Rimini sembra costituire la mediazione per il suo prossimo incarico: il vicariato generale della diocesi di Rimini, da lui tenuto dal 1492 al 1494.
A questo punto si registra nell'esistenza del C. una netta svolta che lo porta dagli ambienti laici a un'attività prettamente ecclesiastica. La scomparsa di Guido Rossi gli aveva chiuso la possibilità di una carriera con agganci politici o militari; l'ottenimento della laurea nei due diritti gli assicurava in sacris un successo maggiore di quanto potessero prospettargli i negozi secolareschi. Si assiste così, nel corso di un ventennio, a una vera girandola di incarichi, sempre con l'alta qualifica di vicario generale, nelle diverse sedi di Rimini, Ravenna, Firenze, Siena: e a parte la fase finale è un'ascesa continua.
La questione dell'incarico a Ravenna comporta qualche difficoltà d'ordine istituzionale. Infatti i biografi concordemente affermano che il C. risiedette a Ferrara, donde se ne dedusse erroneamente che egli fosse vicario generale di quella diocesi. Risulta invece dai documenti che era al servizio dell'arcivescovo di Ravenna Filiasio Roverella, al cui vicario generale era concesso, per volontà del duca Ercole I d'Este, di soggiornare in Ferrara, a causa dei numerosi affittuari che la diocesi di Ravenna possedeva sul territorio estense. I rogiti notarili, che dal 1494 al 1500 certificano la presenza del C. a Ferrara, sono per la maggior parte di ordine amministrativo. Egli compare a volte nella veste legale di parte concedente (tale era infatti la mansione propria del vicario vescovile), a volte in cariche strettamente connesse col titolo di segretario imperiale e di conte palatino. Quest'ultima qualifica comportava parecchi privilegi, tra cui quello di conferire dei dottorati: vediamo così il 20 agosto dello stesso anno il C. assegnare una laurea in diritto canonico ad un giovane cliente degli Este, nonostante l'età incongrua per tale titolo.
Se quest'ultimo episodio mette bene in rilievo la disinvoltura morale del C., le numerose testimonianze della sua attività ecclesiastico-amministrativa, a prima vista aride, servono a illuminarne il profilo umano: abilità negli affari congiunta a una spregiudicatezza che lo porterà sull'orlo della scomunica, intimo assecondamento delle cupidigie familiari del vescovo Roverella a detrimento anche del patrimonio ecclesiastico, unito alle relazioni più raffinate con personaggi del gran mondo e dell'alta cultura ferrarese. In questo senso, più che non i documenti d'archivio, parla la sua opera letteraria, piena di echi autobiografici: gli stessi personaggi che da una parte compaiono come testi o come parti interessate negli atti notarili si affacciano dall'altra come comprimari nel Peregrino, dove finzione e realtà si incontrano e si fondono in un riuscito affresco.
L'ultima presenza certa del C. nella città estense è del 14 marzo 1500. Sui suoi ultimi anni abbiamo scarse notizie, mentre si infittiscono le testimonianze della sua attività letteraria. Essa, iniziata tardi, cioè dopo i quarant'anni, e pur non essendo molto consistente, tocca però una ricca gamma di generi letterari: opere di fantasia nel genere del dialogo latino, opere encomiastiche di ispirazione storico-biografica, opere di carattere teologico.
Al primo genere appartengono tre dialoghi di ispirazione unignistica. Il De exilio Cupidinis (titolo originale: Nicolao Preiulo Maphei filio patritioveneto Corneliani pretorem gerenti in exilium Cupidinis Iacobus Caviceus, Grecus, Latinus, s. n. t.), composto a Conegliano dopo iI 7 giugno 1489, si rifà ad un filone di letteratura amorosa diffuso nel Veneto (accanto si possono citare gli esempi dell'Hypnerotomachia, del dialogo di Piero del Zocolo e, per antitesi, dell'Anteros di Pietro Edo); la Lupa (titolo originale: Beltrando de Rubeis Parmensi Guidonis legionis venetae ducis filios, s. n. t.) terminato a Conegliano il 5 luglio 1489, breve racconto in cui l'autore gioca sull'ambiguità del sostantivo lupa: lupa dell'antica koina e lupa di Conegliano, luogo d'origine della nobile famiglia dei Lupi a cui appartiene la donna elogiata; il Dialogus de moribus nostrae aetatis, rimasto manoscritto fino alla fine del secolo scorso (edito da L. Callari, Un dialogo inedito di Iacopo Caviceo, in Arch. stor. per le prov. parmensi, III [1894], pp. 1-26), probabilmente parte di un'opera più vasta, i Dialoghi sulla miseria dei curiali, citata dall'Anselmi e di cui non si hanno ulteriori notizie.
Nell'ambito degli interessi umanistici rientra pure un commento alle Epistolae Heroides di Ovidio, ricordato dall'Anselmi e non altrimenti noto. Al secondo gruppo appartengono opere di carattere biografico e di tono encomiastico, ma di scarsa attendibilità storica. Si tratta di tre operette ascrivibili alla cronaca contemporanea: la Vita Petri Mariae de Rubeis (titolo originale: Maximo humanae imbecilitatis simulachro fortunae bifronti vita Petri Mariae de Rubeis viri illustris, s. n. t.), pubblicata a Venezia tra il 1485 e il 1490; il De bello Roboretano (titolo originale: Amicus quisquis es tam latinus quam graecus me liberum scito, huiusque mei lugubrationes laboris solus habeto sum, s. n. t.), terminato il 23 nov. 1487 in onore di Guido Rossi, figlio di Pier Maria, e gli Urbium dicta ad Maximilianum Federici tertii Caesaris filiun Romanorum regem triumphantissimum, s. n. t.) in lode di Massimiliano, futuro imperatore, e pubblicati dopo il 16 marzo 1491.
Un terzo gruppo di opere appartiene alla trattatistica teologica: la già menzionata lettera al canonico lateranense S. Calco (titolo originale: Severino Calcho regulari canonico benemerenti, s. n. t.) del 18 apr. 1489, in cui si discutono i passi dei sinottici riguardanti la verginità di Maria; l'inedito Libellus contra Hebreos (contenuto nel cod. G. VI. I della Bibl. com. di Siena), e inoltre due opere che rivelano anche un interesse giuridico: un opuscolo De raptu filiae (titolo originale: Antonio archidiacono Urbevetanensi dialogus de raptu filiae, s.n. t.), pubblicato probabilmente a Roma nel 1494, e, soprattutto, il Confessionale utilissimum (Parmae 1500, opera più tarda e di proporzioni più ampie, che entra in un noto filone ben rappresentato nella produzione a stampa di fine '400.
Ma la fatica più importante del C. è senz'altro il suo romanzo, il Peregrino, in volgare, edito a Parma nel 1508. L'opera si differenzia in maniera netta dal resto della sua produzione letteraria, che è di ispirazione umanistica e scritta in latino, e nasce da sorgenti culturali diverse. Il Peregrino è posto sotto la paternità del Boccaccio che, apparendo in sogno all'autore, canta le lodi di Lucrezia Borgia, dedicataria dell'opera. Il romanzo, volutamente retrodatato dall'autore, è ambientato nella Ferrara di Ercole I. La vicenda è tutta imperniata sulle lunghe peregrinazioni del protagonista prima dell'appagamento del suo sogno Wamore. Innamoratosi fin dal primo incontro di Ginevra, Peregrino desidera ardentemente rivederla, quando riceve da lei uno strano messaggio, grazie alla compiacenza della serva Astanna. Mentre egli cerca affannosamente Ginevra, cade nelle mani di alcuni sbirri che seguono le tracce di un omicida. Scambiato per il colpevole, è sottoposto ad un lungo processo, dal quale esce innocente, grazie alla strenua difesa del grande giurista Antonio dai Liuti. Dopodiché Peregrino tenta di farsi ricevere dall'amata, nascosto dentro a una statua di legno di s. Caterina. Colpevole di sacrilegio, è sollecitato dalla donna a recarsi in Levante per espiare il suo peccato. Ha inizio così il periglioso viaggio del protagonista, accompagnato dal fido amico Acate. Infinite sono le loro avventure prima di raggiungere di nuovo Ferrara. Qui Peregrino apprende con immenso dolore che Ginevra è stata rinchiusa in un monastero; riparte allora per l'Oriente per consultare un oracolo che gli sappia indicare dove è la donna amata. Giunto da un eremita, che lo fa cadere in un sonno pro fondo, visita gli Inferi, e qui trova accomunati i più bei nomi dell'aristocrazia italiana, e anche Astanna che gli rivela dove si trova Ginevra. Tra i vivi egli continua il suo viaggio attraverso l'India, Rodi, Creta e di nuovo sbarca in Italia, a Rimini; lo accoglie amorevolmente Elisabetta Gonzaga. A Ravenna, finalmente, ha la conferma che Ginevra è in un monastero di quella città. Con la complicità della badessa vengono celebrate le nozze dei due amanti. Ma la felicità è di breve durata. Ginevra nove mesi dopo muore di parto e Peregrino, non reggendo al dolore, di lì a poco la segue nella tomba.
Il filo narrativo, modellato su temi boccacceschi derivanti soprattutto dall'Amorosavisione e dal Filocolo, è abbastanza esile e continuamente interrotto dai monologhi o dai dialoghi di. tipo amoroso, a sfondo filosofico e di carattere erudito, da dibattiti giudiziari e da lunghi excursus consolatori. Ma, al di là dell'ispirazione boccaccesca, il C. affronta con il Peregrino un genere del tutto nuovo, quello della prosa di fantasia, che aveva quale immediato precedente Sabadino degli Arienti; diversamente da lui il C. tenta tuttavia di unificare la materia frammentaria delle novelle in un racconto unico, riprendendo in questo il tentativo di Francesco Colonna. Del resto il Peregrino ci riporta all'opera del frate veneziano anche per la lingua, in particolare per l'equivoco sintattico e lessicale che ristabilisce fra latino pedantesco e volgare (ma il C. è infinitamente più Moderato del Colonna). La novità maggiore del C. consiste nell'aver introdotto numerosi elementi contemporanei in una cornice di racconto fantastico, e nell'aver sapientemente accomunato tradizioni letterarie eterogenee, dalla novella al dialogo umanistico, dal dialogo giuridico alle epistole, cercando in tal modo una pacifica coesistenza fra l'eredità umanistica e quella volgare.
Lasciata Ferrara, nel 1500, il C. si recò a Firenze in qualità di vicario generale dell'arcivescovo Rinaldo Orsini. La sua presenza vi è documentata dal 24 luglio 1500 al 1501. Di là si trasferì a Siena, ma vi rimase poco tempo. L'Anselmi ci dice che da Siena assò a Montecchio, dove aveva già sostato nel 1481, poi di nuovo a Siena con la mansione di vicario generale, mansione che mantenne fin quasi alla fine della vita.
Tornato per l'ultima volta a Montecchio, vi morì il 3 giugno 1511.
La fortuna del Peregrino, testimoniata da una ventina di edizioni in circa mezzo secolo, fu immediata e grandissima. La princeps apparve a Parma nel 1508 col titolo Libro del Peregrino; nella stessacittà l'opera fu ristampata postuma nel 1513con correzioni linguistiche di ignoto e con l'aggiunta di una biografia del C. dovuta a Giorgio Anselmi. A questa ne seguirono numerose altre in Italia nel corso del sec. XVI. Dopo di allora il romanzo non fu piùstampato, se si eccettua la pubblicaz. di alcuni brani antologici in E. Carrara, Opere di Iacopo Sannazaro con saggi sull'Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna e del Peregrino di Iacopo Caviceo, Torino 1952, pp. 393-466. La prima traduzione francese uscì a Parigi nel 1527, seguita da altre cinque negli anni 1528-35. Una traduzione spagnola fu pubblicata a Siviglia nel 1520.
Bibl.: Oltre al citato Anselmi, cfr. I. Affò, Mem. degli scrittori e letterati parmigiani, III,Parma 1791, pp. 79-104, 197; A. Pezzana, Mem. degli scrittori e letterati parmigiani, VI, 2, Parma 1827, pp. 365-77; Storia della città di Parma, I, Parma 1837, p. 4; II, ibid. 1842, pp. 532-34, 648, 710, 712 s., 717, 724 s.; III, ibid. 1847, pp. 137-39, 310 s.; IV, ibid. 1852, pp. 19, 300 s.; V, ibid. 1859, pp. 239 s.; A. Ronchini, I. C., in Atti e mem. d. Dep. di st. patria per le prov. Modenesi, IV (1868), pp. 209-19; E. Faelli, Scrittori parmensi dimenticati, I. C., in Arch. stor. per le prov. parmensi, s. 2, XXII (1922), pp. 7-14; E. Menegazzo, Per la biogr. di Francesco Colonna, in Italia medioevale e umanistica, V (1962), pp. 267-69; G. Liberali, Lotto, Pordenone e Tiziano a Treviso, in Mem. d. Ist. veneto di scienze, lettere ed arti, classe di scienze morali e letter., XXXIII (1963), pp. 75 s.; C. Piana, Ricerche su le Univers. di Bologna e di Parma, Quaracchi 1963, p. 428; A. Franceschini, Privilegi dottorali inediti allo Studio di Ferrara, in Ferrara viva, XIII-XIV(1965), p. 223, n. 18. Per la fortuna del Peregrino cfr.A. Scolari, Un romanzo veronese dedicato ad Isabella d'Este, in Giorn. stor. della lett. ital., LXXXIV (1924), pp. 75-83. Mancano quasi totalmente studi e giudizi sull'opera lett. del Caviceo. Si veda:. L. Callari, Un dialogo inedito di I. C., in Arch. stor. per le provincie parmensi, III(1894), pp. 1-2, 6; V. Rossi, Storia letter. d'Italia. Il Quattrocento, Milano 1956, pp. 197 s.; M. T. Casella-G. Pozzi, F. Colonna..., Padova 1959, I, p. 99; II, pp. 97 s., 127, 254, 308; M. Turchi, I. C. o del compromesso tra avvent. e retorica, in Aurea Parma, XLIV (1960), pp. 145-56; R. Tentolini, Un "best-seller" del Cinquecento. "Il Libro del Peregrino" ..., in Parma per l'arte, XI(1961), pp. 3-9; M. Turchi, Compos. e situaz. del romanzo umanistico di I. C., in Aurea Parma, XLVI (1962), pp. 8-19; Id., Tra le carte di I. C. uomo di corte e soldato, in Parma per l'arte, XV(1965), pp. 3-9; D. De Robertis, L'esperienza poetica del Quattrocento, in Storia della letter. ital. Garzanti, III, Milano 1966, pp. 636-40, 779; L. Simona, G. C. uomo di chiesa, d'armi e di lettere, Berna 1974.